“A differenza delle dottrine e delle elucubrazioni concettuali, i fatti non si possono accogliere parzialmente. I “sapienti” e gli “intelligenti”, considerati come tali, si trovano qui a mal partito. Al contrario i “piccoli” – che di solito faticano ad assimilare i ragionamenti, le analisi, le costruzioni ideali – coi fatti si trovano a loro agio…”, così scrive un Pastore, il Card. Biffi, del cui gregge non mi è affatto spiaciuto esser stato pecora. Il fatto al centro del brano è l’avvenimento pasquale, realtà di cui i “piccoli”, forse più degli intellettuali di professione, sono in grado “di riconoscere la consistenza e la forza con la semplicità del loro cuore”.
Paradossalmente proprio chi dice di attenersi strettamente al “reale misurabile” (i fatti!) si trova a mal partito laddove il fatto c’è, ma non rientra nella categoria riconosciuta come tale e quindi conclude che non c’è in assoluto o, quando non può farne a meno, si rifugia nel caso. L’ambito scientifico è sempre più abitato da costruzioni logico/matematiche non sempre chiare, quante di queste formule o apparati teorici sono effettivamente necessari per dare ragione dei risultati di ricerca?; quante servono semplicemente per rendere “elegante” il lavoro? Il rischio è quello di ridursi a un esercizio per pochi eletti, quasi un fenomeno esoterico in cui i “maestri” si compiacciono del loro essere distanti dalla plebaglia (ah l’orgoglio…).
Le “formule” devono comunque confrontarsi con l’imprevedibilità del reale (anche quello rigorosamente misurabile), possono avvicinarla in parte, o con gradi di probabilità, ma mai riassumerla completamente. Questo non sarebbe un problema, anzi è allo stesso tempo il limite e la forza della scienza, ma lo diventa quando questa visione della realtà è considerata come l’unica possibile, cosicché il punto di vista scientifico diviene più reale del reale.
Giuseppe Sermonti è senza dubbio uno scienziato fuori dal coro, discusso, ma a tal proposito introduce un argomento interessante: “dobbiamo ritrovare la giusta distanza dalle cose, …saper vivere la realtà intorno a noi praticando quel leggero disincantamento che la renda un tantino ragionevole, senza sacrificarla alla Ragione che subito pretende di privarla di ogni essenza”. Così facendo nulla si toglierebbe al fascino della scienza, anzi penso permetterebbe il recupero di una passione troppe volte costretta in formule e formulette inaridite, che pretendono di dirci tutto, senza però ammettere nessun altro codice di interpretazione oltre il loro linguaggio. Avvicinare senza presunzione la realtà è già sintomo di semplicità, condizione sicuramente positiva anche nell’approccio scientifico, infatti, credo non sia un caso che moltissime scoperte siano avvenute in modo inaspettato o “accidentale”.
La semplicità del cuore richiamata dalle parole di Biffi non può essere sbrigativamente catalogata alla voce ignoranza, mi pare, invece, possa considerarsi come “retta ragione”, cioè quel modo di intendere ed elaborare non corrotto da qualche “–ismo” di varia natura (scientismo, materialismo, relativismo, fideismo, ecc.), ma radicato su una chiara visione della propria condizione umana (onestamente limitata e fragile, ma capace di andare oltre sè).
Allora cantiamo la semplicità, virtù figlia dell’umiltà, si esprime con chiarezza, giunge a spiegare concetti complessi senza rinunciare all’onestà, è leale la semplicità, riduce le premesse a quelle essenziali, evita l’eleganza troppo ricercata, sa stare con i sapienti, ma non disdegna gli ignoranti la semplicità, preferisce tacere al troppo dire, il suo parlare è “sì, sì, no,no” perché il “di più” sa da dove proviene. Infine, per chiudere questo breve elogio, Giovannino Guareschi con sintesi da “scarpe grosse e cervello fino” trova anche il senso semplice delle “cose ultime”: “…quelli della Bassa finiscono sottoterra preciso come i letterati di città, con la differenza che i letterati di città muoiono più arrabbiati di quelli di campagna perché a quelli di città dispiace non solo di morire, ma di morire in modo banale, mentre a quelli di campagna dispiace semplicemente di non poter più tirare il fiato. La cultura è la più grande porcheria dell’universo perché ti amareggia, oltre la vita, anche la morte”.