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Nell’enciclica sulla speranza, Benedetto XVI citando S. Paolo dice: “Noi non siamo senza speranza e senza Dio” (Ef 2,12). I cristiani – sembra dire l’apostolo e ribadire il Papa – per il fatto di aver incontrato Dio che non è rimasto nell’irraggiungibilità dei cieli, ma si è mostrato nella persona di Gesù, hanno acquisito il senso della speranza. In cosa consiste questa speranza? Fondamentalmente nel conoscere Dio. Incontrare la realtà di Dio, l’abbandono della condizione di “senza Dio”, genera in me speranza. Questa conoscenza ci dà certezza che non siamo soli; che tutto ha un senso, perfino la sofferenza; che la vita è un cammino verso una meta e non un vagabondaggio; che la morte non costituisce la fine, ma l’inizio. Noi cristiani che viviamo da sempre “in mezzo a Dio”, che da sempre conosciamo Dio, corriamo il rischio di “assuefarci al possesso della speranza che proviene dall’incontro con Dio” (Spe Salvi n.3).
Perché la conoscenza non si fermi ad un fatto intellettuale che arriva alla mente, ma non al cuore; perché la fede non si cristallizzi in una serie arida di nozioni; perché il mio Battesimo non si riduca ad un fatto anagrafico occorre che uno incontri Dio in modo vivo e vero. Una donna, in confessionale, mi si rivolge così: “Non so cosa confessare. Vengo tutti i mesi, ma non mi pare di compiere atti di cui chiedere perdono. Solo una cosa. Mi accorgo che la mia fede è una ripetizione di atti, ma è spenta. Non è viva. Chiedo a Dio, in questo anno dedicato a San Paolo, di rendere viva la mia fede”. La festa dei Santi risponde a questa esigenza del cuore. Una fede viva e vera fin quasi a toccare “la carne di Dio”. I santi, infatti, sono quegli uomini e quelle donne che Dio suscita – è Dio che rende Santi, non sono loro a rendersi Santi - per due ragioni: 1- renderci desiderabile assomigliare a loro: “E se facessi anch'io quello che ha fatto san Francesco” dice Ignazio al momento della conversione; 2- far risplendere in mezzo al popolo cristiano il Mistero di Dio così da renderlo presente e incontrabile; Prendiamo l’esempio di Bakhita nata nel 1869 nel Darfur in Sudan (è lo stesso Papa che nella Spe Salvi prende questo esempio). A 6 anni viene rapita e fatta schiava. Maltrattata, seviziata, venduta, cresce “senza speranza e senza Dio” pensando di essere nata per fare la schiava del padrone di turno. Fin quando non la compra un italiano. Qui, in Veneto, Bakhita (il cui nome datole dai padroni significa “beata”) viene a conoscere Dio. Un “padrone” buono che la ama, l’ha attesa, l’ha liberata. Il Figlio di questo “Padre”, Gesù, ha dato la sua vita per riscattarla. Bakhita non ha più solo la speranza di incontrare dei padroni più benevole, meno arroganti. Bakhita scopre di essere definitivamente amata e resa non più schiava, ma figlia. Davvero, quanto dice S. Giovanni nella sua lettera si addice a Bakhita e a noi: “Carissimi, vedete quale grande amore ci ha dato il Padre per essere chiamati figli di Dio e lo siamo realmente! (…) Chiunque ha questa speranza in lui, purifica se stesso, come egli è puro” (1Gv3,1.3). Bakhita chiede il Battesimo e ottiene di entrare a far parte delle Suore Canossiane dove vivrà con una gratitudine e una gioia immensa la sua condizione di figlia. Diventa chiaro, evidente, cosa voglia dire vivere “nella speranza perché si ha conosciuto Dio”. Prendiamo don Benzi di cui il 2 novembre cade la prima ricorrenza della sua morte. Don Benzi, non è santo ufficiale, ma sappiamo essere stato un uomo che ha avvertito la beatitudine e la vibrazione di essere cristiano e ha vissuto perché chi era “senza speranza e senza Dio” potesse essere liberato da una vita abbandonata, desolante. La conoscenza di Cristo era la ragione della sua vita intensamente e interamente dedicata a Dio e agli altri.
O ancora come Giuseppe Fanin, nato nei pressi di San Giovanni in Persicelo (BO), a Lorenzatico, nel 1924. Giuseppe era il terzo di dieci figli di una famiglia contadina e riuscì a laurearsi in agraria proprio nel 1948. Sostenuto dai familiari e sotto la guida del suo parroco, maturò fin da ragazzino una profonda spiritualità che egli alimentava con la partecipazione anche feriale alla S.Messa, con la confessione frequente, con la preghiera assidua (specialmente del Rosario) e con gli Esercizi Spirituali annuali. Fede che gli generò una passione per sostenere attraverso cooperative bianche il lavoro dei braccianti, le cui condizioni di vita e di lavoro alimentavano nella nostra regione acuti conflitti sociali. Nonostante avvertimenti e minacce da parte degli avversari, continuò la sua opera rifiutando di dotarsi di un’arma di difesa, come gli suggerivano vari amici, e rispondendo che preferiva presentarsi davanti a Dio senza la responsabilità di aver provocato il lutto in una famiglia. La sera del 04 novembre del 1948 mentre faceva ritorno a casa in bicilcletta, dopo essersi incontrato con la fidanzata, viene massacrato. All’improvviso, lungo la strada tre persone lo aggrediscono, colpendolo a morte con una spranga di ferro. Aveva 24 anni. L’1 novembre 1998 la Chiesa di Bologna ha aperto la causa di beatificazione del Servo di Dio Giuseppe Fanin. Chi lo ha incontrato non poteva rimanere affascinato da uno così. Uno che nell’esercizio delle virtù e avendo accolto la beatitudine del Vangelo - “beati quanti hanno sete e fame di giustizia” – era divenuto “la carne di Dio”. Conoscere Fanin, come don Benzi, come Bakhita era incontrare Dio. E conoscere Dio, vuol dire vivere nella speranza.