La nomina di Mario Calabresi da Repubblica alla direzione de la Stampa, mi ha spinto ad approfondire una vicenda che a causa dell’età conoscevo solo molto vagamente: quella del commissario Luigi Calabresi, il padre di Mario. Ho scoperto così che Luigi era un personaggio davvero particolare, che sulla foto ricordo della sua classe, a conclusione dell’anno scolastico 1957-58, aveva scritto di suo pugno alcuni versi di Trilussa: “Sarà, ma trovo strano/ che me possa guidà chi nun ce vede./ La cieca allora me pijò la mano/ e sussurrò: cammina. Era la fede”.
Questo semplice aneddoto, insieme a tanti altri, dimostra che la scelta di fare il poliziotto, fu in lui dettata non solo dalla volontà di servire lo Stato, dalla passione per una professione difficile, ma anche dal desiderio di testimoniare la propria fede negli ambienti particolari e ostili della rivoluzione culturale e giovanile di allora. Marco Pannella, rievocando la figura di Luigi, scrisse infatti che sembrava contento che le sue mansioni lo portassero a vivere accanto a radicali, anarchici, libertari, e che era sempre nei loro confronti amichevole e gentile: “ma non sapevo, concludeva Pannella, e a tutti lo aveva celato, stranamente, della sua scuola clericale, dei suoi rapporti con padre Virginio Rotondi, del suo essere antidivorzista”.
Come commissario di polizia Calabresi si sforzava di “evitare che ogni manifestazione andasse a finire secondo il copione consueto: provocazioni, violenze, cariche della polizia, feriti, forse morti”, e per questo “cercava di dialogare con i capi dei gruppi di manifestanti, di farsi accettare” come interlocutore attento e credibile (Giordano Brunettin, Luigi Calabresi, Sacra Fraternitas Aurigarum, Roma).
Come tutti sappiamo, per ironia della sorte, o forse perché la sua testimonianza, consapevole, divenisse martirio, Calabresi (nella foto) divenne per certuni, accecati dall’ideologia comunista, un malefico torturatore, un omicida, un uomo che approfittava barbaramente del suo potere. Venne insultato, deriso, vide il suo nome vilipeso sui giornali e sui muri, ma, come ricordò il suo amico Enzo Tortora, tenne sempre un comportamento degno, sopportando con grande forza d’animo. Ma chi era l’uomo Luigi? Nel 1966, in seguito alla sua nomina a funzionario di pubblica sicurezza, in occasione di una tavola rotonda organizzata da Epoca tra giovani che contestavano la rivoluzione nascente, ebbe ad esprimere la sua visione del mondo.
Leggendola si capisce bene come Luigi vedesse in molti giovani suoi contemporanei, ribelli e violenti, non dei nemici, da perseguire, e da punire, ma anzitutto delle persone fragili, vuote, senza veri valori su cui fondare la propria vita e la propria personalità. “Nella mia professione, ebbe a dire, chissà quanti (giovani) ne avvicinerò, e saranno probabilmente i portatori delle crisi più laceranti e gravi…Vivono alla giornata, inseguono il divertimento, inteso però nel senso latino di devertere, uscire cioè dalla realtà. La realtà li terrorizza, perché li mette di fronte a delle responsabilità. Quindi cercano di stordirsi. Ho pratica di questi miei fratelli. Vedo la loro infelicità soprattutto in quel passaggio obbligato che è il rapporto tra i sessi”.
Spesso, aggiungeva, accade che tanti miei coetanei “hanno avuto l’amore fisico, ma la fusione delle anime non sanno neppure cosa sia. E’ questo che porta ai drammi che scoppiano poi nei matrimoni malriusciti; il senso della vita cristianamente vissuta si va perdendo, e nella società si aprono dei guasti sempre maggiori”.
Per Calabresi, la vita cristiana, con il suo senso del sacrificio, della croce, del peccato, della lotta tra bene e male, forma caratteri forti, soldi, capaci di affrontare l’amore e la vita, gioendo dei suoi doni. E tutto ciò, credeva, serve soprattutto nel momento in cui si affronta la propria crescita affettiva, in quella fase del fidanzamento in cui la rinuncia, l’autocontrollo, la padronanza dei propri istinto, permettono di edificare sulla roccia, perché “si impara ad essere buoni coniugi quando ancora non si è sposati”, in quanto il matrimonio “presuppone uno sforzo, un allenamento, una preparazione che non si improvvisa”. Con questo argomentare Calabresi dichiarava la propria avversione all’istituto del divorzio, che era per lui non la soluzione ma semmai l’incentivo a nuovi e sempre più numerosi fallimenti familiari.
E aggiungeva: “ Ma anche da noi, quanti ragazzi hanno modo di ‘sentire’ davvero la famiglia? Questo sentimento si dissolve. E la colpa è qualche volta dei genitori che vogliono sembrare giovani e moderni”, vogliono fare gli amici e rinunciano alla fatica dell’ educazione, e del compito insito nell’autorità. Invece i “genitori dovrebbero prendere coscienza della tremenda responsabilità che si sono assunti procreando, cioè collaborando con Dio nella creazione. Non è vero che si educa e ci si educa nello stesso momento, come sostiene una certa pedagogia che io rifiuto. L’uccello sa già volare, quando insegna ai suoi piccoli come si dispiegano le ali. Così vorrò essere io coi miei figli, se la fortuna mi aiuterà”.
Ecco, personalmente auguro a Mario Calabresi, nel suo nuovo incarico, di essere degno di suo padre, del suo amore per la Verità e per il Bene, della sua carità e del senso di responsabilità con cui interpretava il suo lavoro, con la sua stessa purezza di cuore. Possono essere virtù fuori moda, difficili, ma certo rendono gustosa e vera la vita di ogni giorno. Il Foglio, 30 aprile 2009
ps l'omicidio di Calabresi aprì le porte agli anni di piombo, e fu determinato soprattutto da una feroce campagna di stampa contro di lui, portata avanti da Lotta continua, di Adriano Sofri ,e da l'Espresso, su cui comparve un famoso appello contro Calabresi, firmato da Scalfari, Dario Fo, Margherita Hack e tanti altri intellettuali di sinistra ancora oggi molto ascoltati e ben introdotti in tv, nei media, in politica...