Thomas Jefferson: lo schiavista che proclamò il diritto alla libertà
Thomas Jefferson (1743-1826) è stato definito l'americano qualunque. Uno dei suoi primi biografi, James Parton, scrisse nel 1847: "Se Jefferson ha torto, l'America ha torto. Se l'America ha ragione, Jefferson ha ragione". Parton era sulla pista giusta. Una recente visita alla sua villa, Monticello, sopra Charlottesville, in Virginia, ha confermato questo giudizio. Il saggio di Monticello conosceva i conflitti interni che hanno afflitto l'America e definiscono la modernità. Le loro origini culturali discendono dalle contraddizioni fra l'Illuminismo enciclopedico e il principio di analogia di san Tommaso. Alcuni suggeriscono come ponte fra i due la "laicità cristiana".
Jefferson non era un filosofo sistematico. Si descriveva come un "materialista, non come uno spiritualista". Anche Karl Marx, il suo contemporaneo molto più giovane, era un materialista, un cosiddetto hegeliano di sinistra. A partire dal suo sedicesimo anno Jefferson aderì al razionalismo di Francesco Bacone, John Locke e Isaac Newton. I loro ritratti sono appesi nel salone di Monticello. Jefferson li nominò "la mia trinità, composta dai più grandi uomini che il mondo abbia mai prodotto (...) che hanno gettato le fondamenta delle scienze fisiche e morali". Jefferson applicò il loro metodo scientifico all'indagine religiosa. Da un certo punto di vista è giustificato perché il ragionamento scientifico e quello religioso sono piuttosto simili: entrambi si concentrano sulla realtà. Tuttavia, il rigoroso metodo di indagine sostenuto da Bacone nella sua opera Novum organum e adottato da Jefferson, è inapplicabile persino per la scienza perché, come insisteva John Henry Newman, sia il teologo sia lo scienziato naturalista devono impiegare metodi di ricerca che si occupino della presenza di fenomeni improbabili, ossia di quelle scoperte fattuali senza precedenti in matematica. Nell'applicazione universale di Bacon, Jefferson era più rigido di quanto perfino gli standard scientifici lo autorizzassero a essere. Jefferson era anche un impegnato utilitarista. Questa etica era condivisa dai liberali laici e da molti marxisti, fra cui Trotsky. Il difetto più grave di Jefferson fu il suo rifiuto di un'etica teologica. Ciò conferma il giudizio che fa di lui "un uomo incostante nelle sue idee e nel suo approccio". L'utilitarismo giudica la giustezza di un'azione dal contributo che essa apporta all'aumento della felicità umana o alla diminuzione della miseria umana. Nulla sovrasta questo assioma morale, né la legge di Dio, né la legge naturale, né il "sentimento morale". L'unica equazione presa in considerazione riguarda le conseguenze remote e immediate di certi tipi di azione. I suoi principi permisero a Jefferson di approvare o disapprovare un'azione basandosi esclusivamente sul suo aumentare o diminuire la felicità dei cittadini dell'"impero della libertà". Questa visione imperiale oscurò agli occhi degli americani la luminosità del buono e del vero nel loro continente un tempo incorrotto. Lo sventramento delle Montagne Rocciose durante la corsa all'oro nel Colorado nel 1858 e oltre, mi ricordò con durezza l'utilitarismo fallimentare del Destino Manifesto, le cui origini furono duplici: l'acquisto di Jefferson nel 1803 del territorio della Louisiana dalla Francia napoleonica e la missione affidata a Lewis e a Clarke di esplorare l'ovest oltre il fiume Mississippi. Jefferson definì quella vendita un'espansione dell'"impero della libertà", intendendo con ciò un impero di proprietari terrieri anglosassoni stanziatisi nel nuovo territorio. Il suo "impero" permise una vasta espansione sia della schiavitù africana sia dello sterminio culturale dei nativi americani. Anthony F. C. Wallace, un antropologo, ritiene che le contraddizioni ideologiche e politiche di Jefferson siano osservabili soprattutto nei suoi atteggiamenti verso gli indiani americani. "Riguardo ai nativi americani, Jefferson appare sia come un estimatore dotto del carattere, dell'archeologia e della lingua indiani sia come l'autore del loro genocidio culturale, l'architetto della politica di rimozione, l'ispettore della Pista delle Lacrime". Contrariamente a quanto si è pensato in passato, l'atteggiamento distruttivamente aggressivo del governo degli Stati Uniti verso i primi popoli americani iniziò nell'era di Jefferson e non in quella di Jackson. Nella sua Dichiarazione del 1776 Jefferson delineò il profilo della nuova nazione definendo gli indiani americani "spietati selvaggi". Non sorprende dunque che Wallace affermi che "questo apostolo della libertà americana aveva un temperamento profondamente tendente al controllo". Quale presidente utilitarista, Jefferson aveva un'idea della giustizia che derivava dall'interno della tradizione liberale. A causa dei suoi timori per la vita della neonata repubblica americana e del suo desiderio di ottenere terre indiane a quasi qualsiasi costo, era sfavorevole al "progetto di civilizzazione" per gli indiani. Wallace conclude così il suo ironico ritratto di Jefferson: "Se Jefferson è stato colpevole di insincerità, doppiezza, ipocrisia nelle questioni relative agli indiani, va detto che la sua disonestà e la sua spietatezza politica hanno costituito un'arma nella sua lotta per garantire la sopravvivenza degli Stati Uniti come repubblica governata da proprietari terrieri anglosassoni". Jefferson condivideva anche l'ottimismo illuministico nella capacità illimitata della "ragione pura", che egli considerava "al di sopra della storia". La sua adesione alla ragione fu così assoluta che non si rese conto della crisi che si profilava nella filosofia occidentale, l'aspetto temporale dell'essere o il mistero della cosa nel tempo. La crisi fu figlia naturale dell'illuminismo. Ignaro della mediazione della storia nel pensiero e confidando soltanto su un razionalismo miope e arrogante, nel 1804 cominciò nel tempo libero a censurare il Nuovo Testamento, arrivando fino a pubblicare la notoria Bibbia di Jefferson, un testo pieno di omissioni. Chiese che sulla sua lapide venisse ricordata la sua paternità della Dichiarazione di Indipendenza, dello Statuto della Virginia per la libertà religiosa e dell'Università della Virginia. A questi atti effettivamente storici ne andrebbe aggiunto un altro: la sua riconciliazione con John Adams iniziata e conclusa mediante la loro corrispondenza finale dal 1812 al 1826. Esaminerò il primo di questi atti in questo articolo e gli altri tre in seguito. Jefferson fu autore del documento fondante della Repubblica americana, la Dichiarazione di Indipendenza del 1776. Scrisse: "Noi riteniamo che le seguenti verità siano di per se stesse evidenti; che tutti gli uomini sono stati creati uguali, che essi sono dotati dal loro Creatore di alcuni diritti inalienabili, che fra questi sono la Vita, la Libertà e la ricerca della Felicità". Inoltre, nel giustificare l'assunzione per gli Stati Uniti dello status di nazione indipendente, Jefferson fece riferimento alle "leggi della natura e al Dio della natura". Questa visione politica è il pilastro dell'identità americana. Qual è la risposta cattolica a questa dichiarazione?
Per i cristiani il suo appello al "Dio della creazione" è teologicamente sconclusionato. Antitrinitario inflessibile Jefferson non confrontò mai il suo credere nel "Creatore" che chiamò "Dio della natura", con l'alto assioma medievale secondo cui la possibilità di una libera creazione esiste solo nella realtà della Trinità. Un Dio non trinitario non potrebbe essere il Creatore. L'uomo non potrebbe percepire se stesso come dono che viene offerto. San Tommaso D'Aquino e san Bonaventura affermarono che la libertà, divina o umana che sia, non esisterebbe senza il mistero della Trinità. L'amore intratrinitario di Dio è così completo in sé che Dio non ha bisogno di un essere extra-divino da amare. San Tommaso scrive: "Dio, il Padre, attua la creazione mediante il suo Verbo, che è il Figlio, e mediante il suo amore, che è lo Spirito Santo. E così le processioni delle persone sono i modelli (rationes) della produzione di creature in quanto includono gli attributi essenziali, conoscenza e volontà". Altrove scrive: "La processione delle persone è anche, in un certo qual modo, la causa e il modello (ratio) della creazione". La creazione del Padre si può ottenere liberamente soltanto per la gloria del Suo Verbo e per la gloria dello Spirito Santo che è il vincolo di amore nel Dio Uno e Trino. Su cosa si basa l'idea di libertà di Jefferson? Lo storico Richard Hofstadter ha scritto che il folclore moderno "presume che la democrazia e la libertà siano tutt'altro che identiche e quando gli scrittori democratici si prendono il disturbo di fare delle distinzioni, generalmente presumono che la democrazia sia necessaria alla libertà. Tuttavia, i Padri Fondatori pensavano che la libertà alla quale erano più interessati fosse minacciata dalla democrazia. Nella loro mente la libertà non era legata alla democrazia, ma alla proprietà". Infatti, Hofstadter sostiene che la feroce rivalità fra i grandi partiti politici abbia camuffato una realtà fondamentale: la loro base comune nella "proprietà e nell'impresa". Quanto è lontana l'analisi di Hofstadter della simbiosi fondamentale fra democrazia e proprietà secolari americane dal seguente scritto dei neo-marxisti Antonio Negri e Michael Hardt? "Marx ed Engels rappresentavano lo stato come il comitato esecutivo che amministra gli interessi dei capitalisti. Con questa espressione intendevano dire che, malgrado l'azione dello stato potesse occasionalmente ostacolare gli interessi più immediati dei singoli capitalisti, nel lungo periodo esso avrebbe sempre preso le parti del capitalista collettivo, ossia del soggetto collettivo del capitale sociale considerato nel suo complesso". Entrambi i punti di vista gettano la luce della verità sui recenti interventi del Federal Reserve Board of the United States nella crisi dei derivati di credito. Secondo Peter S. Ornuf, uno storico, Patrick Henry, George Washington e Benjamin Franklin fecero delle speculazioni sul territorio occidentale. Thomas Jefferson, speculatore più cauto, possedette interessi in trentacinquemila acri di territorio occidentale. Queste speculazioni svolsero un ruolo significativo nelle politiche statunitensi rivolte agli indiani. Un fatto significativo su Jefferson è che la grande retorica della Dichiarazione e la concretizzazione della stessa furono contraddittorie. Divenire consapevoli di questa contraddizione è doloroso, doloroso in maniera insopportabile. La sua pratica della schiavitù contraddisse senza alcuna speranza la sua visione politica. Non smise mai di conciliare i suoi principi morali con il suo possesso di centinaia di uomini, donne e bambini schiavi. I vasti e incantevoli giardini e parchi di Monticello erano manutenuti da schiavi africani. Sebbene sostenesse eloquentemente i "diritti inalienabili" di ogni uomo alla vita e alla libertà, una forma di distorto ottimismo gli impedì di riconoscere il male mostruoso del suo possesso di schiavi e di pentirsene. La ragione, il suo "arbitro di verità", lo aveva abbandonato. La sua "nuova fede", fondata su un meccanismo universale, scientificamente determinato, lubrificato dall'olio lenitivo del progresso storico, era un sentimento squallido e volgare che lo rese incapace di affrontare la cultura schiavista. Quando ho visitato la sua piantagione, sono passato davanti alla spartana stanza sotterranea in cui Sally Hemings, una schiava, viveva come capo-cuoca. Era sorellastra di Martha Jefferson, la moglie del presidente. Gli storici concordano in generale sul fatto che, dopo la morte della moglie, divenne padre di uno o più figli di Sally. Al di là della casa padronale a Mulberry Row, ci si imbatte in ciò che resta di piccole baracche composte da un solo locale dal pavimento lercio con ciminiere di legno. Questi ripari ospitarono le famiglie schiave di Jefferson fino al 1827 quando vennero vendute in un'asta pubblica insieme al mobilio della villa per pagare i debiti che lasciò alla sua morte. Un giorno freddo e ventoso in cima alla montagna della Virginia improvvisamente rese grottesco quel monumento storico nazionale. Qualcosa non andava. I mattoni della villa, le sue cornici toscane intagliate e la sommità ornamentale dell'edificio di traformarono da espressioni di bellezza in accuse. La deturpazione morale del loro proprietario assunse un aspetto fisico. La sua villa di trentacinque stanze, circondata dalle montagne, con le sue armonie palladiane divenne una trappola. Mentre ci si bea della simmetria architettonica, dell'ordine, dell'equilibrio e dello spazio della villa, affiora un ricordo terribile: alla morte di Jefferson più di 100 schiavi, uomini, donne e bambini, alcuni di quali si dichiaravano suoi figli naturali, furono messi in vendita sul mercato degli schiavi. Nel corso della sua vita vendette centoventi "schiavi preziosi" e concesse la libertà solo a sette. Con il testamento non liberò gli altri. L'utilitarismo di Jefferson gli permise di organizzare il proprio "mondo" in un modo disumano. ? irrefutabile: fu un alienato. Come può aver sostenuto questa disaffezione interiore? Esistono vari e ulteriori motivi. La sua identità "epicurea" era una specie di narcotico intellettuale e morale. Modellò la sua lista di diritti umani, "vita e libertà" sulla falsariga di quella di John Locke di vita, libertà e proprietà. Tuttavia, Jefferson sostituì la "ricerca della felicità" con la "proprietà". Si definì "un epicureo" aggiungendo eccentricamente di essere "un autentico (...) e vero discepolo del nostro maestro Epicuro". In seguito, fece anche riferimento al Syntagma di Gassendi, che secondo Charles B. Sanford riscattò "l'idea di Epicuro dalle errate interpretazioni libertine sottolineando che, sebbene la felicità fosse lo scopo della vita, essa si poteva ottenere solo mediante l'auto-disciplina e uno stile di vita nobile, non certo mediante l'autoindulgenza". Il suo esagerato numero di schiavi non si adatta a questo tentativo di revisionismo. Sebbene numerosi edifici siano stati ricostruiti e/o ristrutturati, nessuno dei ricoveri per gli schiavi è stato ricostruito perché un atto del genere da parte della Thomas Jefferson Foundation sarebbe un esempio di educazione alla diseguaglianza. Nella scissione fra pensiero e pratica disumana Jefferson incarnò le forze e le debolezza dell'illuminismo americano. John Quincy Adams ha colto correttamente il carattere del terzo presidente americano: "il signor Jefferson non possedeva spirito di martirio". Nel 1814 respinse sdegnosamente la richiesta di un più giovane vicino della Virginia di dare il suo sostegno pubblico alla causa antischiavista. Nella sua assoluta devozione alla ricerca della ragione Jefferson perse fatalmente il "si prende nell'essere presi" di sant'Agostino. Jefferson e altri fondatori americani rifiutarono volontariamente di impegnarsi nella lotta contro la schiavitù. La dominazione oppressiva di una mathesis universale (scienza assoluta) infuse nei responsabili politici della nuova Repubblica una cultura di morte che ha portato molti americani oggi a "vivere in una fucina di morte". La visita a Monticello mi ha lasciato disorientato per l'inutilità del vasto spazio sotto la fastosa cupola e mi ha indignato per l'ingresso decorato curiosamente con uno sconcertante osso fossile, un orrendo e incombente orologio a muro, terribili corna ramificate, drappi di pelli di animali, una statua di marmo chinata davanti a un caminetto e altre cose del genere. La stanza sembra più una caverna dall'alto soffitto in cui "il vento spazza via tutto in una sola volta" che l'accogliente ingresso di una casa. Questa villa sulla cima della montagna non sembra essere stata concepita come un luogo di "luce", ma come un posto di guardia da cui controllare e sfruttare gli schiavi. Il suo padiglione ricostruito vicino a Mulberry Row, che domina giardini terrazzati, suggerisce questa interpretazione. L'architettura concentrica e il disegno di Monticello sono forme di controllo sociale. Manca l'indifferenza essenziale della bellezza. Una delle grandi ironie della storia americana è che la ragione assoluta ha incatenato Jefferson. Il movimento abolizionista contro la schiavitù emerse nel 1803 dal Secondo Grande Risveglio del Cristianesimo e non da quanti proclamavano con Jefferson che "la ragione di ognuno deve essere il suo oracolo". I cristiani evangelici dovettero rendere il popolo americano consapevole del male della "libera" autonomia inconsistente di Jefferson. Nel lungo periodo la "cultura" americana immaginata dalla Dichiarazione di Indipendenza di Jefferson si rivelò individualistica, volontaristica e libertaria. Essa racchiuse la libertà americana nella proprietà e nell'autoaffermazione. Di conseguenza, negli anni Trenta del 1800 emerse l'individualismo politico-culturale della democrazia jacksoniana e negli anni Settanta dello stesso secolo apparve il potente individualismo economico dell'Età dell'Oro. In particolare, nel 1787 la libertà proclamata nella Dichiarazione si rivelò inefficace nel proteggere dalla disumanizzazione i membri più vulnerabili della società americana, gli africani. Nel 1808, la libertà della Dichiarazione dovette confrontarsi con il regolare commercio degli schiavi americani. Quello stesso anno Jefferson con la sua firma trasformò in legge un progetto che proibiva quel traffico. Perché allora non si celebra il bicentenario della firma del presidente? La risposta è ovvia: la legge si rivelò totalmente inefficace e Jefferson sapeva che lo sarebbe stata quando la firmò. Nel 1820, con il compromesso del Missouri, la libertà della dichiarazione si dimostrò nuovamente inefficace nel difendere l'umanità non solo degli afro-americani, ma anche dei nativi americani. Ciò che Robert Frost celebrò come "Il dono totale" in occasione della cerimonia di insediamento di John F. Kennedy nel 1961, fu un eufemismo poetico per il "destino manifesto" di un "popolo" autoconsacratosi "predestinato" per giustificare la sua occupazione del continente americano, "la patria che verso occidente si andava formando". Frost disse giustamente che "prova del dono furono molte guerre" culminanti nell'espropriazione coatta delle tribù native. Per le società dei nativi americani le politiche di Jefferson condussero alla "pista di lacrime" di Jackson che in generale si è dimostrata disastrosa. Infine, con la scellerata decisione sull'aborto del 1973 la libertà di Jefferson è stata svergognata da un altro poeta che lotta contro l'indicibile: "qualcuno che sarebbe potuto nascere è morto".
(?L'Osservatore Romano - 25 aprile 2008 di James Francis StaffordCardinale arcivescovo emerito di DenverPenitenziere Maggiore ; di )
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