Nel bel film La punta della lancia, un indios, responsabile di un gravissimo pluriomicidio perpetrato ai danni di un gruppo di missionari protestanti, si trova, molti anni dopo, faccia a faccia con il figlio di uno di loro. L’incredibile vicenda, infatti, li ha portati a condividere una profonda amicizia. L’assassino schiacciato dal peso del rimorso dichiara al ragazzo di essere il responsabile diretto della morte di suo padre. Quindi, allarga le braccia ed offre il petto nell’attesa di essere a sua volta giustiziato. Quel primitivo, che aveva vissuto sempre nella foresta sente il bisogno di ristabilire un ordine, che è innanzitutto interiore. Avrebbe potuto tacere; erano infatti passati moltissimi anni dai tristi eventi e molte cose erano accadute. Ma il guerriero Waudani, questo era il nome della sua tribù, non ne poteva pìù di portare nel cuore il peso del sangue versato. L’indio, con il proprio gesto, si offre e vuol donare la propria vita, perché avverte che solo espiando la colpa, potrà “ritrovarsi”. Ma il giovane figlio del missionario ucciso, memore del vangelo, getta lontano il fucile e lo abbraccia. Quello che in questa vicenda più mi colpisce, a parte la nobile bellezza del gesto di riconciliazione del perdono cristiano è il segno del pentimento, il riconoscimento da parte del colpevole del proprio delitto e il bisogno conseguente di una liberazione. Tutto questo configge in modo evidente con l’atteggiamento tipico di molti giovani quando sono chiamati ad assumersi la responsabilità dei propri gesti. Sembra diffusa oggi, l’idea che una scappatoia non debba essere negata a nessuno, a partire dalle giustificazioni che genitori e adulti loro complici adducono, per motivare comportamenti che un tempo sarebbero stati unanimemente giudicati sconvenienti.
La scuola è uno specchio fedele di questo tipo di mentalità, e chi la frequenti anche solo un pochino queste cose le sa. Questa abituale fuga dalle proprie responsabilità esplode con un fragore assordante quando solo riflettiamo sui molti delitti che vedono protagonisti sempre più spesso dei ragazzi. Sto parlando degli stupri per gioco, della aggressioni agli insegnanti , del disprezzo degli edifici pubblici. Per non parlare dei feroci delitti che riempiono le pagine dei giornali, delitti di tifosi, di innamorati rifiutati, di appartenenti a sette sataniche; delitti frutto di passatempi perversi finiti male. In tutto questo nessuno sembra mai voler ammettere la propria colpa. Spesso anzi, anche presi con le mani nel sacco i responsabili negano, sino a convincersi, grazie alla regia di abili avvocati di essere delle vittime della società, della famiglia, di un mondo ingrato. Perché? A ben pensare proprio questo fu il peccato di Caino che davanti a Dio che lo braccava con la domanda: “ Caino dov’è tuo fratello Abele?” Rispondeva: “ Sono forse io il custode di mio fratello?”. E’ evidente come in questa grande e immortale storia, si annidi una perenne lezione. “ Si tratta del ricorso ad un sotterfugio che fa appello all’indifferenza, alla superficialità, alla menzogna, alla copertura di comodo per evitare il grido della coscienza. Per far tacere lo stesso rimorso che comincia ad attanagliare il cuore.” Sono parole di Gianfranco Ravasi che toccano nel segno perché rivelano come la possibilità che l’uomo rinunci alla propria coscienza, cioè alla propria responsabilità verso se stesso e verso gli altri, sia sempre nell’aria. Come un putrido e latente germe pronto a saltar fuori e rendere opaco il nostro spirito sino ad annientarlo. E’ per questa via di ottenebramento, di progressivo scadimento del costume, che la coscienza del singolo si atrofizza sino a giustificare, uno fra tutti, il delitto rappresentato dall’aborto. Un delitto perpetrato in nome della libertà e dell’autodeterminazione, un delitto che si vorrebbe talmente ovvio da diventare per il singolo poco più che una noia, quasi si trattasse dell’estrazione di un dente cariato. E proprio per questo si vorrebbe che il male compiuto non fosse neppure più avvertito neanche come rimorso. Ecco, in questo modo, si uccide la coscienza e si crea un mondo di irresponsabili. E’ osservando tutto questo, e sperimentando l’ipocrisia divenuta sistema attraverso l’alterazione del linguaggio e la falsa presentazione dei problemi, che i ragazzi di oggi sviluppano il cinismo, vero volto operativo dell’indifferenza. In tal modo l’uomo occidentale e il ragazzo stanco, annoiato, senza alcun maestro, smarriscono persino il lume della coscienza, quel balunginio presente invece nello spirito feroce del primitivo. E questo perché abbiamo perso la capacità di educare al sacrificio, al valore delle cose, alla costanza di un impegno, alla gratuità dei gesti. Spesso, oggi, adulti e ragazzi paiono sedotti dal risultato immediato prigionieri del proprio egoismo. Per questa via, in un mondo in cui, la positività dei modelli è soppiantata dall’astratta retorica buonista dei grandi valori declamati, ma scarsamente vissuti, le giovani generazioni muoiono, perché niente più le appassiona. Maledetti da un mondo adulto che non sa proporsi che attraverso compromessi e giustificazioni, i ragazzi copiano i modelli che si trovano davanti e sognano un mondo di successo che non esiste o se esiste è per pochi. Crescono perciò frustrati e aggressivi davanti ad un mondo che li illude per poi pugnalarli alle spalle. Restano le eccezioni, le isole di bene, le esperienze positive che perlopiù di media trascurano; perché la normalità e la fatica dell’amore vissuto non fanno notizia.