Se il realismo di Niebuhr arriva alla Casa Bianca - La civilizzazione morbida
Di Rassegna Stampa (del 21/02/2009 @ 11:49:07, in Esteri, linkato 1164 volte)

Il neopresidente Obama ha indicato in Reinhold Niebuhr uno dei suoi autori preferiti. L’attualità di un teologo protestante che, rileggendo sant’Agostino, mise in guardia gli Stati Uniti dal messianismo politico di Gianni Dessì (30 Giorni)

In un colloquio di qualche tempo fa con David Brooks, uno dei più noti tra i commentatori politici conservatori del New York Times, il neoeletto presidente Obama ha ricordato Reinhold Niebuhr come uno dei suoi autori preferiti1. Niebuhr, figura poco nota in Italia, è stato un teologo protestante, insegnante di Etica sociale alla Columbia University di New York, che ha avuto una grande influenza sulla cultura politica nordamericana almeno a partire dal 1932, anno nel quale pubblicò Uomo morale e società immorale, sino al 1971, anno della sua morte. Al suo realismo politico si sono riferiti intellettuali e politici, conservatori e liberali. Hans Morgenthau e George Kennan, i più noti tra i liberali conservatori che nell’immediato dopoguerra elaborarono quell’insieme di motivazioni che avrebbero costituito il riferimento intellettuale di molti americani negli anni della guerra fredda, della contrapposizione al blocco sovietico, si riferirono esplicitamente a Niebuhr e al suo realismo politico2. D’altra parte anche Martin Luther King, certamente non un conservatore, fu particolarmente sensibile alle critiche di Niebuhr all’ottimismo della cultura liberale e all’idea che la giustizia potesse essere realizzata attraverso esortazioni morali: egli riconobbe che doveva a Niebuhr la consapevolezza della profondità e della persistenza del male nella vita umana3. Obama, intervistato da Brooks, affermava di dovere a Niebuhr «l’idea irrefutabile che c’è il male vero, la fatica e il dolore nel mondo. Noi dovremmo essere umili e modesti nel nostro credere di poter eliminare queste cose. Ma non dovremmo usarlo come scusa per il cinismo e l’inattività». In poche espressioni vengono sottolineati alcuni aspetti essenziali delle posizioni di Niebuhr. L’idea che dal mondo siano ineliminabili «il male vero, la fatica, il dolore» rimanda alla critica di Niebuhr all’ottimismo che egli riteneva uno dei tratti costitutivi del pensiero religioso e sociale americano; così l’idea che anche colui che agendo politicamente si trovi a lottare contro la presenza dell’ingiustizia e del male debba essere “umile”, rinvia alla consapevolezza che non è possibile eliminare il male dalla storia ed è pericolosa illusione crederlo. D’altra parte tale persistenza del male non può essere scusa per «il cinismo e l’inattività». Viene delineata una posizione che intende evitare sia “l’idealismo ingenuo” sia il “realismo amaro” (nel linguaggio di Niebuhr: sia il sentimentalismo sia il cinismo).

Come nelle opere di Niebuhr si definisce questa prospettiva, quali i suoi riferimenti storici e culturali? Luigi Giussani, in Italia, già dalla fine degli anni Sessanta aveva colto la rilevanza del realismo di Niebuhr nel pensiero teologico e, più in generale, nella cultura statunitense. Giussani ricordava come nella formazione del pastore protestante avesse certamente svolto un ruolo l’esistenzialismo teologico europeo, ma una «netta originalità segna sin dagli inizi la sua produzione, la cui ispirazione e le cui tendenze chiave si formano e delineano nell’esperienza vissuta come pastore della luterana Bethel Evangelical Church di Detroit»

Niebuhr, giovanissimo, si trovò a essere pastore di una piccola comunità di Detroit negli anni dello sviluppo della casa automobilistica Ford e della Prima guerra mondiale, tra il 1915 e il 1928. Di formazione liberale, egli sperimentò l’inadeguatezza dell’ottimismo antropologico di tale concezione e della sua declinazione sociale, quella del movimento del Social Gospel, nel comprendere la persistenza del male individuale e dell’ingiustizia. Furono gli anni dell’autocritica alle proprie convinzioni liberali e ottimistiche. Di fronte alle speranze di una moralizzazione della società attraverso la predicazione religiosa egli, in un appunto del 1927, constatava che «una città costruita attorno a un processo produttivo e che solo casualmente pensa e offre un’attenzione accidentale ai propri problemi è realmente una sorta di inferno»5. Tale autocritica trovò piena espressione nel libro Uomo morale e società immorale. In esso, come ha scritto Giussani, la «realtà inevitabile del male […] è affermata e documentata contro ogni ottimismo che non veda l’impossibilità esistenziale del passaggio dalla coscienza del bene, che l’individuo ha, alla realizzazione di esso, impossibilità che specialmente nella sfera del collettivo si accusa in modo inesorabile»6. Il libro, del 1932, scritto durante gli anni nei quali Niebuhr subì l’influenza del marxismo, rappresentò negli Stati Uniti degli anni Trenta la denuncia forse più incisiva dell’ottimismo e del moralismo, da una parte, e dell’indifferenza e del cinismo, dall’altra, che avevano caratterizzato la società americana negli anni successivi alla Prima guerra mondiale. Nel breve periodo che va dal 1917, l’anno dell’entrata in guerra dell’America, al 1919, l’anno dei trattati di pace che penalizzarono fortemente le nazioni sconfitte, si consumò l’idealismo del movimento progressista e del presidente Wilson. Le motivazioni morali che Wilson e molti intellettuali progressisti avevano indicato come ragioni della partecipazione degli americani alla guerra erano state contraddette dall’esasperato realismo dei trattati di pace che esprimevano in modo palese la sanzione dei nuovi rapporti di forza tra le potenze vincitrici e quelle sconfitte. Nell’America degli anni Venti, proprio in reazione alle crociate ideali di Wilson, si affermò un’esigenza di ritorno alla normalità, che trovò espressione nell’elezione del presidente Warren Harding il quale a tale ideale aveva ispirato la propria campagna elettorale.

In realtà la società americana di quegli anni conobbe uno sviluppo economico mai visto, la diffusione della pubblicità e del consumo di massa, insieme a una forte polarizzazione tra ricchi e poveri. Tale società appariva agli occhi di un attento osservatore come Niebuhr la sconfessione, o la riduzione a retorica, di ogni forma di moralismo ed era caratterizzata dall’emergere di atteggiamenti sempre più cinici e disillusi. L’emendamento XVIII alla Costituzione, che vietava la produzione, il trasporto e la vendita di alcolici sul territorio americano, può essere considerato emblematico di questa situazione: esso, approvato nel 1919, come simbolo della battaglia per la moralizzazione dei costumi, favoriva di fatto lo sviluppo di diverse forme di criminalità organizzata che proprio dal commercio illegale di alcolici traevano i maggiori profitti. Niebuhr, in quegli anni, riteneva che una società più giusta non sarebbe stata la conseguenza di esortazioni morali o religiose, ma di concrete iniziative storiche e politiche, che proprio in quanto tali avrebbero dovuto confrontarsi con realtà poco elevate. Egli, che dal 1928 aveva lasciato Detroit e aveva iniziato a insegnare alla Columbia University di New York, ricorderà come proprio le esigenze dell’insegnamento lo abbiano condotto ad approfondire la conoscenza di Agostino. In una intervista del 1956 affermava: «Mi sorprende, in un esame retrospettivo, notare quanto tardi io abbia iniziato lo studio di Agostino: ciò è ancora più sorprendente se si tiene presente che il pensiero di questo teologo doveva rispondere a molte mie domande ancora irrisolte e liberarmi finalmente dalla nozione che la fede cristiana fosse in qualche modo identica all’idealismo morale del secolo scorso»7. Sant’Agostino in un affresco del VI secolo, Laterano, Roma Il riferimento a sant’Agostino è stato centrale sia per quanto riguarda la consapevolezza delle ragioni che distinguono la fede dall’idealismo, sia per superare alcune aporie che Niebuhr aveva maturato nei primi anni della propria riflessione. Il cristianesimo appare al giovane Niebuhr segnato da un aspetto, quello dell’assoluta gratuità, che si pone oltre ogni tentativo umano di realizzare gli ideali etici. L’uomo può, con grande sincerità, impegnarsi per realizzare sfere di convivenza caratterizzate da quello che Niebuhr definisce «mutual love», amore fondato sulla reciprocità: Cristo è invece testimone di un altro tipo di amore, definito «sacrificial love». Nel 1935 in An Interpretation of Christian Ethics egli aveva esplicitamente richiamato tale radicale differenza scrivendo: «Le esigenze etiche poste da Gesù sono d’impossibile compimento nell’esistenza presente dell’uomo […]. Qualunque cosa meno dell’amore perfetto nella vita umana è distruttivo della vita. Ogni vita umana sta sotto un incombente disastro perché non vive la legge dell’amore»8. Nel 1940, riprendendo alcune di queste riflessioni e riferendole all’ambito politico, aveva sostenuto che una concezione «che aveva semplicemente e sentimentalmente trasformato l’ideale di perfezione del Vangelo in una semplice possibilità storica» aveva prodotto una «cattiva religione» e una «cattiva politica», una religione in contrasto con il dato essenziale della fede cristiana e una politica irrealistica, che rendeva le nazioni democratiche sempre più deboli9. D’altra parte, pur criticando il sentimentalismo e l’ottimismo della cultura liberale, egli constatava l’ineliminabile presenza della certezza del significato dell’esistenza, della sua positività, come tratto caratteristico di un’esistenza sana. Questa certezza, scrive, «non è qualcosa che risulti da un’analisi sofisticata delle forze e dei fatti che circondano l’esperienza umana. È qualcosa che è riconosciuto in ogni vita sana […]. Gli uomini possono non essere in grado di definire il significato della vita e malgrado ciò vivere attraverso la semplice fede la certezza che essa ha significato»10.

L’opera nella quale tali diverse suggestioni trovano una sintesi è The Nature and Destiny of Man, pubblicata in due volumi tra il 1941 e il 1943. In essa si legge: «L’uomo, secondo la concezione biblica, è un’esistenza creata e finita sia nel corpo, sia nello spirito»11. La chiave per comprendere la natura umana è da una parte il riconoscimento della creazione: l’ottimismo essenziale che caratterizza un’esistenza sana è legato alla percezione di essere creato, voluto da Dio. Dall’altra la libertà umana, che, come segno posto da Dio nel cuore dell’uomo, come possibilità di aderire a tale intuizione o di rifiutarla, diviene assolutamente centrale. L’uomo può (e Niebuhr sembra dire “inevitabilmente”) cercare soddisfazione nei beni creati e non in Dio. Il male nasce quando l’uomo conferisce a un bene particolare un valore assoluto: è l’uso sbagliato della libertà – il peccato – che genera il male, non la sensibilità o la materialità. La presenza di Agostino in questa che è l’opera maggiore e più sistematica di Niebuhr è evidente e costante: la concezione realistica della natura umana che Niebuhr propone rimanda esplicitamente alla concezione biblica e ai testi agostiniani. In un saggio del 1953, Augustine’s Political Realism, incluso nel volume dello stesso anno Christian Realism and Political Problems, Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di sant’Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale In un saggio del 1953, Augustine’s Political Realism, incluso nel volume dello stesso anno Christian Realism and Political Problems, Niebuhr riconosce esplicitamente il suo debito nei confronti di sant’Agostino e precisa in quale senso il santo sia da ritenere il primo grande realista del pensiero occidentale e perché la sua prospettiva gli sembri attuale. Niebuhr inizia questo saggio offrendo una schematica definizione del termine realismo: esso «indica la disposizione a prendere in considerazione tutti i fattori che in una situazione politica e sociale offrono resistenza alle norme stabilite, particolarmente i fattori di interesse personale e di potere». Al contrario, l’idealismo, per i suoi sostenitori, è «caratterizzato dalla fedeltà agli ideali e alle norme morali, piuttosto che al proprio interesse»; per i suoi critici, da «una disposizione a ignorare o a essere indifferenti alle forze che, nella vita umana, offrono resistenza agli ideali e alle norme universali»12. Niebuhr precisa che idealismo e realismo in politica sono disposizioni, più che teorie. In altri termini anche il più idealista degli individui dovrà inevitabilmente confrontarsi con i fatti, con la forza di ciò che è; anche il più realista dovrà confrontarsi con la tendenza umana a ispirare l’azione a valori ideali, a ciò che deve essere13. Niebuhr ritiene che sant’Agostino sia stato «per riconoscimento universale il primo grande realista nella storia occidentale. Egli ha meritato questo riconoscimento perché l’immagine della realtà sociale nella sua Civitas Dei, offre un’adeguata considerazione delle forze sociali, delle tensioni e competizioni che sappiamo essere quasi universali a ogni livello di comunità»14. Per il teologo protestante il realismo di sant’Agostino si lega alla sua concezione della natura umana, e in modo particolare al giudizio sulla presenza del male nella storia. Infatti per sant’Agostino «la fonte del male è l’amor proprio, piuttosto che un qualche residuo impulso naturale che la ragione non ha ancora dominato». Il male non deriva quindi né dalla sensibilità né dalla materialità, che non sono contrapposte allo spirituale. Il fare dei propri interessi materiali o ideali un fine ultimo è una caratteristica umana che ha a che vedere con la libertà e che si esprime in ogni livello dell’esistenza umana e collettiva, dalla famiglia alla nazione all’ipotetica comunità mondiale. Reinhold Niebuhr nel suo studio in una foto del 1955 [© Getty images/Laura Ronchi] Il realismo di Agostino permette inoltre di rispondere all’accusa rivolta dai liberali a coloro che sostengono una concezione non ottimistica della natura umana: all’accusa cioè di considerare nello stesso modo e quindi di approvare qualsiasi forma di potere. «Il realismo pessimistico» scrive Niebuhr «ha infatti spinto sia Hobbes sia Lutero a una inqualificabile approvazione dello stato di potere; ma questo soltanto perché non sono stati abbastanza realisti. Essi hanno visto il pericolo dell’anarchia nell’egoismo dei cittadini ma hanno sbagliato nel percepire il pericolo della tirannia nell’egoismo dei governanti»15. Il realismo di sant’Agostino, in altri termini, non cede al cinismo e all’indifferenza nei confronti del potere perché «mentre l’egoismo è “naturale”, nel senso che è universale, non è naturale nel senso che non è conforme alla natura dell’uomo». Infatti «un realismo diviene moralmente cinico o nichilistico quando assume che una caratteristica universale del comportamento umano debba essere considerata anche come normativa. La descrizione biblica del comportamento umano, sulla quale Agostino basa il suo pensiero, può rifuggire sia l’illusione sia il cinismo perché essa riconosce che la corruzione della libertà umana può rendere universale un modello di comportamento senza farlo diventare normativo»16. L’idea di un realismo che sia in grado di evitare l’indifferenza, il cinismo e l’approvazione incondizionata di qualsiasi forma di potere, così come il sentimentalismo, l’idealismo e le illusioni nei confronti della politica e dell’esistenza umana, emerge con forza da questa rilettura che Niebuhr propone di sant’Agostino: a questa prospettiva, che come ricordava Niebuhr esprime una disposizione più che una teoria, sembra riferirsi Obama.

Note 1 C. Blake, Obama and Niebuhr, in The New Republic, 3 maggio 2007. 2 Cfr. R.C. Good, The National Interest and Political Realism: Niebuhr’s “Debate” with Morgenthau and Kennan, in The Journal of Politics, n. 4, 1960, pp. 597-619. 3 C. Carson, Martin Luther King, Jr., and the African-American Social Gospel, in Paul E. Johnson (ed.), African American Christianity, University of California Press, Berkeley 1994, pp. 168-170. 4 L. Giussani, Grandi linee della teologia protestante americana. Profilo storico dalle origini agli anni Cinquanta, Jaca Book, Milano 1988 (I edizione 1969), p. 131. 5 R. Niebuhr, Leaves from the Notebook of a Tamed Cynic, The World Publishing Company, Cleveland 1957 (I edizione 1929), p. 169. 6 L. Giussani, Teologia protestante americana, cit., p. 132. 7 R. Niebuhr, tr.it., Una teologia per la prassi, Queriniana, Brescia 1977, p. 55. 8 R. Niebuhr, An Interpretation of Christian Ethics, Scribner’s, New York 1935, p. 67. 9 R. Niebuhr, Christianity and Power Politics, Scribner’s, New York 1952 (I edizione 1940), pp. IX-X. 10 Ibid., p. 178. 11 R. Niebuhr, The Nature and Destiny of Man. A Christian Interpretation, vol.I, Human Nature, Scribner’s, New York 1964 (I edizione 1941), p. 12. 12 R. Niebuhr, tr.it., Il realismo politico di Agostino, in G. Dessì, Niebuhr. Antropologia cristiana e democrazia, Studium, Roma 1993, pp. 77-78. 13 Riprendo questa terminologia da Alessandro Ferrara, La forza dell’esempio. Il paradigma del giudizio, Feltrinelli, Milano 2008, pp. 17-33. Una terza grande forza, oggetto del libro, è quella di «ciò che è come dovrebbe essere». 14 R. Niebuhr, tr.it., Il realismo politico di Agostino, cit., p. 79. 15 Ibid., p. 85. 16 Ibid., p. 88.

 

 

La civilizzazione morbida

L’incredibile esperienza di evangelizzazione e di civilizzazione che fu la fondazione da parte dei gesuiti di vere e proprie città nel cuore dell’America Latina fra XVII e XVIII secolo

di Lorenzo Cappelletti

 

Gianpaolo Romanato, Gesuiti, guaranì ed emigranti nelle Riduzioni del Paraguay, Regione del Veneto – Longo Editore, Ravenna 2008, 104 pp., euro 13,00
      Un libro piccolo ma prezioso quello di Gianpaolo Romanato appena pubblicato, grazie al contributo della Regione Veneto, dall’Editore Longo di Ravenna col titolo Gesuiti, guaranì ed emigranti nelle Riduzioni del Paraguay. Avvalorato da una protratta permanenza in loco dell’autore, il libro è dedicato a quell’incredibile esperienza, allo stesso tempo di evangelizzazione e di civilizzazione, che fu la fondazione da parte dei gesuiti di vere e proprie città nel cuore dell’America Latina fra XVII e XVIII secolo. Città organizzate, per gli indios guaraní, secondo le modalità più amorevoli e congrue, compatibilmente con la mentalità dei tempi, alle caratteristiche di quelle popolazioni. «Una civilizzazione morbida», la chiama Romanato, «compiuta da gesuiti che provenivano dall’intera ecumene di allora, cioè l’incontro non distruttivo e non conflittuale fra una cultura forte e una debole» (p. 48). La storia di quel territorio è stata cruciale innanzitutto per questa modalità missionaria lì sperimentata dai gesuiti, che corrisponde – Romanato nota che non sempre si coglie il nesso (pp. 22; 47; 60-61 e passim) – a ciò che essi stavano facendo nel medesimo tempo dall’altra parte del mondo, in Cina. Cruciale, inoltre, per la drammatica vicenda della soppressione della Compagnia di Gesù del 1773, intrecciata con la secolare lotta fra spagnoli e portoghesi per il dominio sul nuovo mondo, che aveva nella regione delle Riduzioni il suo massimo punto di attrito. E ancora, per la stessa evoluzione del pensiero giusnaturalista e illuminista, il cui background storico, potremmo dire, era proprio costituito da quello stato di natura e… di grazia che lì dotti e umili europei quali erano i gesuiti andavano sperimentando non sui libri ma sul campo, secondo l’esempio di san Francesco Saverio. E infine, la stessa configurazione del Brasile attuale, lo Stato col maggior numero di cattolici al mondo, e che dunque merita anche solo per questo un’attenzione privilegiata da chi è interessato alle vicende della Chiesa e del mondo, non è comprensibile senza fissare lo sguardo su quei primordi.
      Romanato, docente presso il Dipartimento storico dell’Università di Padova e da poco cooptato nel Pontificio Comitato di Scienze storiche, ha al suo attivo numerose pubblicazioni di storia contemporanea relative al territorio veneto e ai veneti. E proprio in base a queste competenze si è accostato al tema in oggetto, apparentemente lontano da esse nello spazio e nel tempo. In realtà, scorrendo le pagine del suo lavoro – sempre più coinvolti, dobbiamo dire – si scopre che la storia di quel territorio, che va ben oltre il sud dell’attuale Paraguay, comprendendo anche la provincia di Misiones nel nord-est dell’Argentina e buona parte dello Stato brasiliano di Rio Grande do Sul (grande quasi quanto l’Italia), è legata a doppio filo agli italiani, e in tempi recenti soprattutto ai veneti (lato sensu) che, con un’epopea non da meno rispetto ai primi gesuiti, hanno di nuovo popolato e civilizzato quelle terre fra XIX e XX secolo. Ma già dagli esordi furono numerosissimi gli italiani a operare in quella regione. A cominciare dalla sua prima evangelizzazione e dalla sua prima storiografia. Ai padri gesuiti Giuseppe Cataldini (†1653) e Simone Mascetta (†1658) la tradizione dell’Ordine fa risalire infatti la fondazione della prima Riduzione intitolata a sant’Ignazio. Così come fu sempre un italiano a tracciare una prima storia delle Riduzioni, sulla base di lettere del suo concittadino gesuita Gaetano Cattaneo: il modenese Ludovico Antonio Muratori, che nel suo Del cristianesimo felice nelle missioni dei Padri della Compagnia di Gesù nel Paraguay, apparso a Venezia nel 1743, nel pieno della polemica antigesuita, dà prova di quella indipendenza di giudizio e di quell’intuito che fanno il vero storico, quando scrive che la vera Chiesa sta per «riempire e santificare una parte del mondo che è maggiore della stessa Europa», perché in quelle terre «riappare lo spirito dei primi cristiani» e «abita l’umiltà» (cfr. pp. 57-58). A proposito di umiltà, si dovrebbe parlare fra gli altri anche del musicista pratese Domenico Zipoli, che, a fronte di una brillante carriera come organista del Gesù a Roma, nel 1717 partì missionario (morendo di tubercolosi neanche quarantenne) e di cui solo oggi, grazie alla scoperta fortuita di suoi manoscritti in Bolivia, si riesce a comprendere l’importanza fin qui rimasta sconosciuta.
Uno scorcio delle costruzioni superstiti nella Riduzione di Trinidad, Paraguay
      Il libro si raccomanda a un duplice livello. Innanzitutto, dal punto di vista scientifico, costituisce una rassegna bibliografica aggiornatissima, utile a chiunque debba impostare una ricerca sul tema. Per qualunque ricerca monografica, ogni professore vorrebbe poter consigliare un primo strumento come quello che offre Romanato sui personaggi e le vicende legate al territorio delle Riduzioni. In esso infatti, oltre alla presentazione ragionata di quanto è già stato scritto, compaiono anche suggerimenti su piste di ricerca inesplorate. Come quella relativa agli «architetti gesuiti nati in Italia che operarono in varie città del Sud America e nelle Riduzioni, creandone lo stile architettonico e l’organizzazione urbanistica: Giovanni Battista Primoli, Giuseppe Bressanelli, Giovanni Andrea Bianchi, Angelo Pietragrassa, Pietro Danesi» (p. 63). O l’altra, ugualmente interessante, quasi pendant rispetto alla precedente, su quale sia stato il destino e l’influsso delle centinaia di gesuiti, molti dei quali non italiani, che, esuli dopo la soppressione della Compagnia, trovarono accoglienza in alcune località dello Stato Pontificio, soprattutto emiliano-romagnole. «Quelle che ne accolsero il maggior numero furono Faenza, Imola, Bologna e Ravenna, oltre naturalmente a Roma. […] Che segno abbiano lasciato nel mondo italiano del tempo è quesito ancora in gran parte da sciogliere. Si sa che scrissero e pubblicarono in gran copia e che fra loro c’erano alcuni dei migliori ingegni che avevano operato nelle Riduzioni» (pp. 66-67).
      Ma, anche prescindendo dal piano accademico, il libro di Romanato può costituire una prima lettura consigliabile a chiunque finora non abbia che il film Mission (peraltro bellissimo e più volte citato da Romanato stesso) come fonte di conoscenza della storia moderna e contemporanea di quel fulcro privilegiato del mondo non solo sudamericano che è stata ed è la regione del Paraná, dell’Uruguay e dell’Iguaçu. Conoscenza interessante per chiunque voglia capire il passato per capire e amare il presente.

30 Giorni