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Il miracolo del piccolo Finley il bambino nato tre volte
Di Rassegna Stampa - 09/06/2008 - Bioetica - 1125 visite - 0 commenti
La madre prendeva la pillola. Quando ha scoperto di essere incinta ha provato ad abortire: però il bimbo è sopravvissuto La prima cosa che il mondo ha saputo, a proposito di Finley Crampton, è che ha le orecchie a sventola. Le ha prese da papà. Dalla mamma ha preso invece il colore chiaro degli occhi. Finley non si trova qui da ieri. Ha già sei mesi, sta piuttosto bene ed è cittadino inglese. E, se il buongiorno si vede dal mattino, possiamo stare certi che di lui sentiremo parlare ancora. Finley infatti è vivo perché né la pillola anticoncezionale né un aborto terapeutico sono riusciti a sradicarlo dal grembo nel quale aveva cominciato a esistere, 19 settimane prima di apparire davanti agli occhi stupefatti dei medici di un ospedale del Nottinghamshire, gli stessi che 11 settimane prima avevano cercato di toglierlo di mezzo. Quella di Jodie, la mamma, è una storia dolorosa. Jodie è portatrice di una malattia genetica che le è costata la perdita del primo figlio, a solo venti minuti dalla nascita, e la grave menomazione del secondo, di un anno maggiore di Finley. Per questo aveva deciso di non avere più figli, cominciando ad assumere sistematicamente la pillola. Accortasi, con stupore, di essere nuovamente incinta, era tornata in ospedale per abortire, ci ha provato e il risultato di tutta questa vicenda è che Finley è qui. Non si tratta, come si vede, di una storia di accanimento terapeutico, ma solo di una storia dolorosa con un inaspettato lieto fine, e questo non è perciò un articolo antiabortista, nel senso che la vita va ben oltre l’antiabortismo. La vita, che tendiamo a dare per scontata, e che richiede viceversa la nostra massima attenzione. Quello che Finley ha da insegnarci, è per tutti. Ci insegna che la vita non è un «principio», un’idea, un’astrazione, ma un fatto, una cosa. Ricordate - dice Finley - che la vita è questa cosa che i medici del Nottinghamshire si son trovati davanti, restando con un palmo di naso dopo aver fatto il possibile per eliminarla. Certo, l’aborto può essere stato eseguito male, e il dosaggio delle pillole mal calibrato. Posso spingermi a pensare che la regolarità di Jodie nell’assunzione della pillola non sia stata esemplare, e che Jodie, nel fondo del cuore, desiderasse ardentemente altri figli dopo i primi due. Nulla toglie però che si debba fare chapeau davanti alla vita, che diventa non solo trifoglio o mosca o gallina, ma uomo: alla sua tenacia, alla sua dura volontà, alla sua irriducibilità. La vita non coincide con i nostri programmi, è quello che è. Dirle di sì è l’accettazione di quello che tutta la cultura in cui siamo immersi ci insegna a odiare, perché la cultura in cui siamo immersi ci dice che la vita ha un senso solo se è come noi vogliamo. E in questo, scusatemi se insisto, fa poca differenza l’ideologia di riferimento. Un cattolico sa bene, se non ha perso il cervello, com’è facile anche per lui accontentarsi della sua vita cattolica «bell’e fatta», come diceva Péguy. E la cultura dominante non si esprime tanto nell’abortismo (che è solo una conseguenza), quanto piuttosto in questa mediocrità, che spesso rimane anche quando ci si trasforma in fanatici e urlanti difensori dei più sacri principi. La vita è il contrario di questo. Soprattutto in quello che è, come si diceva, il suo esito più inimmaginabile e in qualche modo più inaccettabile: l’uomo (un bel gattino è molto più accettabile). Scrisse Hannah Arendt: «Gli uomini, nella misura in cui sono qualcosa in più che un fascio di reazioni animali e un adempimento di funzioni, sono del tutto superflui per il regime. Questo infatti non mira a un governo dispotico sugli uomini, bensì appunto a un sistema che li renda superflui». Perciò che Dio benedica te e le tue orecchie a sventola, Finley, e con te questa cosa imperfetta, sporca, piena di guai, ma tenace e invincibile, che è la vita. Il solo augurio umano che possiamo fare a noi stessi è di riuscire ad affrontare fatiche e dolori nello stesso modo in cui tu hai affrontato i tuoi. di Luca Doninelli – Il Giornale, 09/06/2008
 
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