L’identità è ciò che una persona è; pensiamo alla matematica: l’identità è una relazione tra due cose una prima e una dopo il segno uguale che possono essere scambiate. Dopo la II guerra mondiale, emerge questo dibattito: l’identità è data (qualcuno dice subìta) o costruita (o socialmente costruita)?; ciò che siamo dipende dall’ambiente o siamo così? Prima la risposta c’era, rimasta tale da Aristotele: tutte le cose hanno due stadi, quello di potenza e quello di atto, ossia un pulcino è una gallina in potenza, una gallina un brodo in potenza, il brodo era l’atto che volevano raggiungere. Questo movimento da potenza ad atto riguarda tutte le cose, anche le persone. Che cosa guida il passaggio da potenza ad atto? Aristotele risponde che il principio insito in ogni cosa che guida questo passaggio si chiama “natura”.
Sui giornali si sentono varie definizioni di “natura”, ciò che fanno gli animali, natura sono fiori, piante ecc. No, natura è il progetto, è il piano, è il principio che guida il cambiamento delle cose verso la loro realizzazione, la loro attualizzazione. Che influenza ha l’ambiente su questo progetto? Per capirlo prendiamo l’esempio dell’albero di limoni: noi andiamo al mercato comprando una piantina di limoni, che non ha ancora i limoni. Se noi compriamo questa piantina lo facciamo perché sappiamo che questa piantina ha una sua natura, che è quella di fare i limoni e non potrà mai fare zucchine. Ma è sicuro che farà limoni? No, li farà solo se riceverà la luce necessaria, l’acqua necessaria, se non sarà attaccata dai parassiti, ecc, altrimenti non darà limoni, ma questo non vuol dire che nella sua natura non può produrre frutti, ma che l’ambiente ha ostacolato il suo progetto. Quello che ci vuole dire Aristotele è questo: c’è un progetto nelle persone, a volte non lo vediamo realizzato, ma questo non è una disconferma del progetto, ma che succede qualcosa nell’ambiente che ostacola la produzione del progetto. Questo non vuol dire che l’ambiente, in particolare le relazioni, è un qualcosa di negativo che ostacola i progetti delle persone, perché è anche la condizione necessaria perché tale progetto si realizzi. L’uomo è un animale sociale, ha bisogno di relazioni. Questo è stato provato anche sperimentalmente. Federico II aveva deciso un giorno di scoprire quale era la lingua originaria e ha preso dei neonati e li ha rinchiusi in cima ad una torre, ordinando a delle balie di prendersene cura ma solo per quanto riguardava i bisogni fisiologici (pulirli, lavarli) senza proferire una parola né avere il minimo contatto. Ebbene, questi bambini alla fine morirono tutti. Senza relazioni, noi non possiamo sviluppare il nostro potenziale né sapere la nostra identità. Quando noi vogliamo sapere qual è il nostro aspetto esteriore, ci guardiamo allo specchio; quando vogliamo sapere chi siamo dentro, abbiamo bisogno di un altro specchio: gli altri e le nostre relazioni. La realizzazione di noi stessi quindi si attualizza attraverso le relazioni ma allo stesso tempo le relazioni possono divenire ostacoli per tale realizzazione. L’identità di una persona è una realtà sessuata: in ogni cellula del nostro corpo siamo geneticamente caratterizzati come maschio o come femmina: i nostri cromosomi sono XX o XY; la nostra identità è fin dal concepimento una realtà sessuata. Noi siamo sempre maschi o femmine, la realizzazione sta nel diventare uomini e donne. Tutte le altre caratteristiche, la visione del mondo, le abilità le sviluppiamo a partire da questo progetto inscritto nel nostro corpo. Pertanto l’identità umana si compone di una parte biologica (sessuale) e una parte relazionale-psicologica (l’identità di genere). Il problema è che secondo alcuni tra identità sessuale e identità di genere non vi deve essere nessun legame; sta nel fatto che qualcuno vuole slegarli una dall’altra. Aristotele diceva che l’uomo era l’unione (non la somma) di anima e corpo, per cui i dati psicologici non potevano essere separati dal nostro corpo, essendo due facce della stessa medaglia; quindi non la somma, ma il risultato totale da cui non si può estrarre alcunché. Oggi c’è qualcuno che ritiene che le caratteristiche fisiche e psicologiche possono, anzi devono, essere separate. Questi sono i teorici dell’ideologia di genere. Tale ideologia nasce in ambito accademico intorno agli anni ’70 e che è scesa un po’ a cascata e adesso noi cominciamo a sentirne parlare.
E’ partita nelle università americane, passando gradualmente fino alla cultura. Quest’idea va cercata nel femminismo. Il femminismo nasce nella rivoluzione francese, con un “femminismo liberale”, ossia dare uguali diritti a persone diverse e questo orientamento durò fino agli anni ’30-‘40, quando con il diritto al voto ed alcune leggi sul lavoro, gli obiettivi del femminismo liberale furono raggiunti. E’ così che il movimento femminista piombò in una crisi, dalla quale sorse a fine anni ’50 il “femminismo radicale”, quello delle piazze degli anni ’70, nato dall’incontro del femminismo con la dialettica marxista, ossia: c’è una classe di sfruttatori che ha impostato la società in modo da sottomettere la classe degli sfruttati e che ha tutto l’interesse di mantenere lo status quo per continuare ad avere la supremazia sugli altri. Da qui la dialettica prevede che ci sia uno scontro tra queste due classi, tesi-antitesi, che si concluderà in una sintesi che sarà la società socialista senza classi. Il femminismo radicale fa la stessa cosa, leggendo la realtà con la stessa chiave di lettura: nel mondo ci sono due classi, quella maschile e quella femminile, gli uomini hanno strutturato la società in modo da creare e mantenere il loro potere sulla donna e che quindi è la classe sfruttata. La sintesi sarà una società senza più classi, né maschile né femminile, cioè una classe asessuata.
Quest’idea era già stata anticipata dal comunismo marxista ben prima del femminismo radicale: Engels nell’opera del 1884 “L’origine della famiglia, della proprietà e dello stato” (fate attenzione all’ordine delle parole) parla della società primitiva (in realtà mai esistita) in cui c’era la comunione di tutti i beni e il godimento libero da parte degli uomini di tutte le donne. Visto che i figli non si sapevano di chi era, dovevano essere educati dallo Stato (asili di Stato, scuola di Stato); quando un uomo, per egoismo, decise che una donna era sua, ha dovuto creare strutture economiche che mantenessero in piedi quella che fu chiamata famiglia. Dalla famiglia nacque la proprietà privata e da questa lo Stato, che ebbe il dovere di difenderla. Ritornando alla questione del femminismo radicale: abbiamo detto, una società dal punto di vista sessuale indifferenziata. Chiunque può far notare agli ideologi di genere che delle differenze tra maschi e femmine ci sono, e non sono eliminabili; la risposta a questo è stata “noi della biologia ce ne freghiamo” ed è questo il sostegno filosofico a quella serie di manipolazioni ed esperimenti che ha portato al concepimento senza l’unione tra maschio e femmine, alla fecondazione in vitro ecc.
Pensiamo al referendum sulla legge 40: c’era un quesito che avrebbe lasciato basito chiunque, perché si diceva che potevano accedere alle tecniche di fecondazione artificiale anche coppie che non avevano problemi di fertilità. Al che uno si chiedeva perché una coppia senza problemi dovrebbe accedere a queste tecniche che sono dolorose, complicate, psicologicamente molto stressanti; cioè era un quesito alla base del quale ci stava proprio l’ideologia di genere, volendo sostenere che l’unione carnale tra maschio e femmina non c’entra niente con la riproduzione, la quale non è che l’esito di un processo tecnologico in cui la biologia non c’entra niente. Anche trascurando la biologia tra maschi e femminine ci sono grandi differenze psicologiche: le femmine sono più portate all’ascolto e alla relazione; i maschi sono più competitivi, sono più portati all’esterno, mentre le donne per la casa. Qualcuno li chiama stereotipi ma sono invece tendenze generali.
Le femministe radicali sostengono che queste differenze sono “socialmente costruite”, ossia il fatto di rivolgersi ad un individuo chiamandolo con nomi e pronomi femminile/maschile, facendolo giocare con certi giochi, facendolo vestire in un certo modo, costruiamo un’identità di genere di un certo tipo; se cambiamo nomi, giochi e vestiti, creiamo un’identità di genere completamente diverso. Se si abolisse tutto questo, noi avremo una società asessuata. Sembrano deliri: no, è questa l’ideologia di genere. Ci sono degli asili in cui ci sono dei programmi finanziati, in cui ci sono giochi etichettati come maschili e come femminili e i bambini devono giocare a turno con un gioco e poi con l’altro, in modo da sviluppare entrambe le sensibilità. Il discorso del linguaggio che crea l’identità è qualcosa che le femministe radicali hanno preso da tutt’altro filone filosofico, quello del costruttivismo (Levy Strauss), nato dall’antropologia; studiando le differenze tra culture indicò nel linguaggio differente la causa delle società diverse. Ma è il linguaggio a creare una società diversa, o non è forse la società a creare un linguaggio diverso? Il nocciolo sta nel linguaggio: è per questo che in Spagna ed in Inghilterra sono state fatte leggi che riguardano il linguaggio: in Spagna non c’è più il termine “padre” e “madre”, ma “genitore A”, “genitore B”; nelle scuole inglesi sono state eliminate espressioni che fanno riferimento ai generi maschile o femminile, come “comportati da uomo”. La parola genere fino agli anni ’50 è stata usata in ambito grammaticale; dagli anni ’70 è stata introdotta in questo contesto dell’ideologia di genere dal medico australiano, poi trapiantato negli Usa, John Money, importante per due motivi: a) fu il primo ad usare la parola “genere” per indicare tutte le componenti non corporee della sessualità; b) fece il primo esperimento per vedere se queste teorie erano valide. Piccola parentesi: John Money faceva parte dell’ultima equipe del dott. Kinsey, famosissimo ma forse in pochi hanno letto davvero i suoi “Rapporti”, raccolti ne La sessualità dell’uomo e La sessualità della donna. Il dott. Money fece un esperimento che doveva dimostrare la sua teoria, ossia venne preso un maschietto, venne vestito e chiamato da femmina e quindi questo lo avrebbe dovuto portare ad essere una donna. Come finì il tragico esperimento sul piccolo Bruce Raimer? Col suo suicdio... Ciò dice che l’identità sessuale e di genere non sono così manipolabili e a nostra disposizione.
Van Gogh, I primi passi
Questo quadro è molto interessante dal punto di vista del genere (gli ideologi del genere non sarebbero molto contenti di Van Gogh): il padre viene dall’esterno della casa e ha vicino a sé gli attrezzi del lavoro; la madre viene dall’interno ed ha alle spalle la casa e regge il bambino. Quello che colpisce è il sincronismo e la coordinazione di questi tre personaggi: la madre si china, appoggia il bambino per terra e lo sostiene (non lo trattiene); il bambino muove già il piedino e muove verso il papà; il papà è accovacciato e tende le braccia verso il bambino. Noi già ci immaginiamo come andrà a finire: il bambino, magari incespica un po’ ma alla fine arriverà dal padre che lo raccoglierà. Quello che è da sottolineare è la coordinazione: la madre sostiene il bambino e non lo trattiene, il bambino lascia la madre e va verso il papà, il papà lo accoglie.
Tuttavia questa scena può svolgersi in maniera diversa: il bambino una volta lasciato, può cascare perché non ancora pronto per svolgere questi passi; può succedere che la mamma trattiene il bambino e il bimbo non riesce ad andare dal papà, oppure che il papà, mentre il bambino sta avvicinandosi, si distragga da altro e lasci la scena. Quindi, se uno dei tre attori non rimane coordinato, i primi passi non potranno andare come sognati. Questo quadro è una metafora per l’identità. (di Roberto Marchesini)