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L’Occidente sconta l’effetto Kosovo e la questione Nato: Nel febbraio 2008 Pristina si stacca dalla Serbia con la benedizione dell’Occidente. E il quadro cambia. Putin protesta veementemente per «l’amputazione della Serbia»; l’Occidente, però, lo snobba e lui rilancia annunciando la reciprocità. Se il mondo si arroga il diritto di strappare il Kosovo, Mosca si riserva di fare lo stesso con l’Ossezia del Sud e con l’altra repubblica ribelle georgiana, l’Abkhazia. Altri due mesi e al vertice di Bucarest, la Nato, pur evitando di avviare la procedura d’adesione, annuncia che in futuro la Georgia e l’Ucraina, l’altro grande Stato uscito dall’orbita russa, potranno diventare membri dell’Alleanza atlantica. Un’eventualità inaccettabile per il Cremlino, che infatti riaccende le tensioni nel Caucaso. Chi ha provocato l’esclation dell’altra notte? Verosimilmente il presidente georgiano Saakashvili, nel tentativo di anticipare le mosse di Mosca e approfittando della distrazione del mondo nel giorno dell’apertura dei Giochi Olimpici. Ma ha fatto male i conti, a quanto pare. Militarmente la Russia è superiore e ora Saakashvili rischia di perdere non solo il controllo dell’Ossezia del Sud, ma anche quello del suo Paese. E se cadesse Tbilisi, l’Occidente vedrebbe svanire uno snodo cruciale nello scacchiere euroasiastico, a favore, ovviamente, di Mosca. Valeva la pena di rischiare? Perché Washington non ha imbrigliato il suo vulcanico alleato?
È una guerra, vera. Forse finirà in poche ore lasciando tutto come prima oppure inciderà profondamente negli equilibri euroasiatici. Impossibile fare previsioni quando si parla di Caucaso, ma la crisi è seria e non può lasciare indifferente l’Occidente, perché ad affrontarsi sono gli eserciti di una potenza ritrovata, la Russia, e di un Paese legato a doppio filo con Washington, la Georgia. E perché a provocarla sono stati indirettamente gli Stati Uniti e l’Unione europea. La questione dell’Ossezia del Sud non è certo recente. Risale addirittura al 1991. Quando l’Urss si spaccò i territori osseti vennero divisi in due, il nord restò alla Russia, il sud venne inglobato nella Georgia. Una terra piccolissima, grande due volte il Lussemburgo, e abitata da 70mila persone, quasi tutte russe, che rifiutarono di piegarsi all’autorità di Tbilisi. E imbracciarono i fucili. Il Cremlino intervenne e nel 1992 impose un cessate il fuoco, senza però soluzione diplomatica: da allora l’Ossezia è di fatto autonoma in una Georgia che rifiuta di concedere la secessione. Lo status quo dura fino al 2004, quando i georgiani eleggono presidente Mikhail Saakshvili, l’uomo di Washington. Per il Cremlino è un’umiliazione; perché la Georgia è una Repubblica ex sovietica e rappresenta uno snodo strategico cruciale.
Putin non si rassegna e inizia a fare pressioni. Blocca i commerci tra i due Paesi, apre e chiude i rifornimenti di gas e petrolio, ma soprattutto gioca la carta dell’Ossezia del Sud, che, improvvisamente si risveglia e nel 2006 proclama l’indipendenza, che la comunità internazionale non riconosce. Per due anni la tensione resta alta, ma sotto controllo. Poi nel febbraio 2008 il Kosovo si stacca dalla Serbia con la benedizione dell’Occidente. E il quadro cambia. Putin protesta veementemente per «l’amputazione della Serbia»; l’Occidente, però, lo snobba e lui rilancia annunciando la reciprocità. Se il mondo si arroga il diritto di strappare il Kosovo, Mosca si riserva di fare lo stesso con l’Ossezia del Sud e con l’altra repubblica ribelle georgiana, l’Abkhazia. Altri due mesi e al vertice di Bucarest, la Nato, pur evitando di avviare la procedura d’adesione, annuncia che in futuro la Georgia e l’Ucraina, l’altro grande Stato uscito dall’orbita russa, potranno diventare membri dell’Alleanza atlantica. Un’eventualità inaccettabile per il Cremlino, che infatti a luglio riaccende la tensione nell’Ossezia del Sud. I caccia militari russi violano lo spazio aereo georgiano, mentre Mosca e Tbilisi si accusano reciprocamente di intensificare le operazioni di guerra. Il segnale è forte.
Il vulcanico Saakshvili teme che Mosca stia per attuare la minaccia ventilata in febbraio. Cerca sostegno a Washington, ma la Casa Bianca è indebolita dalla corsa presidenziale. E allora aspetta il momento propizio, il giorno di apertura delle Olimpiadi, mentre Putin, ora primo ministro, e gli altri grandi del pianeta sono a Pechino per la cerimonia di inaugurazione. Gioca d’anticipo confidando nella distrazione del mondo e speculando sull’inesperienza e l’apparente mitezza del nuovo presidente Medvedev. E giovedì notte mette i soldati georgiani nelle condizioni di lanciare l’attacco in Ossezia del Sud. E ora tutti sono in imbarazzo. L’America è costretta a difendere l’integrità territoriale della Georgia, che però qualche mese fa ha negato alla Serbia, e vede il suo alleato Saakshvili perdere credibilità e influenza. Mosca deve decidere se avventurarsi in una nuova guerra in un territorio impervio come il Caucaso, con il pericolo di infiammare tutta l’area, o se trattare con Tbilisi, col rischio di apparire arrendevole. Intanto rimbombano le cannonate, alle porte di un’Europa ancora una volta sorpresa dagli eventi. Marcello Foa, sul suo blog e su Il Giornale di oggi 9 luglio.
Dalle armi agli affari,
i giochi dietro la rivolta
Cosacchi, americani, israeliani: gli interessi stranieri in Ossezia e gli schieramenti
di Guido Olimpio
Georgiani e osseti non combattono da soli. La Georgia, per preparare i suoi 32 mila uomini, ha cercato aiuto dall'Occidente all'Ucraina optando per una svolta filo-Nato e intervenendo in Iraq. Washington non poteva dimenticare che Tbilisi ha inviato 2 mila militari a Bagdad: una partecipazione che potrebbe risentire della crisi. La Georgia ha ordinato il rientro della metà del contingente «per fronteggiare l'aggressione russa».
L'annuncio è un modo per esercitare pressioni sugli Stati Uniti peraltro già coinvolti nella regione. Alla fine di luglio 600 soldati georgiani e 1000 marines hanno partecipato alle esercitazioni congiunte Immediate Response. Un test per integrare l'addestramento offerto dagli istruttori Usa. Ai georgiani - dicono gli analisti - «mancano sergenti e capitani», una lacuna che il Pentagono vuole colmare. Con un ritorno economico. Unendo cooperazione e affari, gli americani possono piazzare i loro prodotti. E così, gradualmente, il famoso Kalashnikov sarà rimpiazzato dagli M16 statunitensi, le rustiche jeep saranno sostituite dalle gigantesche Humvees. Un mercato discreto dove si sono inseriti anche gli israeliani. Alcune società di Gerusalemme hanno fornito a Tbilisi materiale per la guerra elettronica, consiglieri e supporto tecnico. In aprile i russi hanno abbattuto un paio di velivoli senza pilota georgiani: erano di produzione israeliana. Un contratto per la fornitura di tank e blindati sarebbe stato invece congelato dopo le proteste del Cremlino. Mezzi necessari per rimpiazzare i vecchi carri armati T-55 (circa 200) e T 72 (160), non tutti operativi. Uno schieramento completato da poche dozzine di mezzi corazzati (44), 109 pezzi d'artiglieria, 8 aerei da combattimento ed una trentina di elicotteri.
Nel 2006 i georgiani hanno acquistato diverse centinaia di fucili di precisione - negli Usa e in Ucraina - impiegati in una letale «guerra di cecchini». Sul fronte opposto i separatisti osseti sono poco più di una milizia (6-8 mila elementi) con pochi carri T55. Ma alle loro spalle c'è Mosca che ha lanciato sul terreno le sue colonne corazzate e ha una schiacciante superiorità aerea. Molte unità ribelli sarebbero guidate da ufficiali «volontari» russi e centinaia di altri starebbero per arrivare. Nel Caucaso nel Nord è infatti scattata la mobilitazione dei cosacchi: diversi bus carichi di uomini sono partiti per la regione separatista. In allerta anche la vicina Abkhazia, avversaria di Tbilisi, che dispone di 60 tank, moderni missili anti-carro, 116 blindati, 80 pezzi d'artiglieria e 10 mila soldati. Per gli esperti di strategia, Mosca tenterà di mantenere aperto un corridoio per salvare la «capitale» separatista Tskhinvali. I georgiani, invece, punteranno a schiacciare i ribelli prima che i russi mobilitino forze sufficienti.
Corriere della sera 9 agosto 2008