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L'intervento di mons. Nicola Bux a Trento.
Di Francesco Agnoli - 04/09/2008 - Religione - 1401 visite - 0 commenti
 LO SPIRITO DELLA DIVINA LITURGIA E LE RAGIONI DEL MOTU PROPRIO DI BENEDETTO XVI

 Numerosi sono gli scritti sulla liturgia di Joseph Ratzinger professore e cardinale, ma il più recente è Introduzione allo spirito della liturgia,edizioni san Paolo, Cinisello B.2001, in cui riconduce la riflessione sullo spirito della liturgia cristiana alla domanda se essa non sia essenzialmente adorazione di Dio. Sciogliendo questo interrogativo si capirà lo spirito della liturgia a cui il libro vuole introdurre, a cominciare dal capire “Che cosa è propriamente adorazione?” (p.23). Il cardinale la definisce come la consegna di tutto a Dio, della storia e del cosmo, a partire da se stessi: è questa l’essenza del culto e del ‘sacrificio’ (cfr p.24).

E’ liturgia cosmica perché integra la creazione nella redenzione. La preghiera disorientata La concezione cosmica e allegorica dei commentatori e dei padri, da Teodoro di Mopsuestia a Massimo il Confessore, ha caratterizzato le liturgie degli orientali in particolare, ma anche quelle ambrosiana e romana, almeno fino al Vaticano II, quando una Istruzione proponeva che l’altare fosse posto in modo da celebrare la seconda parte della messa – in sostanza l’anafora – ‘rivolti al popolo’ e non più a Oriente, come fino ad allora facevano tutte le liturgie e ancora oggi continuano a fare gli orientali. Proprio perché la liturgia parla attraverso i simboli, Ratzinger non manca di osservare che a base di essa vi è proprio la concezione cosmica e di auspicare il ripristino della “tradizione apostolica dell’orientamento verso est degli edifici cristiani e della stessa prassi liturgica, almeno dove ciò è possibile”(p.67), si può supporre almeno dei nuovi edifici di culto. L’immagine biblica e patristica del cielo sulla terra, scende con l’eucaristia sull’altare: è mirabile la riflessione di Ratzinger sul rapporto di questa con l’altare ‘il luogo del cielo squarciato’. Non ha detto il Concilio, in linea con la tradizione, che l’altare è Cristo?

 Per gli orientali è il suo corpo e ad un tempo il suo sepolcro. Per questo è sempre rivestito di tovaglie, nella liturgia romana anche con un paliotto, in quella bizantina con un velo, quasi una tunica, sui quattro lati. L’altare non è innanzitutto una mensa, ma una alta res un luogo alto per il sacrificio dell’Agnello: diventa mensa solo dopo essere stato culla, croce e sepolcro. L’Agnello immolato e risuscitato appresta la mensa delle sue carni.

Tabernacolo e altare: un falso conflitto In base alla teoria del primo millennio secondo cui tutto ciò che la Chiesa ha fatto in quel periodo va riproposto tale e quale, alcuni liturgisti dicono che l’eucaristia deve essere mangiata e non guardata. E qui il cardinale osserva: “essa non è affatto un ‘pane comune’…Cibarsene… è un evento spirituale, che investe tutta la realtà umana.‘Cibarsi’ di essa significa adorarla. Significa permettere che entri in me, così che il mio io venga trasformato e si apra nel grande noi, così che noi diventiamo ‘una cosa sola’ in lui(Gal 3,17). Per questo l’adorazione non si contrappone alla comunione, e neppure si pone accanto ad essa: la comunione raggiunge la sua profondità solo quando è sostenuta e compresa dall’adorazione” (p.86). In realtà nel primo millennio sant’Agostino dice che non si può mangiare l’eucaristia senza averla adorata! Questo deve portare a rivedere strane teorie circa il conflitto di segni tra il tabernacolo e l’altare della celebrazione eucaristica: rapporto che la teologia medievale aveva bene approfondito. L’eucaristia è presenza escatologica – nel tabernacolo il Signore “mi pone in movimento verso il suo ritorno” (p.87) - e non cronologica, cioè non è circoscritta nella Messa; semmai noi nella messa ‘attualizziamo’, ovvero rendiamo presenti noi stessi al mistero della sua presenza permanente. Sarebbe presenza divina quella che accadesse in risposta alla evocazione umana? O piuttosto magia idolatrica? Il senso del termine attualizzazione è comprensibile solo nel rapporto tra la memoria della morte del Signore e l’attesa della sua venuta, perché egli viene nella Chiesa che acclama levando il calice: Benedetto colui che viene… E’ il senso dinamico e permanente dell’incarnazione del Verbo.

L’arte cristiana senza l’Incarnazione Si mediti in proposito il capitolo del libro dedicato alla questione delle immagini, dove si richiama la funzione centrale dell’Incarnazione. La “discesa di Dio” è avvenuta e avviene “per attrarre noi in un processo di ascesa” (p.118), “L’Incarnazione è rettamente intesa solo se è vista nella più ampia tensione di creazione, storia e mondo nuovo” (p.119). Che dire di un certo spiritualismo oggi in voga che mortifica i sensi, che biasima l’apostolo Tommaso che voleva credere vedendo? Gesù per questo si è fatto vedere – come agli altri apostoli (altrimenti perché il Verbo si sarebbe fatto uomo?). Non è che con la risurrezione Dio abbia cambiato metodo! Come ha detto Leone Magno, ciò che era visibile del Signore è passato nei sacramenti. Tommaso fu rimproverato per non aver creduto agli inizi della ‘traditio apostolica’, non ha creduto a ciò che essi avevano visto: gli altri apostoli avevano visto, toccato e mangiato col Signore otto giorni prima e lo avevano riferito a Tommaso che era stato assente. Perciò ‘beati quelli che pur non avendo visto hanno creduto…o crederanno’. A cosa? A quello che altri hanno visto prima di loro e hanno trasmesso. Paolo, proprio sull’eucaristia, dice in 1 Cor 11,23: vi trasmetto quello che ho ricevuto. Ecco la tradizione apostolica di cui la liturgia è parte integrante (i primitivi documenti ‘liturgici’ recano spesso questo titolo). Quindi, la liturgia stessa non avrebbe senso senza i sensi. Perciò Ratzinger ricorda che “I sensi non devono essere eliminati, ma devono essere allargati alla loro massima possibilità” (p.119) ed ancora che per i padri orientali “Dio è radicalmente trascendente nella sua essenza, ma nella sua esistenza ha voluto e ha potuto presentarsi come vivente. Dio è il totalmente Altro, ma è abbastanza potente da potersi mostrare. E ha fatto la sua creatura tale da essere capace di ‘vederlo’ e di amarlo” (p.120). Ammettiamolo: le nuove chiese talvolta saranno funzionali ma non capaci di trasmettere la Bellezza di Dio, perciò raramente sono belle. Dunque non c’è che da chiedere “il dono di una nuova visione.

 Per questo tutti noi dovremmo essere preoccupati di giungere nuovamente a una fede capace di vedere. Dove questo avviene, anche l’arte trova la sua giusta espressione”(p.131). Un caso: nel tempo pasquale si insiste molto sul simbolismo del cero e sull’idea della luce, ma non basta; l’arte ha sviluppato stupende raffigurazioni del Risorto. Sono state abolite. Si dimentica, soprattutto oggi, che l ’uomo ha bisogno di una immagine davanti a sé, non di una idea. La gnosi nella musica liturgica Ricordando l’impatto della Chiesa delle origini col mondo greco, il cardinale annota il rischio che poesia e musica facciano annacquare l’avvenimento cristiano in una sorta di mistica generale come avvenne nei primi secoli, diventando “la porta d’ingresso alla gnosi”. Così il concilio di Laodicea col can.59 vietava le composizioni private e non canoniche (cfr p.140).Il culto cristiano è ‘logico’: è legato cioè al Logos. Solo lo spirito che riconosce Gesù come il Signore venuto nella carne – dicono Paolo e Giovanni – è spirito veritiero, altrimenti è spirito erroneo. Non pochi musicisti e compositori si interrogano se gli inni e le melodie che entrano nelle nostre chiese abbiano presente questo criterio (cfr p.147).Non siamo in presenza di uno scadimento romantico e soggettivo indifferenziato? Cos’è la partecipazione attiva Sono stati versati fiumi di inchiostro. Quando alcuni liturgisti vogliono difendere una loro idea o gusto dicono: la gente deve partecipare. Si tratta di un neoclericalismo che ha contagiato i laici delle sacrestie. La partecipazione è divenuta una ‘vexata quaestio’, eppure nella liturgia romana esiste il concetto del facti participes, cioè resi partecipi di un’azione che non è nostra, anche se si compie in un discorso umano, perché egli si è fatto parola e poi carne: “La vera ‘azione’ della liturgia a cui noi tutti dobbiamo aver parte, – può dire quindi Ratzinger – è azione di Dio stesso. E’ questa la novità e la particolarità della liturgia cristiana: è Dio stesso ad agire e a compiere l’essenziale” (p.169). Senza la coscienza di essere fatti partecipi, gli “atteggiamenti” da assumere nella liturgia sono puramente inutili. Ecco uno dei motivi per cui il principale atteggiamento di adorazione, che accomuna tra l’altro i cattolici agli ortodossi, ma anche ad ebrei e musulmani, la proskynesis, la prostrazione o l’inginocchiarsi, è stato quasi proscritto. Strano, che tanti liturgisti così attenti a rivendicare il primato della Scrittura abbiamo trascurato “l’importanza centrale che l’inginocchiarsi ha nella Bibbia, si può desumere dal fatto che solo nel Nuovo Testamento la parola proskynein compare 59 volte, di cui 24 nell’Apocalisse, il libro della liturgia celeste, che viene presentato alla Chiesa come modello e criterio per la sua liturgia”(p.182).

 Tant’è. Se la liturgia cristiana non è innanzitutto il culto pubblico e integrale, l’adorazione di Dio, l’Apocalisse non può essere il typikon, il libro normativo, come dicono i bizantini. Altrimenti donde dovrebbero attingere la loro forza cogente le editiones typicae dei vari libri liturgici? E’ un diritto divino quello che la liturgia afferma e chiede di osservare, non dei precetti umani: “La liturgia cristiana è proprio per questo liturgia cosmica, per il fatto che essa piega le ginocchia davanti al Signore crocifisso e innalzato. E’ questo il centro della vera “cultura”- la cultura della verità. Il gesto umile con cui noi cadiamo ai piedi del Signore, ci colloca sulla vera via della vita, in armonia con tutto il cosmo” (p.189). Abbiamo scelto questo gesto fra tutti, forse il più importante ed anche ecumenico e …interreligioso. Un sasso nello stagno “Là, dove irrompe l’applauso per l’opera umana nella liturgia, si è di fronte a un segno sicuro che si è del tutto perduta l’essenza della liturgia e la si è sostituita con una sorta di intrattenimento a sfondo religioso” (p.195). Chissà cosa avranno pensato i lettori. Qualche vescovo avrebbe il coraggio di andare in controtendenza nell’educare i fedeli? Altra cosa è la festa mondana che può venire dopo una liturgia di battesimi e comunioni, matrimoni e ordinazioni: il cardinale ritiene quest’uso ‘tipicamente cattolico’. Purché prevalga la sobrietà. Ma è la religiosità popolare la festa più spontanea scaturita dalla liturgia. Qualcuno potrebbe trovare strano che l’ambito della liturgia, che etimologicamente significa ‘azione del popolo’, non sia riuscito e non riesca con tutti gli adattamenti a contenere e interpretare il genius loci, malgrado il gran parlare e fare inculturazione. Non c’è da stupirsi: è quasi un ping pong tra clero, che comunque pilota la liturgia, e popolo che esprime, non senza fraintendimenti, la pietà. Ora, osserva Ratzinger: “Alla pietà popolare deve essere riconosciuta un’importanza particolare come ponte tra la fede e le diverse culture. Essa è di per se stessa direttamente debitrice di ciascuna cultura. La pietà popolare dilata il mondo della fede e gli conferisce la sua vitalità in ogni contesto di vita. Essa è meno universale della liturgia, che nell’unità della fede unisce tra di loro grandi spazi e abbraccia culture differenti;”(p.195-196). Liturgia e pietà popolare, sono i due polmoni della fede e della vita del popolo cristiano. Nonostante quello che pensano certi teologi e intellettuali, la religiosità popolare da sempre è il linguaggio del popolo di Dio, e la liturgia deve sempre saper inculturarsi, come si dice oggi.

 La pietà popolare è parte fondamentale e visibile dell’inculturazione della fede. La pietà popolare è disprezzata da non pochi liturgisti e pastoralisti, gli stessi che sono paladini dell’inculturazione(p.198) ma delle culture esotiche, spesso non cristiane, con tutta la fatica che ciò comporta. E non vedono le più semplici culture popolari fiorite proprio dal cristianesimo. Dunque, nel solco della bimillenaria tradizione della Chiesa, il libro scritto da Joseph Ratzinger ripropone, sulle orme di Romano Guardini e di altri grandi liturgisti del sec.XX, lo spirito della liturgia cristiana (da non confondersi con altre liturgie profane ) come introduzione allo Spirito Santo: la nostra anima aderisce al corpo di Cristo – si riveste di Cristo – (si veda la riflessione sulla teologia della veste e del corpo: p.212-215). Ancor prima della risurrezione la nostra anima “aderisce al corpo di Cristo, che diventa, nel contempo, anche il nostro corpo, così come noi dobbiamo diventare il suo corpo”. A noi, con l’eucaristia, che è l’unica Divina Liturgia, ‘futurae gloriae nobis pignus datur’.

Il Motu proprio Summorum Pontificum Da quanto detto fin qui si potrebbero dedurre già le ragioni del Motu proprio Summorum Pontificum, tuttavia ci accosteremo ad esso da vicino: è un atto legislativo specifico, come risulta dallo stesso documento, nonché dalla Lettera che Sua Santità Benedetto XVI ha scritto ai vescovi accompagnando le nuove disposizioni. Per usare una espressione teologica,il Motu proprio costituisce un importante esercizio del suo munus regendi, cioè il potere proprio della gerarchia cattolica con a capo il papa, di governare la Chiesa. Pertanto l’obiettivo ‘dottrinale’del documento pontificio può essere riassunto in tre punti: favorire la riconciliazione interna nella Chiesa; offrire a tutti la possibilità di partecipare alla “forma straordinaria”, considerata un tesoro prezioso da non perdere; garantire il diritto del popolo di Dio – i sacerdoti, i laici e i gruppi che lo domandano, - all'uso della “forma straordinaria”.

 La Pontificia Commissione Ecclesia Dei preposta a vigilare e promuovere la sua attuazione, in dialogo con vescovi, sacerdoti e fedeli laici, risponde alle numerosissime lettere che contengono considerazioni e presentano difficoltà. Tuttavia, dalle informazioni apparse sui media, appare necessario fornire ulteriori chiarificazioni su alcuni punti e risposte a parecchi quesiti. A tale scopo sarà pubblicata una specifica Istruzione. Ma, innanzitutto bisogna conoscere l’interpretazione che il Santo Padre medesimo ha dato nella lettera di accompagnamento del Motu proprio. a. Le linee dottrinali e disciplinari del Motu proprio Per fugare il timore che, ripristinando il messale romano nell’ultima edizione del 1962, venisse intaccata l’autorità del Concilio in base al quale Paolo VI pubblicò il nuovo messale, la lettera afferma che si tratta di due stesure conseguenti, come altre volte è avvenuto nei secoli, allo sviluppo dell’unico rito, infatti chi conosce la storia dei libri liturgici sa che in occasione della loro ristampa, sono stati emendati e arricchiti di formulari per Messe, benedizioni ecc. Quindi i due messali non appartengono a due riti. E’ una risposta a quanti da destra e da sinistra, tradizionalisti e progressisti, avevano affermato che l’antico rito romano fosse morto con la riforma liturgica e nato un altro in totale discontinuità. Una cesura vera e propria. E’ interessante notare questa coincidentia oppositorum.

Per capire le opposte ragioni si rimanda ad esempio agli scritti di Klaus Gamber e Annibale Bugnini. Quando nel 1970 fu pubblicato il Novus Ordo Missae si pensava che il messale del 1962 sarebbe stato usato ormai solo da pochi e il problema si sarebbe risolto caso per caso. Così non è stato: l’uso del messale del 1962 è andato ben oltre i gruppi tradizionalisti, i nostalgici e gli anziani, “è emerso chiaramente che anche giovani persone scoprono questa forma liturgica, si sentono attirate da essa e vi trovano una forma particolarmente appropriata per loro di incontro col Mistero della santissima Eucaristia”. Ne è nata la necessità di un regolamento giuridico mediante il Motu proprio anche per aiutare i vescovi ad esercitare in modo cattolico il compito di moderatori della liturgia nella Chiesa particolare. Per fugare un secondo timore, di disordini e spaccature nella comunità parrocchiale, il papa annota che esso non sussiste, perché l’uso del messale antico presuppone una certa formazione liturgica e l’accesso alla lingua latina: cose non frequenti nella realtà dei fedeli. Perciò il nuovo messale rimane valido per l’uso ordinario e il vecchio per quello straordinario.

Esagerazioni vi possono essere sia da parte dei fedeli legati all’antico sia da parte di quelli che amano la novità sempre e comunque, come il caso di preti ‘creativi’; il modo per evitarle è nell’uso consigliato – non obbligato – agli uni e agli altri di entrambe le forme perché si può prevedere che dovranno arricchirsi vicendevolmente o contaminarsi in senso buono, in specie la nuova se recupererà la sacralità e la riverenza “in conformità alle prescrizioni”in essa contenute e che ne renderebbero “visibile la ricchezza spirituale e la profondità teologica”. Così è avvenuto nella storia delle liturgie orientali e occidentali, ad esempio, tra quella antiochena e bizantina, o tra la romana e l’alessandrina. Dopo aver mostrato l’infondatezza dei timori, la lettera fornisce la ragione positiva, potrei dire il vero obbiettivo ‘dottrinale’: “Una riconciliazione interna nel seno della Chiesa”… “fare tutti gli sforzi, affinché a tutti quelli che hanno veramente il desiderio dell’unità, sia reso possibile di restare in questa unità o di ritrovarla nuovamente”. Non ha detto Gesù: che siano una sola cosa perché il mondo veda e creda?Chi potrebbe obbiettare a ciò? Eppure c’è chi non condivide nella lettera la seguente affermazione: “Non c’è nessuna contraddizione tra l’una e l’altra edizione del messale romano. Nella storia della liturgia c’è crescita e progresso, ma nessuna rottura. Ciò che per le generazioni anteriori era sacro, anche per noi resta sacro e grande e non può essere improvvisamente del tutto proibito o, addirittura, giudicato dannoso. Ci fa bene a tutti conservare le ricchezze che sono cresciute nella fede e nella preghiera della Chiesa, e di dar loro il giusto posto”. E’ un ammonimento agli uni e agli altri perché ritrovino l’equilibrio. Quanto infine all’autorità del vescovo, nulla si toglie: deve vigilare e moderare – mai come in tal caso ha senso il termine moderatore – “in piena armonia, però, con quanto stabilito dalle nuove norme del Motu proprio”. Potrei dire che tale moderazione consiste nel favorire l’arricchimento degli uni e degli altri, come ho accennato poc’anzi; infatti, verso la fine della lettera si dice che coloro che celebrano con l’antico messale, dovrebbero celebrare anche col nuovo. Non è un obbligo ma un suggerimento, mentre il rispetto per entrambi gli usi è obbligatorio. Di conseguenza, chi celebra secondo l’uso antico deve evitare di delegittimare l’altro uso, e viceversa. Quindi non è ammesso un rifiuto a celebrare il nuovo per motivazioni di principio, perché non sarebbe segno di comunione rifiutarsi, ad esempio, di concelebrare con un vescovo che intendesse farlo secondo il nuovo messale. La Chiesa non è una monarchia ereditaria e quindi in linea di principio nessun papa è vincolato alle decisioni del suo predecessore, perché si vengono a creare situazioni nuove. Però il Santo Padre ha chiesto ai vescovi un rapporto per fare il punto sulla situazione da qui a tre anni, quindi si aprono spazi anche per le comunità interessate sia di fedeli laici che religiosi attaccati alla tradizione, soprattutto quelli rimasti in comunione con Roma,  per dimostrare con il loro operato di voler veramente raggiungere la concordia e la riconciliazione. Sarebbe paradossale che la messa, il cui momento culminante è l’eucaristia, sacramento per eccellenza dell’unità e della pace, finisca per diventare segno di divisione, di discordia e quindi foriero di contrapposizione.

Aggiungerei che per i seguaci di mons. Lefebvre come per i fautori degli abusi nella liturgia rinnovata, si tratta di una occasione importante per dimostrare con grande umiltà e semplicità di voler abbandonare, i primi, le posizioni di separatezza e tornare in piena comunione cattolica con Roma, senza alcuna voglia di rivincita, in quanto non è un sentimento cristiano, e i secondi, gli atti di manipolazione delle liturgia che non è loro proprietà e di celebrarla in spirito cattolico perché appartiene all’intera Chiesa. Sarebbe il segno che il Motu proprio ha raggiunto un risultato importante, che è poi sia quanto auspicavano i primi, ossia che la liberalizzazione dell’antico rito fosse propedeutica alla piena riconciliazione, sia quanto affermavano i secondi, ovvero che la nuova liturgia contiene e sviluppa quella antica dei sacramentari e ordines romani. Al di là delle forme rituali, non bisogna dimenticare, come opportunamente richiama anche il Santo Padre nella sua lettera, che la sostanza della liturgia è la riverenza e l’adorazione di Dio, quel Dio che è presente nella Chiesa. Non si deve ridurre la natura della liturgia ad una disquisizione sulle forme: la vera questione è se la liturgia, antica e nuova, aiuti davvero a rendere il dovuto culto a Dio nelle forme più consone e appropriate, in spirito e verità. b. Un po’ di storia E’ curioso che all’antico guardino sia i cultori della tradizione che gli amanti dell’innovazione: gli uni per conservare, gli altri per rinnovare.


Non affermano questi ultimi che la nuova liturgia ha ripreso antichi riti caduti in disuso, due esempi tra tutti: la preghiera dei fedeli e la concelebrazione? Allora è giusto che la lettera faccia un po’ di storia per dedurre in sintesi alcuni principi dottrinali della liturgia cattolica. a- I papi, dalle origini ad oggi, hanno curato il culto che la Chiesa deve offrire alla Divina Maestà, perché fosse un culto degno “a lode e gloria del Suo nome” e “ad utilità di tutta la sua Santa Chiesa”. Viene richiamato il principio da osservare(cfr Istruzione generale del messale romano, ed.typ.III 2002, n 397) circa la concordanza tra dottrina, segni e usi della Chiesa particolare con quella universale, “perché la legge della preghiera della Chiesa corrisponde alla sua legge di fede”. b- La figura che più eccelle è quella di san Gregorio Magno, il quale “comandò che fosse definita e conservata la forma della sacra Liturgia, riguardante sia il Sacrificio della Messa sia l’Ufficio Divino, nel modo in cui si celebrava nell’Urbe”. Poiché egli in certo senso affidò ai Benedettini sia la diffusione del Vangelo che l’attuazione della Regola in cui si raccomanda: “Nulla venga preposto all’opera di Dio” (cap 43), in tal modo permise che la liturgia romana arricchisse di fede, pietà e cultura molti popoli. Dopo Gregorio altri pontefici continuarono tale opera: in particolare san Pio V che secondo il dettato del Concilio di Trento “rinnovò tutto il culto della Chiesa, curò l’edizione dei libri liturgici, emendati e ‘rinnovati secondo la norma dei Padri” e li diede in uso alla Chiesa latina”. Tra questi, in specie il messale romano.

c-Dopo l’aggiornamento e la definizione di riti e libri liturgici da parte di altri pontefici come Clemente VIII e Urbano VIII, arriviamo alla riforma generale del XX secolo con san Pio X, Benedetto XV, Pio XII e il beato Giovanni XXIII. Infine il Concilio Vaticano II “espresse il desiderio che la dovuta rispettosa riverenza nei confronti del culto divino venisse ancora rinnovata e fosse adattata alle necessità della nostra età”.Paolo VI “mosso da questo desiderio…nel 1970 per la Chiesa latina approvò i libri liturgici riformati e in parte rinnovati”. Furono bene accolti da vescovi, sacerdoti e fedeli nel mondo. Giovanni Paolo II ha rivisto la editio typica III del messale, ovvero la sua riedizione aggiornata. Il fine di tale lavoro è lo splendore per dignità e armonia della liturgia quale culto cattolico reso a Dio uno e trino. d. Ma il fatto che “in alcune regioni non pochi fedeli” continuavano ad aderire “alle antecedenti forme liturgiche”che avevano permeato la loro cultura e il loro spirito, spinse Giovanni Paolo II nel 1984 a far emanare un Indulto dalla Congregazione per il Culto Divino che dava facoltà di usare il messale del ‘62; e nell’ ‘88 col Motu proprio Ecclesia Dei esortò i vescovi ad usare “largamente e generosamente tale facoltà in favore di tutti i fedeli che lo richiedessero”. E’ questo l’antefatto che ha portato Benedetto XVI, anche in seguito all’insistenza di molti fedeli, dopo un Concistoro il 22 marzo 2006, “avendo riflettuto profondamente su ogni aspetto della questione, dopo aver invocato lo Spirito Santo e contando sull’aiuto di Dio” a stabilire in 12 articoli le norme da seguire da vescovi e fedeli. In sintesi:

 1- Una è la lex orandi della Chiesa cattolica, ma due le espressioni che non porteranno in alcun modo alla divisione della lex credendi della Chiesa; ovvero un solo rito in due usi: ordinario e straordinario. Il messale romano precedente non è mai stato abrogato.

2- La messa antica è nella sua struttura essenziale quella di san Gregorio Magno, soprattutto il Canone romano. Si rivolge a tutti e la può celebrare qualsiasi sacerdote in comunione con la Chiesa cattolica senza alcun permesso della Santa Sede o del vescovo diocesano. Deve essere offerta a tutti e vi può partecipare chiunque senza limite di numero. Altrettanto dicasi per battesimo, matrimonio, penitenza e unzione. Le formule antiche della cresima e dell’ordine sacro restano valide. Così per l’ufficio divino.


3-Le letture si possono proclamare anche nella lingua vernacola secondo l’ordine del messale del 1962. 4-I fedeli che non ottengono soddisfazione dal parroco, informano il vescovo. Se anche questi non fosse in grado di provvedere, si rivolgano alla Pontificia Commissione Ecclesia Dei che esercita l’autorità della Santa Sede, vigilando sull’osservanza e l’applicazione di queste disposizioni. Dunque, il Motu proprio affianca l’antico rito al nuovo, non lo sostituisce; esso resta facoltativo, non obbligatorio. Non toglie ma aggiunge, quindi esprime l’unità nella varietà. E’ un arricchimento che deve guarire le ferite causate dalla rottura della comunione e portare alla riconciliazione interna alla Chiesa, superando le interpretazioni del Concilio che hanno portato a “ deformazioni liturgiche al limite del sopportabile”. c. Le interpretazioni scorrette dell’atto papale Dopo la pubblicazione del Motu proprio, da parte di taluni esponenti ecclesiastici, religiosi e laici, sostenitori delle sperimentazioni liturgiche, sono state fornite non poche interpretazioni scorrette: il presupposto comune è che fino al Concilio la Chiesa sia stata ferma e

 solo con questo si sia messa in cammino; in tal modo la tradizione viene messa in opposizione al progresso. Mi domando, tradere non significa trasmettere qualcosa da una generazione all’altra, un contenuto da una epoca ad un’altra? Nel nostro caso, tutto il complesso di gesti e di testi liturgici? Sicché si può dire che la tradizione sia in certo senso anche progresso! Se la riforma liturgica postconciliare avesse inteso proporre ai sacerdoti di scegliere all’interno della tradizione cosa conservare e cosa gettare, avrebbe compiuto un’eresia. Così non sembra, visti i numerosi licet e possit che punteggiano le rubriche liturgiche del messale di Paolo VI. Il Motu Proprio di Benedetto XVI, vuol consentire una chance in più, o meglio, riaffermare che l’antica liturgia non è mai stata abolita, in quanto pienamente cattolica. Si può dire che l’aggiornamento di papa Giovanni del messale del 1962 non può essere contrapposto a quello di Paolo VI avvenuto otto anni dopo, ma tenuto insieme come una ricchezza: appartiene alla regula fidei come espressione straordinaria e non eccezionale, accanto a quella ordinaria e normale, appunto: “due usi dell’antico rito romano”. L’autorità del Concilio non deve essere intaccata e la riforma liturgica non deve essere messa in dubbio sia da chi è più affezionato alla forma antica codificata nel messale del 1962, sia da chi preferisce quello del 1970.

E’ ovvio che quanto è ordinario non sia uguale allo straordinario, ma sarebbe strano che noi vivessimo solo del primo e non avessimo bisogno del secondo, proprio com’è ordinario il feriale e straordinaria la festa. Perciò è errato ritenere che questa nuova disposizione sia stata promulgata per i “tradizionalisti”, perché l’intento del Motu proprio è che tutti nella Chiesa guardino al rito antico, anzi che i preti possano celebrarlo e i fedeli parteciparvi. Un fedele orientale che va in chiesa può assistere al rito di Crisostomo o di Basilio secondo i tempi liturgici. Analogamente, le diocesi cattoliche non devono limitarsi ad attendere la richiesta ma devono offrire la possibilità. Perché ritenere ignoranti della Scrittura e della liturgia e nutriti soprattutto di devozioni coloro che desiderano tornare all’antico rito, quasi che quanti partecipano alla nuova liturgia siano più istruiti: basta leggere saggi e articoli di liturgisti per scoprire in proposito continue insoddisfazioni e lamentele nei confronti del vasto popolo di Dio. D’altro lato, della liturgia come bandiera d’identità non si sono serviti solo taluni tradizionalisti per affermare il fondamentalismo cattolico ma anche non pochi progressisti per rivendicare l’autonomismo di marca protestante e no-global ( vedi le bandiere della pace issate sulle chiese e davanti agli altari).La strumentalizzazione politica e culturale della messa o la sua riduzione a folklore o spettacolo è stata fatta sia dagli uni che dagli altri. La non accoglienza del Concilio – penso all’autorità del papa Paolo VI – avveniva nel post-concilio soprattutto da parte dei progressisti. Certe nuove comunità monastiche non hanno privilegiato liturgie, dove il tempo per la parola biblica prepondera su quello per la celebrazione dell’eucaristia, dove si accentua la dimensione conviviale della messa a scapito di quella sacrificale? Il Concilio non ha mai immaginato simile squilibrio Certo molti si domandano come mai l’antico rito sia ricercato dai giovani - come dice il papa nel Motu proprio -, pur non avendola mai conosciuta.

E’ riducibile ad un gusto personale? A parte i casi estremi di ‘messe beat’ dove il prete balla, ‘messe rivoluzionarie’ come in Colombia dove il prete con stola imbraccia il mitra in una mano e il messale nell’altra, ‘messe-carnevale’ in oratori salesiani dove i celebranti mettono la maschera da clown, ‘messe pic-nic’, ecc., non capita di assistere a messe dove il sacerdote sostituisce le letture con altre non bibliche, cambia articoli del credo, interpola la preghiera eucaristica? A cosa si devono ricondurre se non all’arbitrio? Interpretano bene costoro la riforma liturgica? O si sono lasciati andare al soggettivismo e relativismo, anzi alla caricatura e alla profanazione nella liturgia? Tutto questo viene ricondotto al Concilio, interpretato come cesura epocale dai primi come dai secondi, ma in senso uguale e contrario; semplificando: i lefebvriani ritengono che la “Chiesa pre-conciliare” sia stata tradita dal Concilio, mentre gli alberighiani della scuola di Bologna ritengono che la “Chiesa post-conciliare” abbia tradito il Concilio. Un esponente di questi ultimi ha definito il Motu proprio “uno sberleffo villano al Vaticano II”, ignorando che il rito romano antico si celebrava durante il Concilio e ancora alcuni anni dopo. E’ l’ermeneutica della discontinuità o della rottura, secondo Benedetto XVI. E’ strano che quelli che hanno fatto di Giovanni XXIII il simbolo del progressismo, si oppongano al messale romano da lui aggiornato ed ora rimesso in auge per la celebrazione del rito antico. I due messali stanno a dimostrare che, al di la delle forme, l’identità della Chiesa permane la stessa. Non si può scegliere la Chiesa o la messa che più aggrada. Invece, si deve consentire a tutti di sentirsi nell’unica Chiesa cattolica partecipando all’antico e al nuovo rito. Questo è il criterio non soggettivo che richiama il Motu proprio. Biasimare i tradizionalisti perché si ritengono “salvatori della chiesa romana” non serve da parte di chi si ritiene profeta della chiesa che verrà. No, il Motu proprio vuole umiltà degli uni e degli altri: la Chiesa non è cominciata col Concilio Vaticano II ma con gli Apostoli, e ha attraversato i secoli perché noi la ricevessimo integralmente, in comunione di fede e di amore con tutte le generazioni di cristiani.La Chiesa è insieme gerarchia e popolo, immagine dell’assemblea celeste, come la rappresenta la liturgia orientale seguendo la dottrina di Dionigi Areopagita: la liturgia del cielo sulla terra. Poi, se fosse vero che il rito antico privilegia una dimensione personale devozionale ed estetica, allora si dovrebbe osservare che il nuovo rito eccede in comunitarismo, partecipazionismo senza devozione, e spettacolarità. Si sostiene inoltre che la prima forma non permetteva un culto spirituale, per cui si è dovuto migrare verso quella uscita dalla riforma conciliare: ma in tal modo ci si contraddice, perché si cade nella contrapposizione tra pre e post concilio che in premessa si era negata e attribuita invece ai tradizionalisti. Si accusa poi la liturgia tridentina di essere “dionisiaca” (nel senso di Dioniso-Bacco o di Dionigi l’Areopagita?): se fosse quest’ultimo, la liturgia bizantina cos’è, dato l’influsso che proprio su di essa ha avuto il misterioso autore del VI secolo?

Gli studi comparativi dimostrano che la liturgia romana era molto più vicina a quella orientale nella forma preconciliare che in quella attuale. Pertanto si stia attenti a coniare epiteti o ad applicare l’ecclesiologia di comunione agostiniana alla liturgia riformata, perché uscirebbe malconcia visti gli abusi nella sua attuazione. Se l’antica liturgia era un ‘affresco coperto’, la nuova ha rischiato di perderlo per la tecnica aggressiva usata nel restaurarlo.Il Motu proprio invece ripristina lo statu quo ante in modo che il nuovo rito possa guardare con equilibrio e riprendere il restauro con pazienza a partire da esso stesso.
 
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