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Il nome della morte
Di Giuliano Guzzo - 04/09/2008 - Bioetica - 1249 visite - 0 commenti
E noi, ingenui, che facevamo il dogma prerogativa confessionale. La chiassosa levata di scudi provocata dall’articolo della storica Lucetta Scaraffia pubblicato sulle pagine de L’Osservatore Romano, dimostra che ci sbagliavamo. Ricapitoliamo per chi non conoscesse la vicenda: Scaraffia, storica e membro del Comitato Nazionale di Bioetica, ha scritto, sul quotidiano della Santa Sede, un articolo nel quale, recensendo due libri -Morte cerebrale e trapianto di organi di Paolo Becchi e Finis vitae. Is brain death still life? di Roberto de Mattei - ricordava un dibattito, benché dimenticato, in verità mai sopito tra gli studiosi: quello sulla definizione di morte, che da diversi decenni - in seguito ad uno studio scientifico fatto ad Harvard – viene sovrapposta alla definizione di morte cerebrale, ma che a diversi scienziati, oggi come ieri, non suona convincente.
Lo studio in questione è un rapporto vide la luce nell’agosto del 1968 sul Journal of the American Medical Association: tre pagine, frutto del lavoro di sei mesi di una commissione, nota come “Commissione di Harvard”, composta da dieci medici, un teologo, un giurista ed uno storico. Nel numero della rivista dove questo rapporto venne pubblicato, compariva anche una rassegna degli studi a fino quel tempo effettuati circa la definizione del concetto di “coma irreversibile”. Ebbene, già quegli studi -oggi ampiamente superati - mettevano in luce non poca incertezza quanto ai criteri clinici per determinare cosa sia o meno da considerarsi come stadio irreversibile.
Ma se già allora gli studiosi non facevano mistero del proprio scetticismo quanto alla definizione della morte di una persona, come mai, dopo quarant’anni, tante reazioni scomposte contro un semplice articolo di giornale, reo di aver rammentato una verità?
Nessuno vuole mettere in discussione la possibilità di donare gli organi, donazione che – come si sa – trova nel concetto di “morte cerebrale”, così come definito ad Harvard, la propria premessa operativa.
L’utilità e l’importanza dei trapianti sono ben note anche alla Chiesa, tanto è vero che al paragrafo 2296 del Catechismo la donazione d’organi viene definita come “atto nobile e meritorio”.
Ciò non toglie, tuttavia, che la definizione di morte correlata esclusivamente alla cessazione dell’attività cerebrale rimanga, di fatto, qualcosa di opinabile. Persino il celebre bioeticista Peter Singer, studioso certo non sospettabile di simpatie clericali, nel suo Ripensare la vita (Il Saggiatore, 1994) scrive che qualunque stadio antecedente la rigidità venga scelto come parametro per ritenere morto un essere umano, è da considerarsi estraneo a criteri scientifici. Sempre Singer, nel suo libro cita numerose ricerche che gettano non poche ombre sulle conclusioni della “Commissione di Harvard”.
Beninteso: i dubbi che accomunano Singer e Scaraffia, possono benissimo essere fallaci.
Ma fino a che la comunità scientifica non sarà allineata nel riconoscere un’unica definizione di morte, troviamo giusto che chi è perplesso possa manifestare il proprio scetticismo. Impedirlo, equivarrebbe a sfiduciare la ricerca scientifica, che verrebbe così capovolta in superstizione, ossia nel rifiuto aprioristico di opinioni bollate come sacrileghe. Strano che un pensiero così banale non sia chiaro a quanti, scandalizzati da un semplice articolo di giornale, hanno subito ripreso ad agitare i soliti spauracchi.
Viene il dubbio che tanto clamore non sia frutto, come viene detto, del timore – peraltro del tutto infondato - che la Chiesa Cattolica possa schierarsi contro il trapianto d’organi, quanto di una certa mentalità secolarizzata che, proprio perché non vede nulla oltre la vita, trema. E tenta, vanamente, di dominare la morte, di circoscriverla e definirla. Per darsi garanzie che non può possedere.
 
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