La tristezza di Eugenio Scalfari, fondatore di Repubblica.
Il libro cui Eugenio Scalfari ha affidato il suo testamento spirituale e i ricordi della sua vita ha un titolo provocatorio: “L’uomo che non credeva in Dio”.
Una frase che piace, oggi, che ci sentiamo un po’ tutti autonomi, indipendenti, o, quantomeno, protestanti. In copertina una foto del celebre giornalista, preso di profilo, quasi, a me sembra, rassegnato, triste, inespressivo. Uno come Scalfari, che equipara apertamente gli uomini, e quindi, credo, anche se stesso, ad una mosca, per quanto colta ed influente, che definisce sé e i suoi simili forme “che la natura casualmente produce”, non può, in verità, presentarsi al pubblico volgarmente ridanciano: sorriderebbe al nulla, con occhi che guardano un orizzonte vuoto. Cosa c’è da ridere, mosche lettrici, magari occhialute, certo destinate al nulla eterno? Anche un volto corrucciato, come si addice al personaggio, non funzionerebbe: indignato per cosa, nell’eterno fluire senza scopo di caso e necessità? Cosa ha veramente importanza, valore, durata, nel non senso dell’esistenza? Leggerla, questa autobiografia di un pensatore che non mi è affine, mi è sembrato obbligatorio: Scalfari è un uomo che ha fatto per tanti anni cultura, e il cui credo nichilista è divenuto sempre più diffuso. Non per nulla non mancano ecclesiastici e credenti che si vantano di leggere Repubblica, come un qualcosa cui ci si abbevera, quando si ha sete. Scalfari dunque inizia come il sottoscritto, certamente prevenuto, si sarebbe immaginato: con immagini tristi, come il suo volto.
La prima scena è leopardiana: un fanciullo, il protagonista, che piange “disperatamente”. Un incipit di tal genere, però, mi ha immediatamente rattristato: non mi avverrebbe mai di rievocare la mia infanzia esordendo con un fatto triste, perché ogni ricordo di quell’età è ricco di affascinante nostalgia. Così ho proseguito nella lettura mettendo da parte almeno un poco del malanimo preventivo. Se ho dell’uomo una concezione così alta, e non lo paragonerei mai ad una mosca, né, come altri, ad un sasso o una formica, è perché Cristo, gratuitamente, mi ha rivelato il suo volto, e in quel volto mi sono sentito, sempre, amato e voluto, un pensiero di Dio. Non certo che i pensieri di Dio non soffrano, per carità, ma credono sempre in un perché: per questo non gli torna utile la parola “disperatamente”. Il libro, come dicevo, si apre con Scalfari che rievoca il suo pianto, con la madre, accanto ad una finestra sul mare: “Da quella finestra è cominciata la mia vita, la mia memoria, la mia malinconia. Anche il mio risentimento e la voglia di compensare un torto subito”. Ecco, una vita che già all’alba vive di malinconia, di risentimento, di vendette sperate, non può essere felice, mi sono detto. Infatti subito dopo, legati all’infanzia, ho trovato cenni alla noia, alla tristezza, alle “ore lunghissime del pomeriggio”, al “caso” che ci ha catapultato in questo o quel luogo o condizione, “allacciando tra loro le tue cellule neuronali in un modo o nell’altro”, prima di proiettarci dall’utero materno, luogo, per il vero, sempre meno sicuro, al “caos” della vita. E poi, frasi sconsolanti, tutte d’un fiato, come queste: “Un lungo interrogarsi, senza risposte. Il tempo fatto acqua…La morte, la morte che viene” e “la mia malinconia e la tristezza che tinse col suo colore grigio la mia infanzia solitaria”.
A questo conduce la mancanza di Dio: alla tristezza, a ritenerci volatili, come le mosche, e a fare i conti, con angoscia, con la morte, ignoto abisso, senza sbocchi. Proseguendo, l’encomiabile coerenza di Scalfari non si limita a negare Dio, ma, con grande logica, mette in dubbio, di conseguenza, l’io. Se Dio non esiste, infatti, cosa sono l’autocoscienza, il pensiero, l’anima, la personalità, la libertà individuale, in una parola, cos’è l’io? “E’ l’io il sovrano della mia mente, del mio corpo, della mia anima, qualunque cosa di intenda con questa enigmatica parola?”, si chiede il famoso giornalista: non siamo forse, unicamente, “universi di cellule, di flussi sanguigni, di inconsce passioni”, o, come sostengono alcuni neuroscienziati, senza prova alcuna, solo burattini dei nostri geni egoisti e capricciosi? Alla fine di un capitolo, intitolato “La gabbia dell’io”, Scalfari conclude: “ Insomma, l’io non esiste. E’ una superstizione. Oppure una caricatura. Una maschera…Un computer depositario di una memoria. Una gabbia. Un capriccioso dittatore. Oppure un prigioniero?”.
Così, tra un articolo sull’ossessionante Berlusconi e l’altro, Scalfari dimostra di avere la lucidità di capire che la radice della sua malinconia e tristezza saturnina non sono il cavaliere, queste o quelle circostanze storiche, perché è la vita stessa ad essere male, assurda, senza senso, se Dio non esiste. Non è il politico di turno, o chi per lui, a creare disarmonia, non una presenza nociva, quanto una Assenza ben più significativa! E’ l’ io, senza un Dio che lo origini e lo fondi, a sparire panteisticamente tra le mosche, gli alberi, i sassi, con un problemino in sovrappiù: che non si rassegna ad essere insetto, non vuole morire, non ama stare posato in un angolo, dimenticato, come fa volentieri qualsiasi agglomerato di atomi inerti. L’io, generato dal caso, è insomma un’ illusione, una gabbia! Oppure, con un linguaggio che riporta al pessimismo gnostico, un “prigioniero”! Ecco che allora la strada non può che essere quella di “distruggere l’Io”, come vogliono “i mistici d’Oriente”, o il Budda, e con lui la propria tristezza, la propria malinconia, affacciate sin dall’infanzia ad una finestra che guarda verso un Cielo vuoto. Continua
Nessun commento trovato.
I commenti sono disabilitati.