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Sono nato diversi anni dopo, non ho mai assistito a nessuna “primavera della fede”, eppure, nella mia vita di cattolico ho sempre e solo sentito parlare di Concilio Vaticano II. Per tutti è uno spartiacque, un evento che ha cambiato, in meglio, la vita di credenti e non. A destra e a sinistra, per i cattolici e per i laicisti, per Enzo Bianchi e per Marco Pannella. E’ difficile capire cosa sia stato questo concilio, senza averlo vissuto, senza aver conosciuto la vita della Chiesa prima di esso; è arduo capire certo entusiasmo, facendo la fatica che si fa ogni giorno a mantenere vivo il lucignolo della fede. Ma una prima considerazione mi allarma: possibile che non si citino che di rado, nell’orbe cattolico, encicliche e concili precedenti al Vaticano II? Possibile che la storia della fede in Cristo, di una fede pura e vera, parta da lì, oltre millenovecentosessanta anni dopo la sua venuta, come non pochi iconoclasti vorrebbero? Nelle sue memorie il cardinal Giacomo Biffi scrive che “Giovanni XXIII vagheggiava un concilio che ottenesse il rinnovamento della Chiesa non con le condanne ma con la ‘medicina della misericordia’.
Astenendosi dal riprovare gli errori, il Concilio per ciò stesso avrebbe evitato di formulare insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti. E di fatto ci si attenne a questa indicazione di partenza”. Non più anatemi, come in passato, non più risposte intransigenti alle insidie del mondo, non più simboli della fede, come a Nicea, sintetici, nitidi, ma un rinnovamento dolce, capace di trovare il favore del mondo. “L’intenzione, continua Biffi, era quella di mettere a tema lo studio dei modi migliori e dei mezzi più efficaci per raggiungere il cuore dell’uomo”: una nuova pedagogia, insomma, per un concilio che si volle, per questo, pastorale, e non dogmatico. Non verità nuove da insegnare, ma formule più atte ai tempi, per ridire le verità di sempre. Lo affermò chiaramente Giovanni XXIII, in apertura, allorché spiegò che il “punctum saliens di questo concilio non è la discussione di questo o quel tema della dottrina fondamentale della Chiesa”, ma la “formulazione del rivestimento” dell’ “antica dottrina del depositum fidei”, per trasmetterlo integro, ma “in forma più efficace”, “in modo sempre più alto e suadente”, come avrebbe ribadito anche Paolo VI. Svariati anni dopo, Joseph Ratzinger, allora prefetto della Congregazione della Fede, avrebbe dichiarato alla Conferenza episcopale cilena, nel 1988, che “questo particolare Concilio (il Vaticano II, ndr) non ha affatto definito alcun dogma e ha deliberatamente scelto di rimanere su un livello modesto, come concilio soltanto pastorale; ma molti lo trattano come se si sia trasformato in una specie di superdogma”. Non si sbagliava: il Concilio, che non aveva voluto imporre “insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti”, era divenuto per molti, come ebbe a dire un cardinale, il “1789 della Chiesa”, una rivoluzione, un “superdogma” in base a cui tutto giudicare. Ma, così facendo, si finiva per dimenticare che i “mezzi” e i “modi” “più efficaci”, il “rivestimento” diverso, sono, in quanto tali, opinabili, sottoposti, loro sì, al contrario dei dogmi, alla verifica del tempo, sul campo della storia, in relazione ai frutti ottenuti. Non esiste infatti una unitas pastorale, né sincronica né diacronica, ma necessita senza dubbio una unitas nell’essenza della fede. La verità è che lo stesso giudizio sul Concilio è assai più complicato di quanto spesso si creda: basti pensare alla dura lotta che si consumò al suo interno, tra novatori come Suenens e Liénart, e conservatori come Ottaviani, Ruffini e tanti altri.
Uomini santi, stimati dai papi, come don Divo Barsotti, provarono confusione, smarrimento, in quegli anni, non senza motivo: “Senso di rivolta che mi agita e mi solleva fin dal profondo contro la facile ubriacatura dei teologi acclamanti al Concilio... Tutto il cristiano deve compiere in ‘trepidazione e timore’; al contrario qui il trionfalismo che si accusava come stile della curia (cioè dei conservatori alla Ottaviani, ndr), diviene l’unico carattere di ogni celebrazione, di ogni interpretazione dell’avvenimento. Del resto io sono perplesso nei riguardi del Concilio, la pletora dei documenti, la loro lunghezza, spesso il loro linguaggio, mi fanno paura. Sono documenti che rendono testimonianza di una sicurezza tutta umana più che di una fermezza semplice di fede…Crederò a questi teologi quando li vedrò veramente bruciati, consumati dallo zelo per la salvezza del mondo…Tutto il resto è retorica… Solo i santi salvano la Chiesa. E i santi dove sono? Nessuno sembra crederci più”. Anche Paolo VI fu convinto del “balzo in avanti”, della “primavera” ventura, della “nuova Pentecoste”, del “giorno foriero di luce splendidissima” di cui aveva parlato Giovanni XXIII, o, come disse lui stesso, del “ringiovanimento”, del “rinnovamento” rappresentato dal Concilio, ma in diverse occasioni, più tardi, espresse anche forti perplessità, parlando di “autodemolizione della Chiesa”, della sensazione “che da qualche parte sia entrato il fumo di Satana nel Tempio di Dio”. “Si credeva, dirà, che dopo il concilio sarebbe venuta una giornata di sole per la storia della Chiesa. E’ venuta invece una giornata di nuvole, di tempesta, di buio”. E nel 1973, quasi contraddicendo un suo celebre discorso conciliare sul dialogo tra Chiesa e modernità, ebbe a dire che “l’apertura al mondo fu una vera invasione del pensiero mondano nella Chiesa”; e ancora: “Noi siamo forse stati troppo deboli e imprudenti”.
Si è visto come il Concilio Vaticano II sia stato concepito come un concilio pastorale, e non dogmatico, teso a rinnovare la forma, i modi della comunicazione e dell’evangelizzazione, non la sostanza dei dogmi e del depositum fidei. Un concilio, quindi, che non costituisce, come ricordò Ratzinger, un “superdogma” e che non impose “insegnamenti definitivi, vincolanti per tutti”. “Un concilio, per dirla col Cardinal Lercaro, che non definisce nuove dottrine, un Concilio che non condanna, ma un Concilio che cerca un linguaggio” nuovo. Rileggendo soprattutto i primi discorsi di Giovanni XXIII si scorge chiaramente che l’idea di fondo che accompagnò l’apertura dei lavori, fu l’ottimismo: ottimismo rispetto ai tempi, all’umanità in generale, al mondo dei non credenti e delle altre religioni, alla condizione interna della Chiesa. “Una nuova e luminosa Pentecoste…una vera e propria Epifania” (Esortazione Sacrae Laudis, 1962), secondo le parole di Giovanni XXIII, era sul punto di nascere, perché si potevano scorgere “non pochi indizi di un’epoca migliore per il genere mano”, di uomini contemporanei “più inclini a recepire gli ammonimenti della Chiesa” (Costituzione Humanae salutis, 1962). Si prendevano poi le distanze, nella celebre Allocutio, dai “profeti di sventura”, distanziandosi così dalla visione di S.Pio X, che aveva ipotizzato addirittura che l’Anticristo potesse essere già nato, di Pio XII, che aveva denunciato lo smarrimento dei tempi presenti, e di tanti autorevoli vescovi e cardinali. Questo ottimismo sarebbe comparso qua e là, con sfumature diverse, a volte anfibologiche, in alcuni documenti conciliari. Basti pensare all’incipit della Dignitatis humanae: “nell’età contemporanea gli esseri umani divengono sempre più consapevoli della propria dignità di persone”. Non immaginavano certo, i padri conciliari, che di lì a poco, proprio nei paesi cattolici, sarebbero dilagati pornografia, divorzio, aborto, e si sarebbe giunti a togliere la qualifica di persone ad embrioni, feti, anziani, malati terminali….
L’effetto più immediato di questo ottimismo, ribaltato più volte nel post concilio dal giudizio di Paolo VI, fu la decisione di non emettere condanne: “Sempre la Chiesa si è opposta a questi errori; spesso li ha anche condannati con la massima severità. Ma ora la Sposa di Cristo preferisce usare la medicina della misericordia piuttosto che la severità” (Allocutio di Giovanni XXIII). Si noti: “Sempre…ma ora…”: c’è una inversione di rotta, che contiene implicitamente una sorta di condanna, questa sì, nei confronti degli atteggiamenti della Chiesa del passato. Il Concilio vuole affermare uno spirito nuovo, vuole coniugare giustizia e misericordia, impresa difficile ma necessaria, però a tutto vantaggio della seconda. Vi è, a mio modo di vedere, in questo atteggiamento, almeno col senno di poi, un certo utopismo, che sfocerà poi nel post concilio in tanti errori politici e dottrinali: dalla collaborazione col comunismo di moltissimi “cattolici del dissenso”, all’aggiornamento inteso come tradimento, all’idea della salvezza universale, espressa nell’idea che l’inferno, se c’è, è vuoto, sino ad un certo buonismo irrealistico che spesso ha reso insipido il sale della fede. Il filosofo Romano Amerio, nel suo celebre studio “Iota unum”, ripreso e approfondito recentemente, dal filosofo Paolo Pasqualucci, scrive a questo proposito: “Questo annuncio del principio della misericordia contrapposto a quello della severità sorvola il fatto che, nella mente della Chiesa, la condanna stessa dell’errore è opera di misericordia, perché trafiggendo l’errore si corregge l’errante e si preserva altrui dall’errore. Inoltre verso l’errore non può esservi propriamente misericordia o severità perché queste sono virtù morali aventi per oggetto il prossimo, mentre all’errore l’intelletto repugna con un atto logico che si oppone ad un giudizio falso”. In altre parole: la condanna dell’errore è sempre stata per la Chiesa il bastone offerto a chi ha gambe malferme, volontà debole e intelletto oscurato: l’uomo dopo il peccato originale.
L’esempio più eclatante di questo atteggiamento fu la volontà del Concilio di non condannare apertamente il comunismo, nonostante circa 500 padri conciliari lo avessero richiesto, e nonostante giacessero allora, sotto questa terribile ideologia, ben più un miliardo di persone. L’ottimismo, fondato sui segni dei tempi, finiva così per trascurare il “più evidente e mostruoso segno dei tempi”. Anche nel campo della morale si volle, in alcune occasioni, accordare il pensiero della Chiesa a quello del mondo. Molti padri cercarono di dimenticare le passate condanne e di proporre aperture nel campo della pillola, degli anticoncettivi e della limitazione delle nascite. La spaccatura su questi temi portò a rimandare la questione ad una commissione su cui Paolo VI dovrà poi imporsi, nel 1968, promulgando l’Humanae vitae: l’enciclica che proprio in alcuni leaders concilari, da Suenens a Doepfner, avrebbe trovato i più risoluti oppositori.
In quest’ottica di “misericordia” fu inoltre eliminato il Sant’Ufficio, il garante per secoli dell’ortodossia. Ma il risultato di tutto ciò non fu, nel post concilio, una “vera e propria Epifania” della fede, ma l’ “autodemolizione” della Chiesa (Paolo VI), la proliferazione di dottrine eterodosse sostenute con superbia da tanti teologi, la divisione nel senso stesso della Chiesa e dei cattolici. “Basta con il dissenso interiore alla Chiesa…basta con la disobbedienza qualificata come libertà” avrebbe infatti affermato, nel 1975, Paolo VI.