Sorpresa: «La diagnosi preimpianto non funziona». Chi lo dice alla Turco?
Per gli antagonisti della legge 40 è il preferito tra i cavalli di
battaglia, soprattutto dopo la discussa sentenza emessa dal Tribunale
di Cagliari alla fine di settembre sul caso della donna affetta da beta-
talassemia: parliamo della diagnosi preimpianto, la tecnica di analisi
e selezione degli embrioni che – nei proclami di chi la sostiene –
dovrebbe permettere alle donne che accedono alla fecondazione assistita
di moltiplicare le possibilità di successo della futura gravidanza,
individuando e impiantando gli "esemplari" potenzialmente più sani.
Fosse così – ammettiamolo pure, per un istante – suonerebbe come una
bella tentazione: una donna desiderosa di diventare madre, ma forse
troppo avanti con gli anni o affetta da qualche patologia ereditaria,
si rivolge a un centro specializzato in fecondazione assistita e chiede
di avere un figlio (sano, s’intende). Quelli gli dicono che sì, è
semplice: basta "analizzare" e "individuare" gli embrioni più adatti.
Il che comprende lo scarto di tutti gli altri. Tutto avviene nel nome
della salute della futura madre, per garantire maggiori possibilità di
riuscita ed evitare nuovi cicli di fecondazione artificiale. Chi
esiterebbe? E perché mai una pratica di tutela nei confronti delle
donne dovrebbe essere vietata per legge? Quante volte abbiamo sentito
queste domande. Soprattutto nell’ultimo mese, alla luce di quella
revisione delle linee guida della legge 40 per cui è stato
costantemente suggerito il dilemma fuorviante tra tutela della donna e
tutela dell’embrione, come se la soluzione in uno soltanto dei due
sensi (in particolare il primo) fosse la sola da percorrere, se non
altro sul piano scientifico. Falso.
A dimostrarlo – dati alla mano – per la prima volta non è affatto la
legge italiana. Tra lo stupore di una parte dei partecipanti al meeting
annuale delle società per la riproduzione assistita statunitensi,
riunite a Washington a metà ottobre, i medici della Asrm (l’American
Society for Reproductive Medicine, tra le più autorevoli e
rappresentative Oltreoceano) si sono espressi nettamente contro la
tecnica di diagnosi preimpianto dello screening, che consiste nello
studio dell’assetto cromosomico degli embrioni per il trattamento delle
pazienti che accedono alle tecniche di procreazione assistita in età
avanzata o dopo aborti e fallimenti d’impianto reiterati. In pratica si
prende un embrione, si estrae una delle sue cellule e si analizza
cercandone delle anomalie cromosomiche, al fine di stabilirne la "
normalità" o l’"anormalità" e la conseguente possibilità di dare con
esso origine a una gravidanza a termine, rara con queste pazienti.
Peccato che negli ultimi otto anni – secondo quanto emerso durante il
convegno e ampiamente riportato in uno dei più recenti numeri di Nature
– la tecnica abbia dimostrato la sua inconsistenza, spesso contribuendo
addirittura a diminuire le possibili gravidanze.
A spiegarci i motivi di questo sorprendente fallimento è il medico
newyorchese Glenn Schattmann, noto specialista nel campo dell’
infertilità e docente di Endocrinologia riproduttiva al Weill Medical
College della Cornell University. Schattmann, si badi bene, come la
quasi totalità dei medici e ginecologi statunitensi non soltanto è un
convinto sostenitore della pratica ma esegue diagnosi preimpianto sulle
donne che ogni anno ricorrono alla fecondazione assistita per avere
figli nel suo studio. Proprio per questo la sua testimonianza è ancor
più sbalorditiva: «Da tempo ormai – ci spiega – vado sostenendo,
appoggiato dall’Asrm, che non c’è alcuna prova evidente che lo
screening preimpianto aumenti le possibilità di successo nelle
gravidanze a seguito di fecondazione in vitro. Ecco perché sarebbe un
errore gravissimo quello di continuare, come medici, a illudere le
nostre pazienti e, quel che è peggio, far correre loro rischi inutili».
Rischi per le pazienti, menzogne dei medici: eppure le varie tecniche
della diagnosi preimpianto, anche nel nostro Paese, continuano a essere
proposte come metodo sicuro per aumentare i successi nelle gravidanze
da procreazione assistita...
«È dimostrato da diversi studi compiuti negli Usa – continua
Schattmann – che lo screening su una sola cellula di un embrione non
può essere il fattore in base al quale decidere se quello sarà
"normale" o "anormale". Il risultato del test in pratica, non prova
nulla circa il futuro di quell’embrione: il che è confermato dagli
errori diagnostici della pratica, che sono da considerarsi intorno al
10% sia per quanto riguarda i falsi positivi (anormali secondo il test,
sani in realtà) sia per i falsi negativi (sani secondo il test,
anormali nei fatti). Tutto questo senza contare i danni che il prelievo
stesso di materiale cellulare può causare e spesso causa all’embrione e
alla madre: l’impiego della tecnica ha dimostrato più volte di incidere
sulle riuscita della gravidanza».
Dati allarmanti, lontani anni luce dalla favola dei figli sani a colpo
sicuro e della tutela della salute della donna di cui si parla nel
nostro Paese, e che negli Usa (forse non solo lì...) hanno molto a che
fare con gli interessi economici dei centri e delle cliniche che
praticano la tecnica. È lo stesso Schattmann a sottolinearlo: «Per la
pratica dello screening preimpianto, cliniche e centri statunitensi
chiedono dai 5 mila ai 7 mila dollari – spiega con pragmatismo tutto
americano–. Se si pensa che a oggi negli Usa il 10% delle procedure di
fecondazione assistita è accompagnato da test genetici, e che di questi
l’80% consiste in screening, il conflitto di interessi insito nella
"raccomandazione" sempre più frequentemente fatta alle donne è presto
spiegato». Una raccomandazione tanto lontana dalla realtà da
costringere Schattmann, quando una donna si presenta nel suo studio, a
dirle con onestà: «Se il suo obiettivo è quello di avere un bambino
sano ricorrendo alla fecondazione assistita, la sua migliore chance di
ottenere questo scopo sarà di non ricorrere allo screening
preimpianto». E quando la donna gli obietta che lui è un convinto
sostenitore della diagnosi preimpianto, Schattmann replica: «Lo sono, è
vero. Ciò non toglie che io debba agire rispettando la deontologia del
mio mestiere di medico: che, al di là di ogni interesse commerciale, mi
impone di dire la verità sull’inutilità e i rischi di questa tecnica».
Sorprendente, per i canoni italiani. E infatti: qualcuno ha letto una
sola riga di tutto questo sui nostri giornali?
Avvenire, 14 novembre 2007
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