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La parola “maternità” racchiude i più miracolosi aspetti della vita: la ricerca di un figlio, la sua dolce e amorevole attesa, la conseguente apertura alla vita, la fiducia nel futuro, il concretizzarsi di un amore. Come si può capire, “maternità” è una parola ad alta carica evocativa, potentissima, in quanto rappresenta la più alta realizzazione dell’essere umano: presuppone quasi sempre un amore e, salvo tristi eccezioni, valorizza completandola quella meravigliosa esperienza che è la famiglia. Non per nulla gli ideologi de Il mondo nuovo di Aldous Huxley , il romanzo che più d’ogni altro anticipa perversioni e capovolgimenti morali delle biotecnologie, riservano alla parola “maternità” l’aggettivo “oscena”. Sul piano legislativo, invece, i pionieri del più diabolico rifiuto della maternità e della vita, l’aborto, sono stati – guarda caso – i regimi nazionalsocialisti e comunisti. Tornando al piano lessicale, segnaliamo come anche la fraseologia femminista ambisca a bandire i termini “maternità” e “madre” per sostituirli con “donna”, come se dette parole, ancorchè vicine, fossero equivalenti. Grazie al Cielo, in mezzo a tanta ubriacatura ideologica, a tanta orgogliosa amoralità, ci sono ancora storie capaci di fungere da esempio e di riportare al centro la tanto vituperata “maternità”. La vicenda di Mariacristina Cella Mocellin (1969-1995), indubbiamente, è una di queste. La signora Cella Mocellin, per la quale sabato scorso è stata avviata la causa di beatificazione, dopo aver messo al mondo due figli, venne colpita da un tumore che le aveva procurato fastidi già da giovane, ma che si sperava debellato. Così, purtroppo, non fu. E quando la signora Cella Mocellin, informata del suo stato di salute, fu messa davanti all’ipotesi di subire terapie che avrebbero messo a serio rischio la vita di Riccardo, il figlio che portava in grembo, preferì abbandonarsi a morte certa; il piccolo nacque sano, ma il tumore non arrestò il suo corso, spegnendo Mariacristina il 22 ottobre 1995. La grande prova di questa madre coraggiosa, trova ulteriore riscontro negli scritti che ci ha lasciato. Scrisse Mariacristina: “Credo che Dio non permetterebbe il dolore, se non volesse ricavare un bene segreto e misterioso, ma reale.[...] Credo che un giorno comprenderò il significato della mia sofferenza e ne ringrazierò Dio. Credo che senza il mio dolore sopportato con serenità è dignità, mancherebbe qualcosa nell’armonia dell’universo”. Oltre ad una fede granitica in Dio, da queste parole traspare limpidissimo un ideale di maternità profondo e autentico fino a farsi dolore, sacrificio. Sacrificio miracoloso verrebbe da dire, senza il quale “mancherebbe qualcosa nell’armonia dell’universo”. Proprio così: l’intero universo, nella sua immensità, gioisce davanti alla maternità. Persino in Una donna, uno dei primi libri femministi pubblicati nella nostra penisola, Sibilla Aleramo (1876 – 1960), scrittrice che giovanissima patì i dolori dello stupro e di un aborto spontaneo, non trova che queste parole per descrivere la bellezza universale di una gravidanza portata a termine: “ Quando […] posi per la prima volta le labbra sulla testina di mio figlio, mi parve che la vita per la prima volta assumesse a’ miei occhi un aspetto celestiale, che la bontà entrasse in me, che io divenissi un atomo nell’Infinito, un atomo felice, incapace di pensare e di parlare, sciolto dal passato e dall’avvenire, abbandonato nel Mistero radioso” (S. ALERAMO, Una donna, Feltrinelli, Milano 1978, p. 81). Molte femministe, così appassionate nella difesa dell’aborto legalizzato, se proprio volessero ignorare la biografia di donne come Mariacristina Cella Mocellin, potrebbero almeno rileggersi pagine come queste. Potrebbero avere qualche sorpresa.