Sempre più spesso l’imbarbarimento mostra uno dei suoi tanti volti nella pratica diffusa di parlare di qualunque argomento con una pochezza disarmante schiamazzando per il diritto alla libera opinione senza aver assolto il dovere della riflessione su un determinato tema. Le opinioni diventato spesso tutte uguali e sono più simili a slogan che ad argomentazioni razionali. Si preferisce colpire lo stomaco che far riflettere.
Per questo è necessario parlare di alcuni concetti fondamentali dei quali la modernità ha dimenticato e distorto il significato con la presunzione del figliol prodigo che volendo emanciparsi dal padre (la tradizione) vuole la sua parte di eredità (ciò che il passato ci ha tramandato di buono e vero) per dilapidarla con le prostitute finendo a mangiare le ghiande dei porci (simbolo questo dell’imbestialimento di colui che segue solo il proprio io e le sue voglie). Partiamo da qui: l’uomo si distingue dall’animale per la capacità razionale, ossia la capacità di elaborare concetti attraverso l’astrazione. Questa capacità o potenza è ciò che permette all’uomo di trascendere la realtà per come si dà nell’esperienza di tutti i giorni. Per questo da Kant in poi si è iniziato a chiamare questa capacità trascendentale. La coscienza è capace di trascendere qualunque oggetto o soggetto poiché il proprio orizzonte è infinito. Può fermarsi su questo o quell’oggetto, su questo o quest’altro soggetto (un’altra coscienza), ma questo oggetto o questo soggetto su cui la coscienza si ferma non satura completamente il suo orizzonte infinito.
Per questo Aristotele dice nel De anima che l’intelletto può diventare forme. Boezio1 dando la celebre definizione di persona parla di rationalis naturae individua substantia (sostanza individuale di natura razionale). È una definizione che spiega perfettamente la realtà dell’essere umano. L’uomo, infatti, è un individuo, cioè è indiviso in sé e diviso da altro. È quindi un organismo completo che non è materialmente collegato a nessun’altro. Ha una natura razionale, ossia nasce (natura deriva dal verbo latino nascor che significa nascere) dotato della capacità di aver in vista un orizzonte che in base a ciò che abbiamo detto in precedenza della coscienza è infinito e può essere saturato solo da un essere infinito. Questo risultato che abbiamo ottenuto dal punto di vista dell’intelligenza lo possiamo guadagnare anche dal punto di vista del desiderio il cui momento pratico è la volontà. Le parole portano sempre con loro il proprio significato, anche se nessuno più è abituato a riflettere su di esse. Un grande filosofo del ‘900 morto prematuramente, Emanuele Samek Lodovici, era solito dire ai suoi studenti, riprendendo la lezione del Filebo di Platone, che chi non ha le parole non ha le cose. Tornando al desiderio è necessario in via preliminare distinguerlo dal bisogno. L’origine delle due parole svela la loro intrinseca differenza. Desiderio deriva dall’antico latino de-siderare che significa osservare le stelle (sidera) con attenzione (la particella de ha un valore intensivo). Nel greco di Aristotele corrisponde a orexis e deriva dal verbo orego (porgo, sporgo, tendo). Per questo i medievali, e in particolare Tommaso d’Aquino, parleranno di adpetitus intellectivus sive rationalis (appetito intellettivo o razionale) dove adpetitus deriva da ad-petere che significa tendere. Se il desiderio ha questa stretta connessione con l’intelligenza bisogna ammettere che anche il desiderio ha la stessa apertura dell’intelligenza, ossia un orizzonte infinito. Osservare con attenzione le stelle significa proprio rivolgere la propria attenzione a qualcosa di determinato, ma che si eleva al di sopra di tutta la realtà. Del resto ogni volta che raggiungiamo ciò che desideriamo il nostro desiderio non si acquieta completamente, ma solo un essere infinito che riempia l’apertura del desiderio può renderci beati. È a questo punto che si introduce il bene come “ciò che è degno di attenzione e di stima”.
È questa, infatti, la traduzione precisa del greco agathόn che traduce il latino bonum. Bonum deriva dal latino arcaico duonum che contiene in sé il rimando alla radice indoeuropea DVE che è la stessa che dà origine al verbo latino dveo o beo (“rendo beato”). Quando si parla del desiderio non si può non parlare del suo termine intenzionale che è propriamente il bene. Il bisogno è diverso dal desiderio. La parola bisogno deriva dall’antico latino bi-somnium e remotamente dal gotico sunia che indica “necessità” e “impedimento”. Il bisogno è precisamente questo: la tensione a un determinato soddisfacimento che possa colmare una mancanza, come lo sfamarsi per l’affamato o il bere per l’assetato. A questo punto bisogna notare che se la maggior parte dei filosofi, da Aristotele a Sartre, sono concordi nel considerare come trascendentale l’ampiezza del desiderio, ossia infinita, non sono d’accordo sulla qualità di questo desiderio. Kant, Hobbes, Sartre e Freud, ad esempio, concordano nel considerare il desiderio come un uti, ossia come una tendenza ad usare la realtà che deve essere controllata e conciliata col reale. In questo senso la realtà è un semplice oggetto di consumo da ricondurre all’immediata soddisfazione del proprio desiderio. Aristotele, Tommaso d’Aquino e anche Hegel (per fare alcuni nomi) sono concordi nel considerare il desiderio come una tendenza al frui, ossia alla fruizione della realtà per goderne, ma lasciandola essere ciò che è.
Riassumendo, siamo arrivati ad alcuni risultati: l’uomo è colui che per sua natura ha una capacità di apertura infinita sia per quanto riguarda l’intelligenza sia per quanto riguarda il desiderio. Si distingue, quindi, dagli animali poiché l’intelligenza e il desiderio dicono una sporgenza rispetto alla semplice corporeità e ai suoi semplici bisogni. Ciò che fin qui abbiamo chiamato coscienza può essere chiamata legittimamente anima, ossia quella forma che conferisce all’uomo le proprie capacità (accrescimento, movimento, pensiero, desiderio). Dalle capacità o potenze o facoltà di cui abbiamo personale esperienza siamo risaliti all’essere e in particolare all’anima come forma o atto di un corpo organico avente la vita in potenza (Aristotele). Ma il fatto che si risalga alla coscienza partendo dalle sue funzioni in atto non significa che se queste funzioni non sono in atto allora l’anima non esiste. Colui che dorme non pensa e non desidera eppure mantiene un’anima. Colui che si trova in un cosiddetto stato vegetativo persistente può non mostrare segni di coscienza a colui che gli sta accanto e tuttavia può mostrarli nuovamente in caso di risveglio segno che l’anima umana e, quindi, l’apertura trascendentale e, quindi il suo essere persona, non viene intaccato da questo stato di sofferenza. L’embrione umano, proprio perché appartenente alla specie uomo pur non facendo pensieri manifesta alcune funzioni come l’accrescimento, la capacità di costruire il proprio nido, ossia la placenta e il cordone ombelicale, e la capacità di segnalare alla madre la propria presenza. Tutte caratteristiche e funzioni che lo rendono sostanza individuale di natura razionale. Non un seme di uomo, ma già germoglio da custodire. L’anima e il corpo non sono, infatti, addendi che si sommano dando come risultante l’uomo, ma principia, ossia dei quo (dei “ciò per cui” qualcosa ha certe caratteristiche). Senza l’anima non c’è il corpo e viceversa. L’apertura infinita dell’uomo sull’essere passa anche attraverso la corporeità tanto è vero che il concetto di persona è definito partendo dalla razionalità, ma deriva dal greco prosopon che indica il volto come sineddoche del corpo. Il corpo in questo senso è una manifestazione dell’anima. Quando tocchiamo la mano di qualcuno tocchiamo la sua anima. Per questo motivo i rapporti sessuali sono una cosa così seria, perché attraverso di essi si raggiunge l’unione delle due anime e si crea un legame fortissimo che è giusto instaurare solo in un legame stabile come quello matrimoniale che impegna alla fedeltà e alla donazione reciproche.
La libertà del bene
Se il desiderio è un appetito intellettivo e l’intelligenza è capace di divenire tutte le cose, ossia può intenzionare qualsiasi cosa, bisogna ammettere che l’uomo ha una libertà la cui radice risiede proprio nell’orizzonte infinito che la ragione e il desiderio umano hanno in vista. Ognuno, infatti, è libero di scegliere qualsiasi cosa, ma appena la ottiene con lo “sguardo” del suo desiderio è già oltre. Questo indica la sproporzione tra l’apertura del desiderio e la finitezza di ciò che abbiamo tutti i giorni sotto mano. Nonostante questa indeterminatezza iniziale del desiderio noi siamo in grado di autodeterminarci scegliendo qualcosa di determinato. Il libero arbitrio, travisato dai moderni, non è come si vede la prima declinazione della libertà. Il libero arbitrio è la condizione per cui si è liberi di far fiorire la propria natura perseguendo ciò che è l’orizzonte adeguato del desiderio, ossia il bene, e dell’intelligenza, ossia l’essere. Questo aspetto è gravido di conseguenze perché se è vero che l’oggetto adeguato dell’intelligenza è l’essere e l’oggetto adeguato del desiderio è il bene è sempre razionale scegliere l’essere e non il non-essere, come è sempre desiderabile il bene e non il male. Il bene, infatti, è ciò che fa fiorire il nostro essere e per questo la definizione aristotelica del libero è questa: libero è colui che è causa sui. Questo non significa l’essere in grado di fare ciò che si vuole, ma l’essere in grado di perfezionare la propria natura. Abbiamo detto, infatti, che natura deriva dal latino nascor e indica qualcosa di stabile come disposizione, ma che è suscettibile di ulteriori miglioramenti o (in caso di una libertà mal interpretata) di peggioramenti. Per questo, ad esempio, Tommaso d’Aquino parla di un bonum secundum quid (buono relativo) e di un bonum absolutum (buono assoluto).
Il primo è il bene legato al possedere alcune perfezioni per nascita, il secondo è il bene ottenuto perfezionando il proprio essere ed è ciò che ognuno è chiamato a fare esercitando la propria libertà. Se ciò che si è detto fino qui è corretto bisogna ammettere che non si può mai desiderare la propria morte o reclamare la libertà di compiere il male. Non si obietti a questo punto che bene e male non si sa cosa siano e che ognuno lo decide nella propria coscienza. Ho cercato di spiegare in modo abbastanza dettagliato che l’essere uomo è condizione sufficiente per essere persona e che il concetto di persona non è un concetto che va e che viene a seconda degli stadi della vita. Il “non fare agli altri ciò che non vuoi sia fatto a te” è il punto di riferimento per iniziare un discernimento corretto del bene dal male. Tutto ciò che concorre al bene e, quindi, al perfezionamento del proprio essere deve essere desiderato e tutto ciò che comporta uno scadimento del proprio essere è male e deve essere rifiutato. [continua… ]