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Sorpresa: «La diagnosi preimpianto non funziona». Chi lo dice alla Turco?
Di Rassegna Stampa - 07/05/2008 - Fecondazione artificiale - 1373 visite - 0 commenti
Per gli antagonisti della legge 40 è il preferito tra i cavalli di battaglia, soprattutto dopo la discussa sentenza emessa dal Tribunale di Cagliari alla fine di settembre sul caso della donna affetta da beta- talassemia: parliamo della diagnosi preimpianto, la tecnica di analisi e selezione degli embrioni che – nei proclami di chi la sostiene – dovrebbe permettere alle donne che accedono alla fecondazione assistita di moltiplicare le possibilità di successo della futura gravidanza, individuando e impiantando gli "esemplari" potenzialmente più sani. Fosse così – ammettiamolo pure, per un istante – suonerebbe come una bella tentazione: una donna desiderosa di diventare madre, ma forse troppo avanti con gli anni o affetta da qualche patologia ereditaria, si rivolge a un centro specializzato in fecondazione assistita e chiede di avere un figlio (sano, s’intende). Quelli gli dicono che sì, è semplice: basta "analizzare" e "individuare" gli embrioni più adatti. Il che comprende lo scarto di tutti gli altri. Tutto avviene nel nome della salute della futura madre, per garantire maggiori possibilità di riuscita ed evitare nuovi cicli di fecondazione artificiale. Chi esiterebbe? E perché mai una pratica di tutela nei confronti delle donne dovrebbe essere vietata per legge? Quante volte abbiamo sentito queste domande. Soprattutto nell’ultimo mese, alla luce di quella revisione delle linee guida della legge 40 per cui è stato costantemente suggerito il dilemma fuorviante tra tutela della donna e tutela dell’embrione, come se la soluzione in uno soltanto dei due sensi (in particolare il primo) fosse la sola da percorrere, se non altro sul piano scientifico. Falso. A dimostrarlo – dati alla mano – per la prima volta non è affatto la legge italiana. Tra lo stupore di una parte dei partecipanti al meeting annuale delle società per la riproduzione assistita statunitensi, riunite a Washington a metà ottobre, i medici della Asrm (l’American Society for Reproductive Medicine, tra le più autorevoli e rappresentative Oltreoceano) si sono espressi nettamente contro la tecnica di diagnosi preimpianto dello screening, che consiste nello studio dell’assetto cromosomico degli embrioni per il trattamento delle pazienti che accedono alle tecniche di procreazione assistita in età avanzata o dopo aborti e fallimenti d’impianto reiterati. In pratica si prende un embrione, si estrae una delle sue cellule e si analizza cercandone delle anomalie cromosomiche, al fine di stabilirne la " normalità" o l’"anormalità" e la conseguente possibilità di dare con esso origine a una gravidanza a termine, rara con queste pazienti. Peccato che negli ultimi otto anni – secondo quanto emerso durante il convegno e ampiamente riportato in uno dei più recenti numeri di Nature – la tecnica abbia dimostrato la sua inconsistenza, spesso contribuendo addirittura a diminuire le possibili gravidanze. A spiegarci i motivi di questo sorprendente fallimento è il medico newyorchese Glenn Schattmann, noto specialista nel campo dell’ infertilità e docente di Endocrinologia riproduttiva al Weill Medical College della Cornell University. Schattmann, si badi bene, come la quasi totalità dei medici e ginecologi statunitensi non soltanto è un convinto sostenitore della pratica ma esegue diagnosi preimpianto sulle donne che ogni anno ricorrono alla fecondazione assistita per avere figli nel suo studio. Proprio per questo la sua testimonianza è ancor più sbalorditiva: «Da tempo ormai – ci spiega – vado sostenendo, appoggiato dall’Asrm, che non c’è alcuna prova evidente che lo screening preimpianto aumenti le possibilità di successo nelle gravidanze a seguito di fecondazione in vitro. Ecco perché sarebbe un errore gravissimo quello di continuare, come medici, a illudere le nostre pazienti e, quel che è peggio, far correre loro rischi inutili». Rischi per le pazienti, menzogne dei medici: eppure le varie tecniche della diagnosi preimpianto, anche nel nostro Paese, continuano a essere proposte come metodo sicuro per aumentare i successi nelle gravidanze da procreazione assistita... «È dimostrato da diversi studi compiuti negli Usa – continua Schattmann – che lo screening su una sola cellula di un embrione non può essere il fattore in base al quale decidere se quello sarà "normale" o "anormale". Il risultato del test in pratica, non prova nulla circa il futuro di quell’embrione: il che è confermato dagli errori diagnostici della pratica, che sono da considerarsi intorno al 10% sia per quanto riguarda i falsi positivi (anormali secondo il test, sani in realtà) sia per i falsi negativi (sani secondo il test, anormali nei fatti). Tutto questo senza contare i danni che il prelievo stesso di materiale cellulare può causare e spesso causa all’embrione e alla madre: l’impiego della tecnica ha dimostrato più volte di incidere sulle riuscita della gravidanza». Dati allarmanti, lontani anni luce dalla favola dei figli sani a colpo sicuro e della tutela della salute della donna di cui si parla nel nostro Paese, e che negli Usa (forse non solo lì...) hanno molto a che fare con gli interessi economici dei centri e delle cliniche che praticano la tecnica. È lo stesso Schattmann a sottolinearlo: «Per la pratica dello screening preimpianto, cliniche e centri statunitensi chiedono dai 5 mila ai 7 mila dollari – spiega con pragmatismo tutto americano–. Se si pensa che a oggi negli Usa il 10% delle procedure di fecondazione assistita è accompagnato da test genetici, e che di questi l’80% consiste in screening, il conflitto di interessi insito nella "raccomandazione" sempre più frequentemente fatta alle donne è presto spiegato». Una raccomandazione tanto lontana dalla realtà da costringere Schattmann, quando una donna si presenta nel suo studio, a dirle con onestà: «Se il suo obiettivo è quello di avere un bambino sano ricorrendo alla fecondazione assistita, la sua migliore chance di ottenere questo scopo sarà di non ricorrere allo screening preimpianto». E quando la donna gli obietta che lui è un convinto sostenitore della diagnosi preimpianto, Schattmann replica: «Lo sono, è vero. Ciò non toglie che io debba agire rispettando la deontologia del mio mestiere di medico: che, al di là di ogni interesse commerciale, mi impone di dire la verità sull’inutilità e i rischi di questa tecnica». Sorprendente, per i canoni italiani. E infatti: qualcuno ha letto una sola riga di tutto questo sui nostri giornali? Avvenire, 14 novembre 2007
 
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