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L'albero della vita
Di don Massimo Vacchetti - 16/07/2008 - Letteratura - 1535 visite - 0 commenti
Da qualche anno il tempo estivo è il tempo della lettura. E’ un piacere a cui non riesco a sottrarmi. Non è più solo il gusto di una lettura, ma anche l’interesse di gustare la verità attraverso quella forma singolare che è la narrativa. Mi pare, cioè che la letteratura mi aiuti in modo del tutto inconsueto ad entrare nel vivo di alcune questioni spirituali e teologiche che per limite di tempo o per ritrosia verso alcune aspre forme del linguaggio teologico non riuscirei altrimenti ad accedervi. Parazzoli, un amico scrittore, dice: “Io ritengo che il concetto di Grazia sia molto più chiaro nel “Diario di un curato di campagna” di Bernanos che in molti trattati di teologia. Il romanzo, infatti, rappresenta una visione sintetica della vita”. Qualcuno mi rimprovera di questa mia passione. Dicono che perdo tempo. Un prete deve leggere libri di spiritualità o vite di santi, libri di teologia o al massimo saggi su come va il mondo. Non storie e romanzi. Risponderei con le parole di un prete milanese che mi ha confermato in questa direzione: “Non avete mai provato a gustare la bellezza delle forme e dei ritmi, la musica segreta di certe frasi, la forza evocativa di certe immagini? Non avete mai conosciuto lo stupore che nasce da una parola quando ti fa sentire il palpito vitale delle cose e ti mette in rapporto con il mistero sacro che è come il respiro di tutto ciò che esiste? Non avete mai pensato alla mitezza del linguaggio letterario? Le altre forme di linguaggio spesso ti aggrediscono, si impongono con la presunzione di una verità assoluta e con la forza costringente della dialettica, ti vogliono strappare un consenso prima ancora che tu ne sia persuaso. Il linguaggio letterario invece quando è autentico, si presenta delicato, discreto, leggero, sinuoso: è una specie di invito (così è il linguaggio delle parabole) a un’avventura conoscitiva in cui sei chiamato a partecipare con tutto il tuo essere, con la mente e con il cuore, con la fantasia e con la sensibilità: soprattutto con la tua libertà”. Dunque, le mie letture estive sono selezionate, attese e orientate a scoprire, nella forma propria del linguaggio narrativo, alcuni aspetti che più m’interessano. Se fino a qualche anno fa, le letture avvenivano in modo caotico, ora sempre più avverto la necessità di scegliere cosa leggere e di farlo secondo propositi più ordinati ed essenziali. Non si può leggere tutto e non tutto è utile allo stesso modo. Quest’anno ho scelto di conoscere un autore a me ancora sconosciuto, L.de Whol le cui opere sono edite nella collana dello Spirito cristiano. Eppure sullo scaffale della libreria c’è una copia regalatami da chissà chi e chissà quando. In realtà, era tempo che lo tenevo d’occhio. L’avevo messo lì…Ci sono libri che riponi e dici “quando avrò tempo…” che è un modo molto carino per dire al libro “mi spiace, ma sarà difficile amico mio”. Altri a cui (lo capisci da come lo riponi nella libreria) dai appuntamento. Appartiene alla categoria dei “presto, verrà il tuo turno. Per il momento ti metto lì…”. Sono andato a cercarlo. Titolo: “L’albero della vita”. Il libro è di quelli che ti appassionano. Lo leggo in tre sere. Tre sere dal caldo infernale in cui non riesco a prendere sonno. Quando si legge un libro è come salire sull’aereo e atterrare in un altro mondo. Qualcuno ha detto che leggere equivale a viaggiare. Il viaggio in questione ti porta secoli indietro al tempo della Roma del terzo e quarto secolo dopo Cristo. In realtà, gran parte del romanzo si svolge in Britannia. Hai la sensazione, mentre scorri le pagine, di riconoscere la decrepitezza dell’Impero romano. Non sono ancora le voragini che porteranno alla dissoluzione di quest’impero ineguale nella storia, ma si ha come l’impressione che la Roma imperiale sia ormai corrosa dal tarlo della divisione e del potere, dell’avidità e dell’inganno, di una religiosità immiserita e di una presunzione bellica ormai sterile. In questo contesto di tradimenti e soprusi, De Wohl ti fa conoscere Re Cel, Elena, Costanzo, Favonio, Ilario, Albano, Costantino. Uomini e donne di valore, dal temperamento forte, vigoroso, fedeli, pronte al sacrificio per ciò in cui essi credono. Noi li chiameremmo eroi. Succede, mentre assapori le pagine, di stimarti di avere la possibilità di conoscerli. La trama del romanzo comunque non indugia nelle battaglie (se non nell’ultima quella in cui Costantino sconfigge Massenzio e conquista Roma nel segno della croce), non si sofferma sulle losche tresche di palazzo, né sugli amori imperiali e neppure a caratterizzare eroicamente i protagonisti. Almeno non è questa la preoccupazione che sta a cuore all’autore. A De Whol interessa descrivere quel moto nascosto che accompagna la vita di ciascun uomo e che culmina con il desiderio che la vita sia salvata, redenta. I protagonisti dell’intero romanzo non sono soltanto quelli descritti, artefici di imprese e di battaglie per l’Impero, quanto l’uomo semplice, reale che davanti alla vita porta la speranza e il desiderio di una salvezza e di un Salvatore. Quest’umanità non si costituisce di soli piccoli, i poveri, gli schiavi (stupenda è la pagina in cui alcuni uomini dell’entourage di Costanzo rifiutano, senza alcuna forma di risentimento, di bruciare incenso alla statua dell’Imperatore Diocleziano pur sapendo che in questo ardito gesto avrebbero incontrato la morte) cui quest’attesa potrebbe costituire semplicemente il pertugio di una speranza psicologica alla loro misera condizione. Essa si costituisce ben presto anche di gente colta e socialmente ben posizionata. Il romanzo è così percorso dal desiderio che il Mistero che fa tutte le cose riveli il suo nome, mostri il suo volto, emerga come Salvatore. C’è come un mormorio nascosto dentro il cuore dell’uomo, e forse dentro la stessa creazione, che sussurra e invoca un redentore. Lo testimonia la profezia di Cel, il padre di Elena che l’autore immagina figlia di un Re: “il legno è sacro. Il legno è la rovina degli uomini e il trionfo degli uomini. Ci uccide e ci salva.” Ilario un fiduciario di Elena, divenuto nel frattempo sacerdote e ucciso pur di proteggere il calice contenente il Santo sacramento che Elena riuscirà a custodire, offre alla sua domina la chiave di comprensione delle profezie del padre: “Quando il primo uomo e la prima donna, Adamo ed Eva ebbero perduto il paradiso andarono a vivere in esilio. Venne il giorno in cui Adamo doveva morire. Quando fu presso a morte, Dio mandò sulla terra un messaggero alato, u grande e potente spirito, l’arcangelo Michele. Michele comparve a Set, figlio di Adamo e gli diede un minuscolo seme: il seme di un albero. Morto che fu Adamo, Set mise il seme consacrato in bocca al padre defunto. Quindi Adamo fu sepolto e sulla sua tomba crebbe un albero. Migliaia di anni più tardi,l’albero si trovò ad essere nel cortile di una reggi, la reggia di Salomone, il saggio re d’Israele. Ma per quanto saggio, re Salomone nulla sapeva circa l’origine dell’albero. Senonchè un bel giorno una grande regina dal sud venne a fargli visita: la regina di Saba. Ella sapeva dell’albero e del suo segreto perché set era stato suo antenato e aveva narrato a suo figlio, questi l’aveva narrata al figlio proprio e così via di generazione in generazione. La regina di Saba fece sapere a Salomone che quell’albero era sacro perché su di esso sarebbe morto il redentore del mondo. Il re fece tagliare l’albero e seppellire profondamente il legname nella terra, non lontano dalla zona dei templi. La fossa scavata si riempì d’acqua che in seguito servì a lavare gli animali del sacrificio per il tempio. Così continuò per molte generazioni. Ma quando venne il tempo, la fossa si asciugò e il legname fu ritrovato. “Quale tempo?” chiese Elena. “il tempo nel quale fu compiuto il più grande sacrificio. Il sacrificio per il quale tutti gli altri non erano stati che simboli”. “Elena si rammentò di colpo della profezia di suo padre: “Non c’è nulla di più sterile di una croce. Ma a contatto col santo sangue il legno sterile divenne l’albero della vita”. C’è un’altra profezia che accompagna l’ardente aspettativa dell’umanità ad una salvezza. E’ quella che, una notte provvidenziale, Costantino, fino a quel momento intento soltanto nell’arte della guerra, leggerà dagli scritti del poeta Virgilio: “O muse di Sicilia, cantiamo cose più grandi! Ritorna la vergine Astrea, ritorna il Regno di saturno e dall’alto dei cieli discende un nuovo figlio…La terra sarà redenta in eterno dalla paura…E anche il serpente morrà”. Leggeva e leggeva, come un assetato beve, in fetta, a sorsate impetuose”. C’è – è questa la nota più bella del romanzo - una gravidanza della storia quasi che in essa e non fuori di essa accada la salvezza. Quest’attesa viene portata, come in un passaggio di testimone, di generazione in generazione, dal cuore di Elena. Il suo pellegrinaggio che la porterà fino a Gerusalemme per ritrovare il Sacro legno della Croce del Signore è anche un pellegrinaggio interiore. Per usare un linguaggio paolino, Elena e l’impero romano “geme e soffre fino ad oggi nelle doglie del parto aspettando la redenzione” (cfr Rm, 8,23). Dapprima per il legame filiale che la lega al padre, poi per l’ammirazione verso Ilario e Albano diventa il prototipo dell’umanità nuova che va riconoscendo i segni del Redentore fino al ritrovamento dell’albero della vita. Come se tutte le attese del mondo lì si compissero. Il libro termina con una profetica affermazione dell’autore che muore nel 1961, ma che pare presagire la triste condizione attuale: “Elena aveva trovato la verità della croce; Costantino donò al suo regno l’albero della vita; i popoli del mondo peregrinano nel tempo, col messaggio largito all’Occidente”. Il mondo occidentale ha smarrito non tanto Cristo quanto il desiderio stesso di un Salvatore. Si può smarrire la fede, ma non l’ardente desiderio di un riscatto che non posso darmi da me. Lo smarrimento del desiderio di Cristo è l’esito di un processo che culmina con la sola speranza di codificare, per legge, che il peccato non esista. Ben magra speranza la nostra…
 
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