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Cultura e finanza nell'Italia post fascista. Quando i neri divennero rossi (I parte)
Di Francesco Agnoli - 05/07/2008 - Storia del Novecento - 1316 visite - 0 commenti

 Benchè l'Italia del dopo guerra abbia proposto l'antifascismo come valore essenziale, il sommo ed esclusivo valore in base a cui giudicare ogni persona e ogni pensiero, fino a farne una categoria metastorica e metafisica, in realtà la mentalità totalitaria fascista non muore con la caduta del fascismo. Ciò è dovuto al ruolo che molti partigiani rossi riescono a ritagliarsi, nonostante la sconfitta alle elezioni del 1948, nella nuova classe dirigente, e soprattutto nel campo della cultura e del giornalismo: non solo perché, anche grazie alle amnistie opportunamente concesse dal Togliatti, allorché è ministro di Grazia e Giustizia, molti siedono in Parlamento e altri si danno a dirigere decine di Istituti storici sulla Resistenza, divenendo i custodi dell’ortodossia storica, ma anche perché moltissimi degli intellettuali che hanno difeso a spada tratta ed esaltato il fascismo, dopo l'8 settembre o alla fine della guerra, girato il vento, abbracciano con lo stesso entusiasmo e lo stesso spirito, violento e totalitario, l’ideale dittatoriale comunista: dal fascismo attivo e militante vengono Ingrao, Bocca, Giuseppe D’Alema, padre di Massimo; fascisti intransigenti e poi comunisti sono gli intellettuali e scrittori Curzio Malaparte, Delio Cantimori, Massimo Bontempelli, Guido Piovene, Fidia Gambetti e Davide Lajolo (giornalisti de “l’Unità”) ecc., cioè buona parte dell’intellighenzia comunista dell’Italia post-fascista.

 A tal proposito un uomo integerrimo, come Guareschi, internato in un lager tedesco per due anni e poi, nell'Italia libera, fiero anticomunista, raccoglie sul suo giornale, nell'immediato dopoguerra, brani di opere o di articoli scritti durante il fascismo da persone approdate poi al PCI: il buon Davide Lajolo, per fare un solo esempio, prima di divenire vice-direttore de “l’Unità”, affermava: “(Mussolini) è nella sala. La sala è piena di Lui. Non esistiamo che in Lui…bisogna guardarlo estasiato”. Sempre Guareschi, durante il suo internamento in lager, scrive: “Hanno il dente avvelenato. Sfogavano la loro bile dalle colonne dei giornaletti dei Giovani Universitari Fascisti ed ora – con gli stessi argomenti -- fanno il processo al fascismo in termini ambigui…e si preparano a sfruttare questa triste avventura per annidarsi nei nuovi giornali e di lì sfogare il loro risentimento di uomini mancati”.

Scriverà un antifascista come Montale nel 1956: "Se per alcuni fascisti in buona fede il fascismo fu una sorta di religione, altrettanto lo fu l'antifascismo…i molti che aderirono al comunismo passarono da un conformismo ad un altro…". Del resto nell'Italia del dopo guerra occorre fare proprio così per essere pubblicamente consacrati come letterati, giornalisti e opinionisti di grido, per avere sedie e palcoscenici da cui pontificare e suggerire, consigliare ed inveire. Da questi anni diviene necessaria la tessera del PCI, o comunque posizioni antifasciste da sinistra, per ottenere riconoscimenti e premi letterari.

La tessera comunista viene infatti presa da Vittorini - che pure precedentemente collaborava al settimanale della Federazione fascista di Firenze e condivideva con Pratolini gli ambienti del fascismo di sinistra-, da Calvino, anch'egli, precedentemente, in odore di fascismo, da Pavese, Pasolini, Moravia, Marchesi, C.Levi ecc; su posizioni analoghe sono anche Silone, Cassola ecc, insomma tutti gli autori divenuti celebri rappresentanti della cultura ufficiale (anche se poi alcuni di essi avranno dei ripensamenti e arriveranno a stracciare la tessera), e di quella sua dogmatica codificazione che sono i testi della scuola dell'obbligo. Succede così proprio come sotto il fascismo, quando la carriera era assicurata dal partito, oppure dalla potenza di qualche importante industriale proprietario di carta stampata. Per questo non deve stupire, il fatto che il nostro paese non abbia, in questi lunghi anni, la presenza di famosi intellettuali cattolici.

In realtà ci sono, ma la DC, vincitrice alle elezioni del 1948, che permettono al nostro paese di non diventare un'altra Albania o Jugoslavia, non profonde alcun impegno nel sostenerli, interessata come è, specie dopo i primi tempi, a governare e occupare le sedi della politica piuttosto che ad approfondire e diffondere la propria cultura, in realtà così poco definita e così smaniosa di differenziarsi da un cattolicesimo genuino e popolare. Addirittura, non senza opposizione da parte di papa Pio XII, ben poco favorevole a De Gasperi, e di cattolici come Gedda e Guareschi (veri artefici, da fuori, da posizioni non rigidamente partitiche, della vittoria del 1948), la DC lascia tacitamente il controllo della cultura al PCI, mentre, per quanto riguarda l’economia, il cristiano De Gasperi fa, volente o nolente non è dato saperlo, un “patto con l’alta finanza” italiana (patto De Gasperi-Mattioli), cioè con gli uomini più importanti del capitalismo italiano, tutti legati ad una visione della vita laica e massonica.

 

 
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