Ho visto il film con Tom Cruise «Operazione Valchiria» in una multisala di Milano, domenica 1° febbraio sera, e la prima cosa che mi ha colpito è stata constatare come il locale fosse gremito in ogni ordine di posti: e non solo anziani curiosi o nostalgici, ma coppie giovani, gruppi di amici. Insomma, un indubbio successo. Dovuto al soggetto o al protagonista? Difficile rispondere. Più facile esprimere un’opinione sulla validità del film. Che, a mio modesto avviso, va riconosciuta. Sia per l’indubbia capacità espressiva di Tom Cruise, sia per la fedeltà agli eventi storici, narrati generalmente con adesione alla realtà (qualche critica la farò dopo), al punto che, seguendo lo sviluppo degli eventi descritti sullo schermo, mi pareva di rileggere le pagine del mio libro.
Non c’è dubbio che lo sceneggiatore e il bravo regista Bryan Singer hanno deciso di attenersi ai fatti senza lasciarsi trascinare da pulsioni sentimentali o voli di fantasia, dando vita così a quello che potrebbe definirsi un documentario storico reso avvincente dai primi piani dei volti dei protagonisti, dall’ottima ricostruzione ambientale (perfetti le divise, i veicoli, i carri armati, le telescriventi, i telefoni), dai dialoghi, assai verosimili.
Lo spettatore che non conosce a fondo la dinamica del 20 luglio ha perfettamente capito che l’insuccesso del complotto fu dovuto alla componente umana dei suoi ideatori: se fossero stati molto più duri con chi esitava, molto probabilmente il «Putsch» sarebbe riuscito, nonostante l’insuccesso dell’attentato vero e proprio. Sarebbe bastato tenere in pugno la sede della radio (onde impedire a Goebbels di accedervi per diramare il primo dei suoi comunicati-stampa) e porre nell’impossibilità di nuocere il generale Fromm, comandante dell’Esercito Territoriale (Ersatzheer). Ma né Von Stauffenberg, né Olbricht, né – meno che mai – l’anziano e umanissimo Beck (destinato a diventare il nuovo Capo dello Stato) avrebbero mai ucciso a freddo un oppositore. Difatti, si limitarono a «dichiarare in arresto» Fromm, invitandolo a ritirarsi nel suo ufficio, da dove il doppiogiochista (che, in un primo tempo, aveva lasciato intendere di aderire all’Operazione Walkiria) poté trasmettere una serie catastrofica di contrordini telefonici, contribuendo al fallimento del piano.
Se una osservazione posso fare, sulla sceneggiatura, riguarda piuttosto il momento dell’attentato vero e proprio. Non sarebbe stato male dedicare cinque minuti delle riprese a ciò che accadde nella «tana del lupo», a Rastenburg, dopo che Von Stauffenberg uscì dalla baracca dopo aver collocato la borsa con l’esplosivo a un metro da Hitler. Lo spettatore vede infatti il colonnello uscire dalla sala delle conferenze, precipitarsi di corsa verso l’auto dove lo attende il fedelissimo Von Haeften, e poi la terribile esplosione, che dà l’idea di una vera e propria strage. Sarebbe stata certamente una scena di grandissima «suspence» descrivere i vari movimenti che la borsa subì a opera dell’ufficiale al quale essa impediva di avvicinarsi alla carta geografica stesa al centro del tavolo delle conferenze. Prima spostata un po’ verso destra, poi spinta al di là del pesantissimo zoccolo di legno del tavolo che salvò la vita al Fûhrer causando per contro la morte di tre ignari e innocenti ufficiali.
Ma in fondo si tratta di particolari. Una critica, invece (come accennavo prima), va fatta, allo sceneggiatore, e mi sento di farla. Essa riguarda l’assoluta dimenticanza della componente religiosa sia nella personalità di Claus von Stauffenberg, sia nello svolgimento degli eventi. Nelle scene girate all’interno del Circolo di Kreisau, in un certo senso quartier generale del complotto, non compare mai, neppure una volta, un religioso. Eppure la componente, sia cattolica sia protestante, della Resistenza tedesca, non solo esistette, ma fu importante quanto quella militare e quanto quella della diplomazia (gli ambasciatori a Mosca e a Roma). Basterebbe ricordare due delle più illustri vittime della repressione, il pastore protestante Dietrich Bonhöffer e il gesuita padre Alfred Delp. Allo stesso modo, nel lavoro cinematografico non v’è traccia di un episodio fondamentale della vicenda storica di Von Stauffenberg: il fatto che, esattamente dieci giorni prima dell’attentato, ossia il 10 luglio, si fosse incontrato con l’arcivescovo di Berlino, conte Konrad von Preysing, al quale aveva preannunciato che intendeva uccidere il Führer. Il cardinale non aveva inteso frapporre ostacoli religiosi alla sua decisione. Debbo sottolineare che, sul punto, non è stata mai fatta completa chiarezza. Quando lo intervistai a Berlino, padre Harald Pölchau disse di avere appreso senza ombra di dubbio, dai numerosi capi del complotto da lui assistiti in punto di morte nel carcere di Tegel, di cui era cappellano protestante, che Von Stauffenberg si era confessato, era stato assolto e si era anche comunicato. Nel suo libro «Shirt of Nessus» (Londra, 1956), Constantine Fitz Gibbon, storico irlandese, uno dei massimi studiosi del 20 Luglio, sostenne che Von Stauffenberg si confessò senza tuttavia ricevere l’assoluzione. L’arcivescovo Preysing gli avrebbe però detto che «non si considerava autorizzato a trattenerlo in base a motivi ideologici». Nel 1963 fu inaugurata a Berlino, nel quartiere operaio di Siemensstadt, la chiesa cattolica Regina Martyrum, edificata in memoria dei religiosi impiccati in seguito ai fatti del 20 Luglio. All’inaugurazione era presente il cardinale Döpfner, attorniato da tutti i vescovi della Germania. Tutti dissero che, avendo fatto costruire quel tempio, la Chiesa di Roma implicitamente aveva ammesso la liceità del tirannicidio.
L’omissione riguardante il capitolo religioso è però compensata, nel film, dalla saggia e opportuna decisione di non scendere nel patetico indugiando in superflue scene di affetto tra Von Stauffenberg e la giovane moglie, la contessa Nina. La quale (scomparsa nel 2006) non avrebbe comunque gradito si parlasse di lei neppure al cinema. Come fece con me quando mandò a monte l’appuntamento che in un primo tempo aveva accettato per lasciarsi intervistare. Dovevo incontrarla a Francoforte, ma era improvvisamente partita per la sua residenza di campagna di Bamberga. Così, le feci telefonare da una signorina nell’ufficio di «Inter Nationes», che aveva organizzato il mio viaggio in Germania, e chiedere, anzitutto, se poteva mettere a mia disposizione qualche fotografia inedita di suo marito. La risposta fu negativa, nel modo più assoluto. La contessa disse che non intendeva più dare fotografie di suo marito per scopi propagandistici, e fece capire che non gradiva essere disturbata. Nina von Stauffenberg, all’indomani del 20 luglio, fu rinchiusa in un campo di concentramento con i suoi quattro bambini. Ebbe salva la vita per miracolo. Il suo primogenito, Berthold, divenne ufficiale fino al grado di Generale di Divisione nella Bundeswehr e adesso è in pensione. Anch’egli – come la madre e i fratelli – ha sempre rifiutato di concedere interviste a giornalisti e storici sia tedeschi sia stranieri. Il film di Bryan Singer, quindi, ha trattato con il dovuto rispetto la famiglia del grande tedesco.
Luciano Garibaldi