Dossier divorzio: idee, cifre, situazione attuale.
Di Libertà e Persona (del 04/05/2009 @ 19:55:14, in Divorzio, linkato 2400 volte)

Introduzione: negli ultimi anni in Italia e in Europa i divorzi crescono enormemente di numero.

Più si procede più il tessuto familiare e sociale si disgrega. Nel 2006 i divorzi sono cresciuti del 25%. Nel 1975 i divorzi nel Belpaese erano 10.618, nel 1995 erano 27.038, nel 1998 erano 33.510, nel 2002 40.051, nel 2005 47.036 e nel 2006 61.153!

Che uno sia favorevole o meno all'istituto giuridico del divorzio, non si può non riconoscere che esso è sempre un dramma, una ferita, che non si rimargina, e che si ripercuote ogni anno, su migliaia e migliaia di figli. Abbiamo pensato di affrontare l'argomento con:

1) un brano del laico Piero Ottone;

2) una riflessione del filosofo cattolico Samek Lodovici;

3) un brano dal libro Il pianeta delle scimmie, dei mitici Gnocchi-Palmaro

4) alcuni brani del recente libro dell'avvocato familiarista Massimiliano Fiorin, La fabbrica dei divorzi (san Paolo)

 

1) Piero Ottone, direttore liberale e laico del Corriere della Sera, nel 1964 scriveva: “Se fossi vissuto sempre in Italia probabilmente sarei un divorzista. Ho invece trascorso una quindicina di anni in paesi nei quali vige il divorzio (sappiamo del resto che vige quasi ovunque). Sulla base di quel che ho visto e sentito, ho acquistato alcune convinzioni che cercherò di riassumere, e che sono, comunque, contrarie al divorzio…non perché contrasti con la morale cristiana, che rispetto, ma che non intendo prendere in considerazione (Ottone si schiererà per l’aborto, ndr) .

 Bensì perché lo ritengo nocivo, nel complesso, alla società... Il divorzio ha il vantaggio di riparare l’errore di un matrimonio sbagliato e permette di ricominciare. D’accordo. Ma presenta anche uno svantaggio che è, a mio avviso, ancora maggiore. Esso uccide, o riduce fortemente, la volontà dei coniugi di compiere ogni possibile sforzo per salvare un matrimonio pericolante. Dobbiamo ricordare innanzitutto che ogni matrimonio, prima o dopo, corre qualche serio pericolo. Uomini e donne sono troppo diversi gli uni dagli altri per andare costantemente d’accordo…Che cosa succede in questo momento pressoché inevitabile in qualsiasi unione matrimoniale, se esiste la possibilità del divorzio? Quel che succede l’ho visto in Inghilterra, in Germania, in Scandinavia. La possibilità di uscire da una stanza in cui si sta scomodi genera un potente, quasi irresistibile desiderio di uscire, senza tentare di rendere quella stanza, quanto più possibile, comoda e abitabile. E ogni indebolimento della volontà dei coniugi è gravissimo, anzi fatale, perché, nei matrimoni davvero pericolanti, solo un grande sforzo da parte di entrambi, senza indecisioni e incertezze, può salvarli. Ne consegue che l’istituto del divorzio, anche se ha il vantaggio di sanare di tanto in tanto le situazioni insostenibili, ha il gravissimo difetto di indebolire la fibra morale dei cittadini.

Esso fa di loro, uomini e donne, persone che fuggono davanti alle difficoltà, e non persone che le affrontano con coraggio. Il danno si ripercuote su tutta la vita sociale. L’indebolimento, inoltre, si ripete a ogni successivo matrimonio di chi si sia già divorziato. L’esperienza dei paesi col divorzio conferma quanto sa benissimo ogni studioso di psicologia. Le difficoltà del primo matrimonio risorgono quasi immutate nel secondo, perché la loro causa fondamentale non risiede nel partner, cioè nell’altro coniuge, bensì in noi stessi…Là dove vige il divorzio è più facile, come in Scandinavia, la gente passa di matrimonio in divorzio tutta la vita. Vi risparmio la descrizione delle conseguenze per i figli, perché furono descritte già migliaia di volte…Sono convinto che l’assenza di divorzio non può salvare tutti i matrimoni, ma ne salva molti che altrimenti finirebbero male. Lo Stato, per la salvezza della famiglia, che è un istituto di importanza ovvia, e per la felicità della maggioranza dei cittadini, fa quindi bene a mio avviso a non permettere il divorzio, anche se questo sacrifica l’esistenza di una minoranza verso i quali tutti sentiamo, si capisce, una profonda comprensione” (citato in "Scritti di un pro life", Fede & Cultura, www.fedecultura.com).

 

2) “Famiglia e divorzio: se non è per sempre non è matrimonio”

Nel dibattito sul divorzio che si svolse trent’anni fa’ all’epoca del referendum, e nei discorsi su questo tema che si fanno tutt’oggi, si deve rilevare un grande equivoco, cioè l’erronea convinzione secondo cui solo i credenti, mediante la fede, possono sostenere l’indissolubilità del matrimonio. Quest’opinione è errata, perché l’indissolubilità del matrimonio religioso non è solo una verità di fede, bensì anche una verità che qualunque uomo può comprendere, anche se non è cristiano, anche se è ateo, mediante la sola ragione. Sembra paradossale, ma possiamo dimostrare che non lo è. Per comprenderlo bisogna riflettere sul contenuto del consenso che gli sposi esprimono nel momento del matrimonio.

Infatti il matrimonio nasce dal consenso libero degli sposi che si promettono: a) l’amore esclusivo, la donazione per tutta la vita, qualsiasi cosa accada; b) l’apertura alla generazione/educazione dei figli. Chi non promette queste due cose, o le promette, ma senza essere sincero, o le promette sotto costrizione, non è mai stato sposato. Perciò in casi simili è improprio dire che il matrimonio tra due persone è annullato, perché più propriamente esso è nullo fin dal principio, vale a dire non c’è mai stato. Quindi in questi casi non si verifica una rescissione del legame matrimoniale e dunque non c’è divorzio, bensì solo la presa di consapevolezza che tale legame non è mai sussistito.

Cerchiamo ora di chiarire un altro punto: due coniugi promettono di amarsi, in modo esclusivo, qualsiasi cosa accada, ma che cosa significa amare? Che cos’è l’amore a cui si impegnano vicendevolmente? Amare una persona non significa, almeno non primariamente, provare trasporto verso di essa, avvertirne il fascino, esserne emotivamente attratti, «stare bene insieme». L’amore è accompagnato sovente dal sentimento, dal fascino, dallo stare bene insieme, ma non coincide con il sentimento (che pure è importante, e che non si deve svalutare e che certamente è un elemento molto apprezzabile nella scelta del coniuge), col fascino e con lo stare bene insieme. Il greco e non cristiano Aristotele già nel IV sec. a.C. ha spiegato che l’amore è un atto della volontà, che amare significa volere il bene dell’altro (cfr. Retorica 2,4).

Dire «ti voglio bene» significa «io voglio il tuo bene», cioè io desidero il tuo bene, cerco di realizzare il tuo bene, di procurarlo, di favorirlo. Per es., anche se mio figlio mi disgusta per il suo comportamento, al punto che ne sono emotivamente respinto, io lo amo se cerco di favorire lo stesso il suo bene, la sua crescita, la sua istruzione, ecc. Non solo, ma amare una persona significa amarla nella sua identità, cioè amare il suo io, che è unico e irripetibile, amarla per ciò che è in modo irripetibile, non per delle caratteristiche che anche altre persone possono avere, come la simpatia, la bellezza, la ricchezza, la gradevolezza, la gentilezza, ecc. Amare veramente una persona non significa tendere verso la sua simpatia, bellezza, ricchezza, ecc.; chi ama la simpatia, la bellezza, la ricchezza di una persona, in realtà non sta amando quella persona, ma sta amando se stesso e, consapevolmente o inconsapevolmente, sta usando l’altra persona per il proprio bene: infatti lo scopo con cui coltiva la relazione con l’altra persona è il conseguimento del proprio piacere o della propria utilità, che sono prodotti dalla simpatia, bellezza, ricchezza, e gradevolezza dell’altra persona. È sempre il greco e non cristiano Aristotele (Etica Nicomachea 1156a 14-24) a dirlo.

Ciò significa che due persone sposate, avendo promesso di amarsi per tutta la vita, qualsiasi cosa accada, hanno promesso di cercare il bene del coniuge, di amarlo nella sua identità irripetibile ed unica. Se il contenuto della loro promessa non era questo, essi non sono mai stati sposati. Ebbene, se consideriamo che nel momento del consenso due sposi si sono impegnati liberamente e consapevolmente: a) ad amarsi (cioè a volere e cercare il bene dell’altro) in modo esclusivo, qualsiasi cosa accada; b) ad essere aperti alla vita; possiamo comprendere con la sola ragione, senza ricorrere alla fede, che il matrimonio è indissolubile. Infatti, i coniugi si sono presi l’impegno di volersi reciprocamente bene qualsiasi cosa accada, di donarsi all’altro, al suo io unico e irripetibile, alla sua identità personale.

Ora, le caratteristiche fisiche e psicologiche di un uomo, o il suo status sociale possono mutare: un uomo bello, simpatico ed estroverso, può diventare brutto, antipatico, e introverso; un uomo ricco e famoso può diventare povero, disonorato; ma l’identità personale di un uomo non può mutare: è lo stesso uomo quello che si vede nelle ecografie di concepito, nelle foto da neonato, da bambino, da adolescente, da adulto, da vecchio, anche se le sue caratteristiche fisiche fossero completamente cambiate, anche se da ricco, bello, potente, simpatico, ecc., fosse diventato povero, brutto e antipatico. Ma, allora, se gli sposi si sono impegnati ad amare per tutta la vita il coniuge, qualsiasi cosa accada, in ciò che costituisce la sua identità personale, visto che questa identità non muta mai, la loro promessa non può essere sciolta, qualsiasi cosa accada, dunque il matrimonio è indissolubile e il divorzio è un atto gravemente immorale. Si potrebbe obbiettare: quando tra due coniugi non c’è più il sentimento iniziale il matrimonio non sussiste più, perché il sentimento non si può produrre.

Rispondiamo: a parte il fatto che il sentimento lo si può in parte favorire (per es. cercando di vivere tutta la vita come dei fidanzati, che si fanno sorprese e regali, che escono alla sera, ecc.), comunque, come abbiamo già detto, nel consenso gli sposi non promettono di restare insieme finché provano uno slancio emotivo nei confronti del proprio sposo/a, bensì promettono di cercare il suo bene per tutta la vita. Con ciò possiamo anche comprendere perché la separazione, a certe condizioni, è moralmente ammissibile. Se si giunge ad una situazione in cui la stessa convivenza è diventata veramente insostenibile, i coniugi possono separarsi perché essi non hanno promesso di vivere insieme per tutta la vita, bensì hanno promesso di volere il bene dell’altro per tutta la vita, quindi possono separarsi se la convivenza provoca realmente del male ai coniugi; ma ciascuno dovrà continuare a cercare il bene dell’altro, perciò dovrà sempre mantenere la disponibilità a tornare a vivere insieme, dovrà cercare di restaurare il rapporto, cioè cercare di ripristinare le condizioni della convivenza, in quanto dalla convivenza sortisce per ciascuno degli sposi quel bene che è il mutuo aiuto, il sostegno e la collaborazione reciproca. L’esperienza insegna che con questa disposizione la ricomposizione non è un’utopia, ed esistono dei casi di ricongiungimento. Con ciò abbiamo ricostruito una prima motivazione dell’indissolubilità del matrimonio, che vale per qualsiasi matrimonio.

Ma se ne può indicare una seconda, che vale nel caso in cui dal matrimonio siano nati dei figli. È chiaro che il contesto propizio per la nascita, la crescita e l’educazione di un figlio è quello di una famiglia stabile e solida. Ebbene, il divorzio è una grave ingiustizia nei riguardi dei figli, li fa sempre soffrire molto, li ferisce sempre psicologicamente ed affettivamente (cfr. Wallerstein – Lewis – Blakeslee 2000). La ricercatrice Rebecca O’Neill ha rilevato che se il 40 % dei bambini inglesi vive in famiglie a basso reddito complessivo, la percentuale sale al 75 % tra quelli che vivono con un solo genitore. Il 16 % dei bambini tra i 5 e 15 anni di età, che hanno un solo genitore, soffre di disturbi psichici, contro l’8 % dei loro coetanei che vivono con tutti e due i genitori.

Tali bambini, con un solo genitore, hanno una probabilità tre volte superiore di ottenere cattivi risultati a scuola e il doppio dei rischi di contrarre malattie psicosomatiche. Una ricerca di Bethke Elshtain del 1993 spiega inoltre che negli Usa 3 suicidi su 4 in età adolescenziale coinvolgono ragazzini che vivono con un solo genitore (per i dati che precedono cfr. Pesenti 2004, in bibliografia). In seguito, crescendo, la situazione non migliora. Infatti, all’inizio dell’età adulta i figli dei divorziati presi in esame, in un’importante ricerca, da Wallerstein e Blakeslee (cfr. Wallerstein - Blakeslee 1989), soffrivano per il 50 % di depressione e fornivano prestazioni professionali non all’altezza delle loro capacità.

Questi e altri studi mostrano come sia falso sostenere che quando i genitori non vanno d’accordo è meglio per i figli che essi divorzino: soltanto nelle famiglie dove i conflitti sono fortissimi il bambino può trarre beneficio dalla eliminazione del conflitto, ma (cfr. Amato – Booth 1997) tale tipo di conflittualità è rara, perciò nella stragrande maggioranza dei casi sarebbe meglio per i figli se i genitori, invece di divorziare, rimanessero insieme e affrontassero i loro problemi per cercare di risolverli. Dunque, visto che gli sposi si impegnano nel momento del matrimonio ad educare e a crescere i figli, visto che si sono presi questo impegno, o anche per il solo fatto di aver generato i figli, siccome col divorzio fanno soffrire i figli, essi compiono una grave ingiustizia nei loro riguardi, pertanto il divorzio è immorale. Ci sono poi dei dati interessanti che mostrano che sono molto più felici i coniugi che decidono di non divorziare, rispetto a quelli che decidono di farlo, e che il divorzio è tutt’altro che indolore, ed ha rilevanti ripercussioni penali, compresi molti omicidi. Infatti, il divorzio viene difeso come toccasana per riportare la felicità alle persone infelicemente sposate.

Ma, a parte il fatto che un fine buono (essere felici) non giustifica mezzi immorali (il divorzio), in realtà ricerche sociologiche americane (Waite 2000) mostrano che tra le persone che erano rimaste insieme, pur considerando infelice il loro matrimonio, cinque anni più tardi il 64% ha dichiarato che il loro matrimonio era poi diventato molto felice, mentre si dichiaravano felici solo il 19% di coloro che avevano divorziato e si erano risposati. Anche coloro che consideravano il proprio matrimonio molto infelice in 86 casi su 100 si dichiaravano felici cinque anni dopo, se erano rimasti insieme. Inoltre le madri sole hanno il doppio di probabilità di cadere in povertà rispetto a quelle sposate, soffrono di depressione e stress 2,5 volte di più.

 I padri divorziati, poi, hanno percentuali di mortalità superiori alla norma del 70 % (cfr. sempre O’Neill). I separati, in generale, hanno maggiori probabilità degli sposati di cadere nell’alcolismo e nelle altre dipendenze, o di suicidarsi, di subire incidenti e ammalarsi di molti disturbi psichici. La percentuale dei decessi fra i divorziati è più del doppio rispetto agli uomini sposati e una volta e mezzo rispetto alle donne sposate (cfr. Hu - Goldman 1990, cit. in Willy 1992, p. 7). Perciò Willi afferma (Willy 1992, p. 10): “In molti casi, sulla base della mia esperienza terapeutica, se tra i partner ci sono dei conflitti devastanti non ritengo il divorzio un’idonea soluzione […]. Aspirare al divorzio, dunque, si rivela spesso un errore. E molte volte non solo non risolve i problemi, ma ne crea di nuovi”.

In Italia ci sono poi studi (dati dell’Associazione Ex) che smentiscono la visione del divorzio come una prassi indolore: dal gennaio 1994 all’aprile 2003 la cronaca ha registrato 854 omicidi maturati in seguito a divorzi, separazioni o cessazioni di convivenze e su un campione di 46.096 casi di divorzi, separazioni e cessazioni di convivenza analizzati, 39.919 (l’86,6%) ha avuto implicazioni penali come calunnia, minacce, sottrazione di minore, percosse, maltrattamenti, lesioni, sequestro di persona, violenza privata, violenza sessuale. È poi chiaro che la rottura del matrimonio contribuisce alla diffusione della povertà: se prima si era in due nella stessa casa, dopo il divorzio si è da soli in due case diverse. Due case, due affitti, due bollette del telefono elettricità, gas, ecc., e tante altre spese che adesso ognuno dei due ex coniugi deve sostenere in proprio, mentre prima sosteneva a metà. E poi ci sono naturalmente le salatissime spese per gli avvocati.

Lo confermano (cfr. ancora Pesenti 2004) le indagini della O’Neill: queste hanno rilevato che le madri sole hanno il doppio di probabilità di cadere in povertà rispetto a quelle sposate e, come abbiamo già visto, i bambini che vivono con un solo genitore sono più poveri dei loro coetanei. A chi ritiene, come faceva Montaigne, che il divorzio favorisca la durata del matrimonio, perché i mariti amano di più le mogli nel timore di perderle, bisogna ribattere che chi sa di essere unito indissolubilmente cerca in tutti i modi di far andar bene il matrimonio; chi invece sa che il matrimonio si può sciogliere, si impegnerà di meno per assicurarne la riuscita (per esempio avrà meno scrupoli a tradire il coniuge), perché sa che tanto esso non è definitivo (il caso è analogo a quello di uno studente che studia in una scuola difficile, e che si impegna di meno se sa che i suoi genitori lo trasferiranno in una scuola facile per evitargli la bocciatura, nel caso in cui egli vada male). Un’ultima considerazione. Poiché il matrimonio è indissolubile è fondamentale un cammino accurato di preparazione ad esso, e non bisogna farsi scoraggiare dalla rappresentazione offerta dai media circa il matrimonio: non è vero che è impossibile restare insieme tutta la vita e che i matrimoni si sfasciano inesorabilmente. Ci sono moltissimi casi di matrimoni riusciti ed inossidabili, che non vengono però mai rappresentati, dove i problemi che sorgono vengono superati, e dove la fedeltà non è rigidità, perché l’amore ricomincia ogni giorno, e può essere creativamente inventato ogni giorno.

Di questo tipo di amore parla la nota poesia di Montale: Ho sceso, dandoti il braccio, almeno un milione di scale / e ora che non ci sei è il vuoto ad ogni gradino./ Anche così è stato breve il nostro lungo viaggio. / Il mio dura tuttora, né più mi occorrono / le coincidenze, le prenotazioni,/ le trappole, gli scorni di chi crede / che la realtà sia quella che si vede./ Ho sceso milioni di scale dandoti il braccio / non già perché con quattr'occhi forse si vede di più. / Con te le ho scese perché sapevo che di noi due / le sole vere pupille, sebbene tanto offuscate, / erano le tue.

Perciò il matrimonio non è il porto dell’amore o la sua morte, ma la sua scuola, in cui continuamente si scopre l’inesauribile ricchezza dello sposo: come dice Plutarco l’amore “non solo non va mai soggetto all’autunno, ma fiorisce anche tra i capelli bianchi e le rughe, e si prolunga fino alla morte e alla tomba”.

Giacomo Samek Lodovici

 Bibliografia minima Testi filosofici su amore, matrimonio e divorzio: G. Chalmeta, Etica applicata. L’ordine ideale della vita umana, Le Monnier 1997, pp. 121-144. T. Melendo Granados, Otto lezioni sull’amore umano, Ares 1998. J. Pieper, Sull’amore, Morcelliana 1974. G. Samek Lodovici, La felicità del bene. Una rilettura di Tommaso d’Aquino, Vita e Pensiero 2002, pp. 39-87, 101-105. K. Woytyla, Amore e responsabilità, Marietti 1968, specialmente pp. 84-89. Per i dati citati: AA.VV., Effects of Parental Divorce on Mental Health Throughout the Life Course, in “American Sociological Review”, 63 (1998), pp. 239-249. P.R. Amato – A. Booth, A Generation at Risk, Harvard University Press 1997. Y. Hu – N. Goldman, Mortality Differentials by Marital Status: An International Comparison, in “Demography”, 27, 2 (1990), pp. 233-50. L. Pesenti, Appello laico per la famiglia, in “Il Domenicale”, 6-03-2004, pp. 1-2. L.G. Waite – M. Gallagher, The Case for Marriage, Doubleday 2000. J. Wallerstein - J.M. Lewis – S. Blakeslee, The Unexpected Legacy of Divorce, Hyperion 2000. J. Willi, Cosa tiene insieme le coppie, Mondadori 1992. Alcuni di questi dati vengono ripresi in un testo italiano: C. Risè, Il padre. L’assente inaccettabile, San Paolo 2003, pp. 91-95, 134-136. Per i dati sugli omicidi e sulle ripercussioni penali: Associazione Ex, www.exonline.it/osserva.htm .

3) Mario Rossi è un astronauta italiano, spedito nello spazio il 10 ottobre del 1962. Rossi si risveglia dopo un lungo viaggio, sono trascorsi molti anni e si ritrova su un pianeta molto strano, nel quale gli abitanti hanno usi e costumi incredibilmente diversi dalla Terra. Solo dopo molte vicissitudini l’astronauta Rossi scoprirà, con sgomento, di essere atterrato in realtà proprio sulla Terra, trasformatasi in pochi decenni nel “pianeta delle scimmie”, dove gli uomini si sono involuti, rinnegando Dio e tutto ciò che di più bello e sacro essi avevano custodito per secoli.

E’ questa la trama del nuovo, provocatorio e inquietante, libro di Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro.

A partire dal racconto del viaggio immaginario di Mario Rossi, Gnocchi e Palmaro tornano a parlarci dell’uomo e della donna, della Chiesa e della politica, del lavoro e della famiglia, sempre guidati dalla bussola della dottrina cattolica e dalla critica senza sconti alla modernità. Il tutto condito da una vena umoristica che accompagna ogni pagina e che culmina nell’ormai classico “test finale” per conseguire il “brevetto di astronauta cattolico”. Per gentile concessione dell’editore, proponiamo di seguito un capitolo del libro (da totustuus).

 NON TENGO FAMIGLIA Ovvero il suicidio della civiltà occidentale

Cosmonauta Mario Rossi a Pianeta Terra: Oggi sono entrato in un bar per farmi una birra, e ho incontrato un uomo simpatico che ha subito attaccato bottone con me. Siccome teneva in spalla due zainetti colorati, gli ho chiesto se per caso stesse partendo per la montagna. “No, no”, mi ha detto ridendo. “Sono gli zaini di mia figlia, che è salita a prendere una cosa da sua madre”. “Cioè da sua moglie” l’ho corretto io. “Dalla mia ex moglie – ha ridacchiato lui – perché siamo divorziati da quattro anni. La figlia sta con lei dal lunedì al venerdì. Poi, il sabato, io vado a prenderla a scuola, e allora lei viene con due zaini: uno con i libri e i quaderni, l’altro con la biancheria e il pigiama per dormire da me”. “Scusi – gli ho chiesto – ma la ragazzina non soffre di questa situazione?” Allora ha sgranato gli occhi e mi ha guardato con aria meravigliata: “Soffrire? Ma sta scherzando? Per lei è una cuccagna: io la porto sempre al luna park insieme con la mia attuale compagna e ci divertiamo un mondo. Così anche la mia ex nel week-end se la spassa un po’ con il suo uomo. Insomma: alla fine siamo tutti contenti così.”

Ma, nel dire queste parole, non rideva più. Qualcuno potrebbe pensare: vabbè, ma che esagerati, questi due! D’accordo che il nostro non sarà il migliore dei mondi possibili. Però, dipingerlo addirittura come il pianeta delle scimmie, come un posto degradato e imbarbarito, dove gli uomini si sono ridotti a vivere come degli animali, dove la virtù è un vago ricordo; beh, questa è davvero troppo grossa. In fondo, la modernità ci ha dato tante cose utili e belle, che una volta non c’erano. E poi: siamo così sicuri che “si stava meglio quando si stava peggio”, e che la società dei tempi andati fosse migliore di quella odierna? Nulla di nuovo sotto il sole: abbiamo qualche problema, né più né meno che i nostri antenati. Noi uomini del terzo millennio abbiamo qualche problema ma, alla fine, ce la caveremo anche questa volta. Obiezione di tal fatta non vanno assolutamente sottovalutate, perché rappresentano in maniera esemplare il succo della modernità: e cioè, convincere la gente che la storia dell’umanità è sempre evolutiva, che procede in ogni caso verso il progresso, e che la tradizione è una bubbola per gli ignoranti.

Così la gente comincia a pensare che quelli che ci hanno preceduto erano degli zotici, e noi siamo migliori di loro perché siamo “moderni”. Il tutto, corroborato dalle scintillanti conquiste della tecnologia e della scienza. In effetti, vivere nel terzo millennio ha degli indubbi vantaggi: si campa più a lungo, si gode di una salute in genere migliore, si hanno a disposizione cibo e vestiti in abbondanza, si vive in case riscaldate adeguatamente e addirittura rinfrescate e climatizzate.

 A noi queste comodità non dispiacciono, non facciamo la vita dei trappisti e usiamo l’automobile e perfino l’aereo (di linea). Però, c’è un piccolo problemino cui la gente sembra non prestare attenzione. Tutte queste cose magnifiche che il progresso ci ha messo a disposizione servono per migliorare il benessere, letteralmente “lo stare bene” dell’uomo. E non è cosa da poco, né da disprezzare. Ma tutte queste cose non danno la felicità. Nemmeno un granello di felicità. L’uomo è infatti una faccenda complicata, il frutto di una sapienza che solo Dio poteva dimostrare. Se io ho le scarpe bucate, e un vestito liso e consunto, ma ho una donna che mi ama e che mi aspetta a casa, sono felice. Se io ho le scarpe più belle del mondo, abiti firmati, e una Ferrari fiammante, ma la donna che amo mi ha piantato in asso, non sono felice. Sarà un esempio da Novella Tremila, ma rende benissimo il concetto: la modernità, con tutto il suo apparato di confort e di progresso, è impotente di fronte al mistero dell’animo umano e del suo inesauribile desiderio di felicità. Quando noi diciamo che questo posto meraviglioso in cui viviamo si sta trasformando nel “Pianeta delle scimmie”, intendiamo dire proprio questo: che nonostante tutte le ricchezze e le meraviglie di cui ci stiamo circondando, abbiamo imboccato da tempo la strada che porta alla riduzione in schiavitù dell’uomo. Al suo “imbestiamento”.

Siamo circondati di persone più ricche e più eleganti di un tempo; ma queste stesse persone hanno situazioni famigliari che sembrano Dresda dopo il bombardamento americano del ’45: un cumulo di tizzoni fumiganti tra i quali si aggirano alcuni disperati sopravvissuti. Nel maggio del 2008, l’Istituto di Politica Familiare (IPF) ha presentato al Parlamento europeo un rapporto sulla evoluzione della famiglia nel vecchio continente. Il quadro che se ne ricava è il seguente: un aborto ogni 27 secondi, un divorzio ogni 30 secondi. Quasi un milione di nascite in meno rispetto al 1980.

L’aborto è - insieme al cancro - la principale causa di mortalità in Europa. L’evoluzione demografica dell’Europa vede una crescita di 14,2 milioni di persone tra il 2000 ed il 2007, ma di queste ben 12 milioni, cioè l’84%, sono immigrati. L’Italia ha crescita naturale negativa di -0,2 milioni, ma una immigrazione di 2,9 milioni di persone. Tre nuovi immigrati su cinque vanno in Spagna o in Italia. Le previsioni sono che, nonostante questa immissione di immigrati, dal 2025 la popolazione europea comincerà a scendere. La percentuale di giovani sta calando in maniera enorme. I giovani minori di 14 anni erano 94 milioni nel 1980, e sono 74 milioni nel 2007. Con una perdita netta di 20 milioni di giovani. Al contrario, la popolazione di età superiore ai 65 anni era di 57 milioni nel 1980 ed era di 80 milioni nel 2007. Bulgaria, Germania, Slovenia e Italia sono i paesi con il minor numero di giovani. Allo stesso tempo, Italia, Germania e Grecia sono i paesi con il maggior numero di anziani. Drammatica la situazione delle nuove nascite: nel 2007 le nascite sono inferiori di circa un milione (920.089) a quelle del 1982. In Europa, la fecondità è di 1,56 figli per donna, inferiore a quello di crescita zero che è di 2,1 figli per donna. In termini di confronto, negli Stati Uniti la fecondità è di 2,09 bimbi per donna. A causa dell’aborto si perde ogni anno in Europa una popolazione equivalente a quella di Lussemburgo, Malta, Slovenia e Cipro. Uno ogni cinque bambini concepiti, cioè il 20%, non vede la luce del giorno: delle 6.390.014 gravidanze del 2006, 1.167.683 sono terminate in un aborto.

Gli aborti di Francia, Regno Unito, Romania, Italia, Germania e Spagna rappresentano il 77% del totale. La Spagna da sola ha raddoppiato il numero di aborti tra il 1996 ed il 2006. I matrimoni sono in caduta vertiginosa: tra il 1980 ed il 2006 ci sono stati 737.752 matrimoni in meno. Gli europei si sposano poco e sempre più tardi. La media è di 31 anni per l’uomo e 29 per la donna. Uno ogni tre bambini nasce fuori del matrimonio. Ci sono più di un milione di divorzi all’anno, con una cadenza di un divorzio ogni trenta secondi. Dal 1996 al 2006 i divorzi sono stati circa 10,1 milioni, ed hanno coinvolto 15 milioni di bambini. Belgio, Lussemburgo e Spagna sono i paesi con il maggior numero in percentuale di divorzi. Per ogni due matrimoni c’è un divorzio. Le famiglie sono sempre meno numerose: ci sono 2,4 membri per coppia, mentre 54 milioni di persone vivono sole.

Se questo è il quadro del vecchio continente, lo scenario oltre oceano non deve essere molto diverso, se un senatore degli Stati Uniti, il Colonnello North, ha dichiarato: “Il più grande problema che vedo in questo Paese non è vincere la guerra contro il terrorismo. Il vero problema riguarda gli uomini, che non hanno più la responsabilità per i bambini che hanno generato”. Insomma: torniamo al “teorema delle scarpe bucate”. E’ molto probabile che un statistica sulla situazione delle calzature indossate oggi dagli europei ci direbbe che pochissime presentano delle suole bucate, a differenza di quanto accadeva cent’anni fa. Ma che gli europei siano più felici, o felici almeno quanto lo erano ai tempi in cui indossavano scarpe bucate, beh, abbiamo ragione di dubitarlo fortemente. La nostra civiltà è così sazia e disperata, da inseguire con crescente impegno tutte quelle strade che conducono alla sua autodistruzione. Non paga di attraversare una crisi della famiglia e del matrimonio senza precedenti, l’Europa nichilista e anticristiana si abbandona a un patologico cupio dissolvi che oscilla – paradossalmente - tra la sudditanza alla cultura islamica e l’elogio dello stile di vita gay.

Nel 2007 il Comune di Roma – guidato da Walter Veltroni – ha concesso il suo patrocinio al progetto “Smontiamo i bullismi, impariamo a convivere”. Si tratta di un percorso formativo promosso e realizzato dal circolo di Cultura omosessuale Mario Mieli in sei scuole superiori della Capitale per combattere “il machismo e l’omofobia”. Ovviamente, in cattedra vanno i teorici (e forse anche i pratici…) della normalità e della bellezza dell’essere gay. Saltando dall’altra parte dell’Oceano, precisamente in Nebraska, scopriamo che gli americani hanno prodotto un cartone animato “didattico” per bambini, nel quale entrambe i genitori sono dello stesso sesso. Il cartoon è stato inventato da due esperte del genere: una coppia di mamme simbolo dei diritti gay al femminile. Tornando nel vecchio continente, nel febbraio 2008 il governo laburista inglese ha deliberato il pagamento di assegni familiari ai poligami, in modo che i musulmani residenti sul suolo di Albione possano riscuotere un tot per ogni moglie a carico. E’ la certificazione del riconoscimento legale della poligamia. Al quale si è accodata anche la esangue e moritura chiesa anglicana, visto che l’arcivescovo di Canterbury ha definito “inevitabile” il provvedimento delle autorità britanniche. In effetti, di fronte a questo delirio della ragione innescato dalla secolarizzazione galoppante, ciò che più sconcerta è l’arrendevolezza (o addirittura la complicità) di certi cristiani.

Un esempio in casa cattolica. Nel 2007 l’arcivescovo di Milano Dionigi Tettamanzi ha scritto una lettera pastorale agli sposi in situazioni problematiche: separati, divorziati, risposati. Il documento non contiene errori dottrinali espliciti, ma è certo che presta il fianco a una interpretazione “politica”: la diocesi di Milano vorrebbe fare qualcosa di più per i divorziati risposati, nonostante i “freni” della retrograda posizione cattolica romana. Insomma: con l’argomento (sacrosanto) che bisogna voler bene anche ai divorziati, si legittima il divorzio. Prova ne sia che sul numero di maggio 2008 di un bollettino parrocchiale – prelevato nel duomo di una bella città situata nella diocesi che fu di Ambrogio - si può leggere l’articolino di una donna nel quale si tesse l’elogio della separazione. “Il solo pensiero – scrive la donna – che i miei figli potessero pensare che quello che vedevano tutti i giorni di fronte ai loro occhi fosse un’unione basata sulla stima o sull’amore reciproco, mi faceva rabbrividire. Ho pensato che l’unica cosa che potevo trasmettere loro e che potesse placare la mia insofferenza fosse la lealtà, il senso della pulizia e la gioia di vivere nella lealtà e nella sincerità, la capacità di dire la verità a dispetto di convinzioni, di convenzioni ed anche delle richieste religiose se vogliamo: la capacità di scegliere senza mentire”. Insomma: per separarsi ci vogliono un sacco di virtù; per restare insieme, solo la sudditanza a stupide convinzioni e convenzioni. “Non è stato difficile disfare – prosegue la cattolica-separata-ma-sincera – impegnativo sì, però, sapendo che si fa del male all’altro ma che niente è peggiore che fingere un legame ormai morto”.

Ed eccoci approdati alla riva dei bravi, alla sponda del più vieto e televisivo “politicamente corretto”: al luogocomunista del “non provo più niente per te”, e del “meglio separarsi piuttosto che vivere nell’ipocrisia”. Si aggiunge poi che la separazione è stata raggiunta consensualmente (il che è davvero molto cristiano) e che “oggi i miei figli possono vedere il padre tutte le volte che lo desiderano”. Però, che fortuna. “Per la mia vita – spiega madre-coraggio – certamente desidererei un nuovo compagno, ma credo che non accetterei che qualcun altro, oltre al loro padre naturale, si occupasse dei miei figli”. Insomma: sì a nuovi “legami”, ma senza confusioni di ruoli. Sembra di leggere una rubrica della posta a Maurizio Costanzo. “A volte – dice sempre la signora separata – il confronto con la chiesa (minuscolo) è difficile perché è difficile fare capire la propria posizione a una mentalità, fuori e dentro la visione religiosa, che considera la donna e la maternità come uno stato di debolezza.” “Per quanto mi riguarda – conclude la donna-separata-educatrice – quello che più mi sta a cuore è la consapevolezza dei miei figli di essere uomini del terzo millennio.” Con una madre così, lo hanno capito oltre ogni ragionevole dubbio.

 PUNTO DI RISTOROIl mondo ci infarcisce dalla mattina alla sera; gli uomini sono ormai diventati talmente accumulatori di queste balordaggini che, ad avvicinarne uno, si prende la scossa elettrica. Se riflettete, noi ci troviamo tanti pallini nella testa: ce li ha messi il mondo. Pallini sulla personalità, sulla indipendenza, sulla libertà, sulla democrazia: sono i pallini di oggi. Pallini! Se cominciamo a fare una lista dei pallini, ne vien fuori una lunga lista. Stiamo in guardia! Difendiamo la nostra testa, perché se non si difende la propria testa, non si difende nemmeno la propria fede. Per difendere la fede bisogna difendere la testa, la propria capacità critica, il proprio retto giudizio, la propria indipendenza dai complessi di inferiorità imbibiti dagli altri” Cardinale Giuseppe Siri, Esercizi spirituali, 1978.

(da Alessandro Gnocchi e Mario Palmaro, Il pianeta delle scimmie, Piemme 2008)

4) " ... le situazioni di conflitto tra coniugi esistono da quando esiste la famiglia. Cioè, dalla notte dei tempi, in ogni civiltà che sia mai sorta su questa terra, senza alcuna eccezione. Nella nostra società occidentale, così evoluta ed emancipata, oggi sarebbe possibile affrontare questi conflitti con un grado di tutela per il coniuge più debole che ancora cinquant'anni fa - quando ancora si discuteva dell'esistenza di un "diritto di correzione" del marito nei confronti della moglie - sarebbe stato inconcepibile.

E invece, piuttosto che cercare un modello di società che sappia garantire in modo più avanzato l'alleanza naturale tra uomo e donna, l'Occidente divorzista ha costruito un sistema che mette i due sessi l'uno contro l'altro, esaltando le ragioni egoistiche di ciascuno. In fondo, per chi sa osservare la realtà senza pregiudizi, basterebbe un minimo di esperienza per capire che in definitiva la gente oggi divorzia così facilmente soltanto perché può farlo. Sono ormai in pochissimi quelli che riescono a farsi aiutare, in quanto abbiano trovato qualcuno che abbia saputo indicare loro una diversa soluzione.

Peraltro, ai nostri giorni sono ancora meno - in una società dove ormai da due generazioni un giovane su tre, e anche più, cresce assieme alla sola madre - quelli che hanno ricevuto fin da piccoli un'educazione di base sufficiente per saper fare famiglia, per quando nella vita dovrebbe venire il proprio turno. Così, i luoghi comuni... si sono trasformati - non solo per gli interessati ma anche per i loro avvocati, e per tutti gli altri operatori del sistema - nei criteri di fondo che tuttora rendono assai prospera e apparentemente invincibile la fabbrica dei divorzi. In sintesi, possiamo dire con certezza che la teoria del divorzio come male minore, nella maggior parte dei casi, rappresenta solo un falso pregiudizio per offrire un alibi alla coscienza di chi quel divorzio lo vuole, così come delle altre persone che vengono coinvolte. Però è proprio quel pregiudizio che attira milioni di persone e i loro figli nel tritacarne divorzista. Il più delle volte, senza che alcuno di essi riesca mai a incontrare, dall'inizio della crisi fino ai suoi esiti più rovinosi, qualcuno che sia in grado di offrire in modo credibile un'alternativa. O almeno - come si diceva in precedenza - che sia in grado di dirgli qualche "no", che poi è il principio di ogni percorso educativo. Perché, alla fin fine, si tratta solo di un problema di educazione".

"... Da pietosa esigenza per legalizzare situazioni eccezionali, nate da matrimoni tragicamente sbagliati, il divorzio si è dunque trasformato in un diritto insindacabile della persona. Un diritto che l'autorità pubblica si sente tenuta a riconoscere e garantire - e persino favorire - nel modo più ampio possibile. Nel nuovo sistema giudiziario, "la famiglia, in definitiva, tende a porsi in funzione della persona", ha riconosciuto Cesare Massimo Bianca, autore di un trattato di diritto civile che risale agli anni '80 ed è considerato tuttora tra i più autorevoli. In quest'ottica, la "liberazione" dell'individuo dai legami familiari è stata assecondata come un processo positivo. La visione di fondo è diventata quella del primato dell'individuo, da liberare dalla potenzialità oppressiva della famiglia tradizionale, vista come espressione di un passato autoritario. Se quasi cinquant'anni fa il giurista Arturo Carlo Jemolo, con espressione che fece epoca, sosteneva che la famiglia è un'isola che il mare del diritto dovrebbe solo lambire, oggi invece si può ipotizzare che la prassi giuridica in tema di separazione coniugale, divorzio e affidamento dei figli minori abbia invece contribuito non poco a sommergerla".

Da: Massimiliano Fiorin, "La Fabbrica dei Divorzi", san Paolo.