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La vocazione ad essere crociato
Di don Massimo Vacchetti - 14/08/2008 - Letteratura - 1495 visite - 0 commenti
Dopo “L’albero della vita”, ho letto “L’ultimo crociato” di De Wohl. Un buon libro per parlare di vocazione. C’è una domanda che nel libro si ripete come l’esigenza più grande: “Dov’è l’uomo che abbia ancora il puro spirito dei crociati? L’uomo che voglia compiere un’azione non perché voluta da lui, ma perché Dio la vuole?”. La risposta si trova sulle labbra di uno scrittore, non l’autore, ma Cervantes, testimone-protagonista della battaglia di Lepanto. Questi riconosce in Giovanni d’Austria “un vero re, un magnifico, giovane re. Un crociato, forse…l’ultimo crociato”. Il romanzo di De Whol ha tanti meriti. Quello di raccontare una storia, la battaglia di Lepanto in cui i Turchi subiscono una sconfitta sul mare che fino, ad allora, li aveva visti dominatori assoluti. Ha il valore didattico di farci entrare nelle pieghe di un frammento di storia della Chiesa e quindi dei paesi cattolici che su quell’identità si costituiscono. Mostra le debolezze e le passioni, il senso del dovere e dell’Assoluto negli uomini di coorte della Spagna di Filippo II della metà del 1500. Un romanzo che non solo racconta la storia, ma che della storia ne offre un senso. Una storia biografica di Juan, figlio bastardo di Carlo V e fratellastro del Re Filippo II. Il suo mentore e maestro don Luiz lo disciplina fino a farlo diventare non solo un soldato di prim’ordine, ma soprattutto un uomo generoso e puro, obbediente all’ideale di servire il Re, devoto alla volontà di Dio. C’è un fatto decisivo nell’educazione del ragazzo. Ancora adolescente Juan, riceve dalle mani di don Luiz un crocifisso di legno bruciato. Il prezioso legno era finito nelle mani dei Mori che, in dispregio, lo stavano bruciando. Visto il gesto sacrilego, don Luiz si getta nel fuoco, uccide i Mori e salva il crocifisso. Juan inorgoglito per il dono ricevuto e infiammato per l’eroismo del suo maestro grida: “Voglio essere come lui! Voglio essere come lui!” – ripetè – “Madre del cielo fammi diventare come lui, per favore!” Questo episodio sarà decisivo per comprendere l’intera parabola vocazionale di Juan. Ormai uomo, in lui convivono due spinte contrapposte: quella di seguire il suo ardore nel combattere e nel perseguire la sua passione per una donna e la sua volontà di servire, sempre e comunque, l’opera del Re. Entra in un monastero per ritrovare se stesso. Qui gli si accosta fra Calahorra. Sono queste dei dialoghi tra i due, le pagine più belle del romanzo. “Un uomo che conosco” - disse Juan sorridendo - “una volta mi spiegò che la miglior cosa era trattare Dio come il fuoco. Non bisogna starci troppo lontano, altrimenti si gela; né troppo vicino altrimenti si rischia di bruciare”. Calahorra fece cenno col capo. “Se lo rivedrete, ditegli che Nostro Signore ha detto: “Né i troppo caldi, né i troppo freddi, ma i tiepidi Dio ha vomitato dalla Sua bocca”. (…) “Oh! Questo è quasi certamente destinato a divenire un detto popolare. Ma tradotto nella vita e nei costumi è un flagello. È esattamente quello che sta accadendo intorno a noi in questi tempi. “Rispetta Dio in ogni maniera, ma senza correre rischi” si dice. “Non dire nulla e soprattutto non fare nulla che non sia politica.” “Sii neutrale.” “Che t’importa se i Turchi stanno attaccando questa o quella contrada? Non attaccano te.” “Non essere troppo freddo, manda al Principe assalito un grazioso messaggio, fors’anche delle promesse; ma non esporti al fuoco.” “Sii neutrale, con benevolenza.” (…) Guardava fisso il fuoco. “L’abitudine” - continuò con occhio terribile - “l’abitudine è uno dei peggiori nemici dell’umanità. Talora sembra che ci stiamo abituando alla nostra eredità. Tale possesso ci sembra sicuro, quasi non potessimo perderlo all’indomani. Non ci rendiamo nemmeno conto che lo spirito ci ha abbandonati”. “Finora la Spagna non manca di uomini coraggiosi” - disse risentito Juan. “E’ vero e ne avrà sempre, per grazia di Dio. Ma la maggior parte di quelli che hanno lo spirito d’avventura lo combinano con lo spirito di conquista. Questi uomini vogliono che il loro coraggio serva a loro, non a Dio. Non è necessario essere cristiano per questo! Ma dov’è l’uomo che ha lo spirito dei veri crociati? L’uomo che vuole compiere una missione, perché egli vuole, ma perché Dio lo vuole? “Dio lo vuole” Non ho mai sentito questo grido in tutta la mia vita. Lasciamo che le cose vadano per la loro via e le future generazioni non capiranno nemmeno più come un grido del tal genere si sia potuto proferire. Lo tradurranno nelle loro anime mercenarie come una strana specie di ipocrisia”. (…) “Vi saranno certamente sempre dei buoni preti che continueranno a insegnarci ciò che è giusto…” - disse Juan. - Sì, vi saranno. Le porte degli inferi non prevarranno, lo sappiamo. Ma ciascuno di noi deve vivere come se quella promessa di Cristo dipendesse da lui e da lui solo. I preti e le monache non sono abbastanza. Cristo ha bisogno anche dei laici. (…) Laici, laici Ecco la nuova crociata. Dio lo vuole. Se Dio è come il fuoco che io ne sia bruciato. Se Dio è come acqua che io anneghi in essa. Se è come aria, che in essa io voli. Se è come terra che io scavi in essa la mia vita finchè non abbia raggiunto il centro”(pag. 251 ed Bur). (…) “Che l’uomo si chiamasse Principe o Eccellenza o non avesse affatto un nome non aveva importanza. Come mangiasse o bevesse o vestisse, se fosse seduto su un trono o sul più basso sgabello, non aveva importanza. Anche se avesse o no trovato la felicità tra le braccia di una moglie poco contava al confronto del più grande di tutti i problemi. Poiché l’uomo apparteneva non a se stesso, ma a Dio. Per questo i cavalieri delle passate età lasciavano le loro mogli e i loro castelli per amore della croce. Per questo don Luiz si era gettato in mezzo al fuoco per salvare il crocifisso che i Mori stavano per cercando di bruciare. (…) Ormai non gli restava che domandare una cosa: “Signore, fate che io vi serva”.(pag. 253). La grandezza del romanziere tedesco è di restituire al lettore l’idealità di vivere non per un tornaconto personale per quanto nobile sia. Vivere non per la gloria propria e neppure per degli ideali. Vivere per servire l’opera di un altro: il Re, il Papa e in loro, ultimamente Dio. “Poiché l’uomo appartiene non a se stesso, ma a Dio”. Il crociato è chi riconosce questa verità su se stesso, chi avverte che il senso della storia, il destino dei popoli e della Chiesa, la felicità dell’uomo è Dio. Anzi, è il Dio che si fatto carne e si è lasciato crocifiggere. E si lascerebbe anche bruciare, se non trovasse qualcuno disposto a dare la sua vita, disposto a vivere la sua vita nel fuoco! De Whol dà spessore a quella parola - vocazione - che troppe volte nei nostri ritiri e conferenze appare sbiadita e spenta senza la radicale forza che essa contiene. Ne parliamo allo stesso modo che se dovessimo scegliere che vino bere a tavola: il rosso o il bianco. La vocazione - così come ce la propone lo scrittore nella figura di Giovanni d’Austria - è appartenere con tutta la forza, l’ardimento, la fantasia, la devozione all’opera di un altro perché la vita, la mia vita, sia definita in ordine a un Altro. Non sono io il metro della vocazione, ma un Altro che sceglie me. “Venne un uomo mandato da Dio, il suo nome era Giovanni”. La vita si compie nella misura in cui si appartiene. Si vive una vocazione quando si riconosce quest’appartenenza. Non si sceglie una vocazione perché semplicemente mi corrisponde o mi piace. Ma perché Dio lo vuole. Primo passo di questo modo d’intendere la vocazione è l’obbedienza. “Cristo sa se voglio servirlo con tutte le mie forze e finchè vivrò. Ma Cristo è Dio e perciò omniscente e ciò significa che sa pure che non è questa la strada in cui posso servirlo meglio. Voglio essere Suo soldato, non Suo prete. Ha bisogno pure di soldati, vero?”
 
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