Ho appena terminato gli Esercizi Spirituali. Sei giorni di silenzio, di preghiera, di meditazioni… una settimana da Dio in compagnia di se stessi e quindi anche di quel Dio che è dappertutto ma lo trovi solo dentro di te. La settimana di esercizi è, dunque, un tempo di poche chiacchiere, di raccoglimento interiore, di assenza dalle occupazioni ordinarie per stare alla Presenza di Dio, per dialogare lungamente con Lui, per ascoltare una Parola strana. Una Parola che non mi dice sempre quello che vorrei sentirmi dire, ma che pur mettendomi inquietudine, mi getta nella pace. Vi sono tratti di questi giorni che, da alcuni anni a questa parte, si assomigliano perché ormai divenuti familiari come ad esempio, rileggere e aggiornare il mio testamento. Non che si tratti di cose particolari. Mi sono accorto che in 36 anni ho messo su tre cose: la macchina - una Bravo blu a metano ammaccata da più parti (così me l’ha lasciata la signora che me l’ha donata) e la portiera cigolante per via di un camoscio che poco educatamente voleva vedere l’interno della vettura; i libri, nulla di particolare salvo una collezione invidiabile di testi di Giovannino Guareschi; infine un conto in banca di piccole dimensioni. Ho riletto il testamento dello scorso anno e mi è sembrato saggio, così ho ringraziato Dio che non mi ha reso ulteriormente ricco da dover apporre delle modifiche. Soprattutto ho osservato il precetto evangelico: “Siate pronti”. E così mi è parso di aver fatto le valigie che per la verità vorrei riempire di qualche altra opera buona se il buon Dio me la concede. Il tratto più caratteristico degli esercizi degli ultimi anni, oltre all’ascolto delle meditazioni non sempre di grande interesse, è la lettura della vita di un santo. I Santi, non so perché, mi emozionano e mi illudono di poter anch’io un giorno fare cose buone. E così mi ritrovo a domandare a Dio di infiammare la mia vita perché non si consumi nella mediocrità, memore di quelle parole apocalittiche: “Magari tu fossi freddo o caldo! Ma poiché sei tiepido, non sei cioè né freddo né caldo, sto per vomitarti dalla mia bocca” (Ap 3,15b-16). Forse è per il disgusto del vomito che vorrei farmi santo. O forse per via di quell’inspiegabile desiderio che la vita sia piena… La santità più che una determinazione grintosa a raggiungere una perfezione morale, è il desiderio di essere in tutto – pensiero, parola, azione – determinato da Cristo. Così le settimane di esercizi di questi anni si sono affollati di santi incontrati lungo i sentieri del silenzio. Santi che hanno raccolto le parole del predicatore e le hanno rivestite di carne: un vangelo divenuto avvenimento. Generalmente la scelta del santo da portarsi appresso avviene da casa. Nello scomparto dei santi c’è sempre quello che attende di essere conosciuto. In realtà, poi, là dove concretamente si svolgono gli esercizi capita di imbattersi in una qualche scaffalatura con libri preparati per la lettura dei presenti. Siccome mi trovavo in una casa dei “Fatebenefratelli” ho preso sottobraccio un libro di Rino Cammilleri: Vita di Fra Riccardo Pampuri, un “fatebenefratello”, appunto. Non mi interessa tediarvi con una sintesi biografica di questo giovane morto nel 1930 alla stessa età di colui che voleva imitare…riuscendoci puntualmente! Solo mi preme, come fosse una pagina di diario, fissare tre pensieri nella speranza di batterli più che sulla pagina bianca di word sulla pagina della mia coscienza.
1) La prima cosa che colpisce è la tesi di fondo dell’autore che, in continuazione, ricorda come Erminio (questo il nome di Battesimo) sin da ragazzo aveva il desiderio della santità. In lui non vi è traccia di conversione e quindi neppure l’accorgimento dell’amarezza per una vita lontana da Dio. Il Mistero di Dio gli è, sin da ragazzo, familiare come il pane, lo studio, il gioco. Per Erminio è evidente che una vita vissuta attraverso i comandamenti di Dio è più bella, serena, gioiosa. Non gli interessa altro che Cristo e compiere, fino in fondo, il volere di Dio. Non è mica un bigotto. Legge i romanzi di Verne e di Salgari, ama la medicina così da laurearsi, da tutti benvoluto, cercato e stimato. In lui la preghiera, l’esame di coscienza, la vita sacramentale, l’obbedienza alle autorità che Dio gli mette davanti divengono un abito del quale pian piano vestirsi e costituire un’umanità affabile, generosa, umile, cordiale. Per dirla alla Guareschi, Pampuri non ha molti hobby se non quello di corrispondere al desiderio di Dio. Quel che piace a Lui…a lui va bene. Senza grandi sforzi.
2) La seconda cosa è l’inquietudine per il proprio dovere che poi, spesso, è anche ciò che Dio vuole. Succede che là dove Erminio è medico condotto, un piccolo paesino nel pavese, si trova ad essere anche primo collaboratore del parroco, presidente della sezione di Azione Cattolica, animatore di commissioni e di iniziative. La sua attrattiva nell’indurre molti giovani a vivere l’esperienza degli esercizi spirituali così come nel coinvolgerli nella costituzione di una banda musicale lo rendono “vitale” per la vitalità stessa della parrocchia. Ma è ciò che Dio vuole, innanzitutto? Erminio riconoscerà questa verità spirituale da un fatto piuttosto doloroso. Una donna del paese, improvvisamente, si ammala e muore. Lui, il medico, non c’è. E’ via per motivi parrocchiali. Ponendosi davanti a Dio riconosce di costruirsi un percorso di santità per conto suo. Come Abramo che cerca e ottiene un figlio dalla schiava, impaziente e incurante della promessa di Dio di dargli un figlio attraverso sua moglie, Sara. La santità non è fare delle cose buone e sante. E’ compiere quello che Dio mi chiede e per lo più ciò che Dio mi domanda è l’adempimento del proprio dovere, adempimento professionalmente rigoroso e spiritualmente lieto.
3) Il terzo e ultimo flash riguarda l’ordine scelto da Pampuri quando questi, rispondendo ad una chiamata divina, decide di diventare religioso: il “Fatebenefratelli”. Sì, è un ordine religioso. Fondato dal “pazzo di Dio” (così veniva chiamato al punto da indurre il Vescovo ad attribuirgli un nome: Giovanni di Dio). Da uno così non poteva uscire una congregazione con un nome ordinario. Gli altri si chiamano domenicani, gesuiti, orionini, i salesiani, loro si chiamano “Fatebenefratelli”. “Fatebenefratelli” è l’espressione che risuonava sulle labbra di El Cid, passato agli onori degli altari col nome di S. Giovani di Dio da distinguersi dal quasi coetaneo, altrettanto matto, “state buoni se potete” di S. Filippo Neri. Con quelle parole divenute così stereotipate da divenirne una sola, El Cid suggeriva una strada per riparare i propri peccati e riconciliarsi con Dio. “La carità copre una moltitudine di peccati” dice San Paolo. Attraverso la carità Giovanni di Dio e i suoi seguaci hanno edificato ospedali in tutto il mondo e accudito i malati fisicamente e spiritualmente con una assistenza degna di chi porta nella sua condizione di “ultimo” l’effige di Cristo. “Fatebenefratelli” indica anche il modo con cui può e deve essere compiuta ogni attività. La carità non la si compie solo quando si offre all’altro qualcosa – denaro, tempo, capacità – ma anche quando si vive bene il proprio ufficio, il proprio compito, la propria responsabilità. Un medico vede l’ex Erminio, ora Riccardo, spazzare il cortile e ad una suora di passaggio dice: “E’ un pazzo”. Un laureato che ridotto a spazzare per terra! Riccardo sente questa affermazione, si avvicina e dice: “Tutto quello che si fa per Dio è tutto grande, sia con la scopa, sia con la laurea di medico, perché dove c’è carità, c’è Dio e dove non c’è carità non c’è Dio anche se Dio è dappertutto”.