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La musica sacra e la preghiera.
Di Francesco Agnoli - 15/06/2008 - Religione - 1151 visite - 0 commenti

Recentemente in svariate occasioni  Benedetto XVI ha portato all'attenzione della Chiesa un tema a lui molto caro, da parecchi anni: quello della liturgia. L'attuale papa, infatti, proviene dal paese della riforma protestante, e conosce bene, quindi, quali siano le mutazioni liturgiche apportate da Lutero al Santo Sacrificio della Messa. Si trattò, in sintesi, di una riduzione del Sacramento a memoriale, a mero ricordo dell'ultima Cena, con una lunga serie di conseguenze, sul piano rituale ed artistico. Il Novus Ordo Missae, introdotto d’impero nel 1969 anche nel mondo cattolico, attraverso una commissione presieduta dal chiacchieratissimo monsignor Annibale Bugnini, riecheggia per molti aspetti la riforma protestante, snaturando in parte secoli di tradizione, e generando, come afferma l'Instrumentum laboris, documento preparatorio del sinodo, "riti banali e poveri di senso spirituale".

Non occorre essere dei teologi per accorgersene: basta paragonare la spiritualità delle chiese antiche con quella delle chiese moderne, oppure il canto gregoriano, diffuso in Europa specialmente attraverso l'ordine di san Benedetto, con molti dei nuovi inni liturgici. Eppure il canto è una preghiera fondamentale, tanto che i grandi santi ne hanno spesso composto qualcuno: si pensi al Jesu, dulcis memoria di san Bernardo, o al Pange Lingua di Tommaso, o a canti popolari di immensa dolcezza, come Tu scendi dalle stelle e Quanno nascette ninno, del moralista Alfonso de Liguori. Sant'Agostino, nelle sue "Confessioni", scrive: "Quante lacrime sparsi sentendomi abbracciare il cuore dalla soave melodia degli inni e dei cantici risonanti nella tua casa!". E aggiunge: "Chi canta prega due volte".

Col canto, infatti, lo spirito si acquieta e si eleva, chiede e ringrazia, contempla ed esulta, con la totalità della persona, quasi trascinando con sé il corpo, costretto a seguire, ad ergersi in elegante postura e a protendersi, in una tensione analoga a quella dell'anima.

L'esperienza religiosa è infatti esperienza d'amore, che nasce interiormente, per poi sfociare all'esterno: "dentro non po' celare, tanto grande è il dolzore", poetava Iacopone da Todi, descrivendo l'amore mistico per Dio. Ma per assorbire l'animo, per raccoglierlo, ed innalzarlo al cielo, proprio come una vertiginosa vetrata gotica o un altare barocco, il canto deve essere sacro: gioioso e giubilante, senza scompostezza, poetico e nobile, senza artificio, dolce e soave, senza affettazione né sentimentalismo.

Per generare vera gioia, che si imprima nell'animo, e non solo emozioni passeggere, deve armonizzarsi con la natura dell'uomo, parlare non solo ai sensi, ma a tutte le facoltà, secondo la loro gerarchia. Deve saper esprimere la forza e la soavità della fede, ma anche la sua semplicità e chiarezza; la storicità degli avvenimenti divini, ed il loro carattere misterioso; la coralità dell'esperienza comunitaria, ma anche l'individualità dell'anima personale. Troppe volte, invece, nelle cerimonie odierne, si cantano facili motivetti - forse con l'illusione di attirare i giovani-, in cui prevalgono il ritmo, la sdolcinatezza delle parole, quando non, addirittura, l'utopia pacifista e l'orizzontalità mondana.

Sono, spesso, canzoni che si potrebbero cantare in un prato, con la chitarra e gli amici, o sotto il balcone di una ragazza, per una serenata: non preghiere, ma composizioni di cantautori di musica leggera. Parlano di "pace", di un "mondo nuovo", di "onde del mare", di pane, non più "angelicus", e di "strade del mondo". Non vi è più il cielo, né il senso religioso, ma un vago umanesimo, insipido, degno di futuri Templi dell'Uomo. Non canti che affidino il quotidiano all'eterno, il divenire all'Essere, la miseria, degna di misericordia, dell'uomo, alla grandezza e bontà di Dio, ma espressioni di un cristianesimo decadente e perbenista, fatto di boy-scuots e "buone azioni". Sino al punto di cantare il Padre nostro, preghiera insegnata da Gesù stesso, sull'aria di “Sound of silence”, o di rispolverare, per un congresso eucaristico, la canzone di John Lennon, "Imagine", in cui si augura un mondo senza cielo nè religione.

Di essa, forse, piacevano la musichetta, l'idea di pace, senza fondamento né sostanza, e l'atmosfera sognante: come se per contrastare l'illuminismo, il cinismo, il materialismo e la miscredenza odierni, occorresse rifugiarsi in una retorica romantica dei "buoni sentimenti", in un languido infiacchimento dei sensi e della mente, che in realtà nulla ha che vedere con la dolce fortezza delle virtù evangeliche. L'esito? Un popolo che non canta più.

 
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