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La rivoluzione comunista da Lenin a Stalin.
Di Francesco Agnoli - 22/04/2008 - Storia del Novecento - 4102 visite - 0 commenti

Trattandosi di un tema spinoso e difficile, che raramente si trova affrontato con una certa attenzione e organicità nei testi più comuni, ho ritenuto opportuno procedere ad una ricostruzione in parte schematica, che aiuti a districarsi nella complessità dell'argomento, fornendo alcuni punti certi, inequivocabili, a partire dai quali sia poi possibile approfondire l'indagine.

 La rivoluzione russa fu una rivoluzione di pochi, un colpo di stato realizzato da una minoranza, preparato però dallo scontento e dall'insoddisfazione dei più.

E' il compimento di grandi sommosse contro il regime zarista, a partire da quella del 1902 e del 1905. -1) scontento di milioni di poveri contadini, ferocemente avversi nei confronti dei proprietari terrieri (latifondisti e kulaki);

-2) scontento dell'esercito, costituito da circa 10 milioni di contadini, stanco delle sconfitte e contrario alla guerra;

-3) scontento degli operai, che costituiscono appena il 3% della popolazione attiva e vivono nelle città (c'è una Russia operaia e cittadina e una Russia contadina e campagnola);

 -scontento di nazionalità minori che chiedono autonomia o indipendenza dall'impero dello zar.

Febbraio 1917: dopo 5 giorni di manifestazioni operaie e l'ammutinamento di alcune migliaia di uomini nella guarnigione di Pietrogrado l'impero zarista cade (abdicazione di Nicola II Romanov, che più avanti verrà condannato a morte, come Luigi XVI).

Dal 2 marzo al 25 ottobre si susseguono tre governi provvisori (l'ultimo guidato dal socialista rivoluzionario Kerenskij), che ereditano i problemi del vecchio regime ma propongono un rinnovamento democratico, sognando di fare della Russia il "paese più libero del mondo": vengono promulgate le libertà tipiche delle costituzioni liberali, il suffragio universale, per avvicinarsi alle costituzioni degli Alleati Francia ed Inghilterra. Ma rimanevano irrisolti i due grandi problemi: la terra e la pace.

 Da parecchi anni la Russia era piena di circoli, partiti, associazioni, che professavano idee varie, ma comunque contrarie al regime zarista:

-Partito cadetto o liberale, di ispirazione borghese, per la trasformazione della Russia in uno stato analogo alla Francia e all'Inghilterra;

 -anarchici bakuniani;

-socialisti rivoluzionari, forti soprattutto nel mondo contadino;

-socialdemocratici: costoro si divisero presto tra bolscevichi ( e cioè coloro che sono in maggioranza) e menscevichi (coloro che sono in minoranza).

I bolscevichi erano di ispirazione marxista: prevedevano dunque di realizzare la dittatura del proletariato e la nazionalizzazione delle terre e delle industrie. Non erano più numerosi di altri, ma più agguerriti, meglio organizzati: il leader era Lenin; accanto a lui spiccavano per importanza Troski e Stalin. Si distinguevano soprattutto per le parole d'ordine "terra e pace", per gli incitamenti contro i grandi proprietari terrieri e per la propaganda contro la guerra ed in favore della diserzione; inoltre appoggiavano l'idea di dare "il potere ai soviet". I soviet (:consigli) erano organizzazioni di democrazia diretta, di due specie: -soviet operai: consigli di fabbrica che esigevano un controllo operaio e quindi democratico sulle fabbriche, controllando assunzioni, licenziamenti, orari, al posto dei padroni, dei proprietari; -soviet di soldati: consigli, comitati di soldati che esigevano "il potere ai soldati", arrivando a ricusare singoli ufficiali, a eleggerne di nuovi, a ingerirsi nella strategia militare. Negli ufficiali vedevano spesso il corrispettivo dei proprietari terrieri, odiosi padroni di cui sbarazzarsi.

Esiliato dalla Russia, ritornatovi nell'aprile del 1917 con l'appoggio dei tedeschi che speravano così di destabilizzare il nemico russo, Lenin fu l'uomo che decise e progettò il colpo di stato bolscevico nella notte tra il 24 ed il 25 ottobre del calendario russo, spingendo anche i suoi compagni, incerti e timorosi, all'azione immediata. Occorre promettere pace e terra e ce la faremo, diceva; ma dobbiamo prendere tutto il potere noi bolscevichi, senza coinvolgere tutto il Congresso panrusso dei soviet, in cui erano rappresentate anche le altre forze socialiste non in linea col partito bolscevico (che presto diverrà Partito Comunista, PCUS). Il colpo di stato, la Grande Rivoluzione socialista d'ottobre, e cioè l'assalto al Palazzo d'Inverno, sede del governo, vide dunque una partecipazione limitata: poche migliaia di soldati, marinai di Kronstadt, Guardie Rosse di Troskj e poche centinaia di militanti bolscevichi dei comitati di fabbrica (soviet operai). Tutto fu facile, senza spargimento di sangue.

Al II Congresso panrusso dei soviet Lenin riuscì a far passare la creazione del nuovo governo bolscevico, il Consiglio dei commissari del popolo, presieduto da Lenin (tra i commissari, l'equivalente dei ministri, c'erano Troskj alla guerra e Stalin alle nazionalità). Sulla Prava, il giornale del partito, si poteva leggere: “Vogliono che assumiamo il potere da soli …Ebbene assumiamo il potere da soli, basandoci sulla volontà del paese e contando sull’aiuto del proletariato europeo. Ma, assunto il potere, avremo la mano di ferro con i nemici della rivoluzione e con coloro che la sabotano”. Occorreva ora realizzare “il sogno di tutti i rivoluzionari russi”, la creazione di una Assemblea Costituente, eletta democraticamente dopo secoli di dispotismo zarista. Le elezioni si tennero il 12 novembre 1917, ma si rivelarono un fallimento per il partito bolscevico, surclassato dai socialisti rivoluzionari, ben più radicati nel tessuto contadino, nelle campagne, al di fuori, cioè, della classe operaia di Mosca e Pietrogrado. Lenin non trovò che il problema fosse grave: ordinò che un gruppo di marinai armati invadesse l’aula. Il Parlamento era vissuto per 24 ore, il tempo di una farsa: la rivoluzione diveniva sempre più proprietà privata della minoranza bolscevica, senza la “volontà del paese” .

Per arginare il malcontento si provvide a mantenere le vecchie promesse: pace e terra. Iniziarono infatti le trattative per la pace, che avrebbero portato all'armistizio di Brest Litovsk nel marzo 1918; molte terre furono espropriate ai latifondisti e ai contadini benestanti, i kulaki: in realtà i bolscevichi avrebbero voluto nazionalizzarle, ma capirono che per il momento occorreva ascoltare le richieste dei contadini, che aspiravano a divenire piccoli proprietari, che concepivano la rivoluzione come spartizione delle terre, non come statalizzazione delle stesse. Per quanto riguarda le fabbriche, per quanto i bolscevichi avessero proclamato "tutto il potere ai soviet", ben presto queste istituzioni furono subordinate al partito bolscevico: il potere ai soviet si trasformò in potere del partito sui soviet; il controllo operaio sulle fabbriche fu ben presto scartato a favore della nazionalizzazione delle fabbriche (e delle banche), e cioè del controllo dello Stato, cioè del partito, sulle imprese ed i lavoratori. Il partito sarebbe divenuto il centro di tutto, un’entità mistica, assoluta, sacrale: “Il partito ha sempre ragione. -affermò Troskij – Si può avere ragione soltanto col partito e attraverso il partito perché la storia non ha creato altri mezzi per la realizzazione di ciò che è giusto”.

La fine della guerra aprì però le porte alla guerra civile , in tre fasi, come Lenin aveva previsto ed auspicato:

 1) per Lenin e Troski occorreva difendere la rivoluzione dai suoi nemici; occorreva usare il pugno di ferro, come aveva fatto Robespierre, contro i "nemici del popolo": in questo modo venivano chiamati tutti coloro che si opponevano ai bolscevichi, non solo gli odiati borghesi (guerra di classe; Lenin affermava: “guerra e morte ai ricchi e ai loro reggicoda, gli intellettuali borghesi…ripulire il suolo della Russia di qualsiasi insetto nocivo”), ma anche gli altri gruppi socialisteggianti, come ad esempio gli anarchici, che criticavano la formazione di uno stato autoritario, i socialisti rivoluzionari, i menscevichi, vecchi compagni di strada non più utili…A tale fine vennero istituiti, come ai tempi della Rivoluzione francese, a cui Lenin spesso si richiamava, dei "tribunali rivoluzionari" ed in particolare la Ceka, la polizia politica per la lotta contro la reazione, la controrivoluzione, la speculazione ed il sabotaggio. In un discorso del dicembre ai delegati del Comitato esecutivo centrale dei Soviet, il commissario del popolo per la Guerra, Troskj, ammonì: “In meno di un mese il terrore prenderà forme violentissime, sull’esempio di quanto accadde nella Grande Rivoluzione Francese. Per i nostri nemici non prepareremo più soltanto la prigione, ma la ghigliottina, notevole invenzione della Grande Rivoluzione, che ha il vantaggio riconosciuto di accorciare gli uomini di una testa”. In effetti le prodezze della Ceka furono notevoli: “a Veronezh, i prigionieri nudi erano fatti rotolare dentro barili irti di chiodi, a Poltava, i preti erano impalati; a Odessa, gli ufficiali bianchi catturati venivano legati a delle tavole e infilati lentamente dentro le fornaci; a Kiev, fissavano ai corpi dei prigionieri delle gabbie piene di ratti, che venivano scaldate, finchè gli animali, per scappare, non rosicchiavano le vittime” (C. Andrei, L’archivio Mitrokhin, Rizzoli, 1999).

 2) Oltre a questi nemici interni occorreva che i bolscevichi si difendessero anche dai tentativi di restaurazione del regime zarista da parte dell'Armata bianca monarchica, appoggiata anche da francesi, inglesi, americani, italiani, tutti timorosi che il contagio comunista potesse diffondersi anche nei loro paesi. Contro l'Armata bianca si schierò l'esercito comunista, l'Armata Rossa di Troski, che risultò vincitrice, dopo una grande incertezza iniziale, verso la fine del 1920: la vittoria portò con sé la deportazione in Siberia e l'eliminazione di circa 400-500mila cosacchi, schieratisi con i bianchi ( è la cosiddetta "decosachizzazione").

3) La lotta interna, sanguinosa e dispendiosa, determinò nel 1918 l'introduzione del comunismo di guerra: squadre di operai (ma anche di contadini più poveri) furono inviate nelle campagne a requisire le derrate alimentari necessarie per la sopravvivenza delle popolazioni cittadine; e ciò non solo nei confronti dei contadini più benestanti, come in teoria si diceva di fare, ma di tutti. I contadini, che nel 1917 avevano appoggiato i bolscevichi ed erano poi rimasti contenti per la divisione delle terre, si vedevano ora depredati della gran parte del frutto del loro lavoro ("ma come? Prima ci avete dato le terre ed ora ce ne togliete il frutto"). Il comunismo di guerra, durato dal 1918 al 1921, scatenò una vera guerra contadina contro il governo bolscevico, colpevole, inoltre, di aver introdotto una vasta coscrizione obbligatoria; si formarono bande di contadine, detti i "Verdi", anche di 20.000 uomini, contrarie sia ai bianchi che ai rossi: il governo, tramite la Ceka, rispose con il terrore rosso . La reazione contadina (Lenin la chiamava "la nostra Vandea") fu domata solo nel 1922, anche grazie ad una grande carestia, che determinò la morte di circa cinque milioni di persone. In conclusione si può affermare che la vittoria finale dei bolscevichi fu permessa soltanto dal disaccordo esistente tra le varie anime dell’opposizione e dalla disorganizzazione degli eserciti contadini.

Nel 1921 venne inaugurata la NEP, la nuova politica economica necessaria per rilanciare l’economia prostrata del paese. Infatti, come scrive Gianni Rocca, in seguito al comunismo di guerra “la rivoluzione era ancora una volta minacciata dalla fame: le campagne abbandonate in bibliche migrazioni da 35-40 milioni di contadini alla ricerca di cibo, i negozi delle città privi di derrate alimentari, torme di bambini abbandonati dai genitori, frequenti episodi di cannibalismo…”. La Nep fu segnata dall'abbandono del comunismo di guerra, delle requisizioni, e dall'introduzione di una moderata libertà lasciata all'iniziativa privata: le grandi industrie, nazionalizzate dopo la rivoluzione d'ottobre, rimanevano dello stato, ma da ora i contadini, gli artigiani e le piccole imprese con meno di 20 lavoratori, potevano agire liberamente, vendere e commerciare i loro prodotti, non essere sottoposte integralmente al controllo statale. La NEP ammetteva, insomma, la proprietà privata, era una parziale concessione ad una economia di mercato, ma Lenin e altri bolscevichi ritenevano potesse essere solo una fase di passaggio, in attesa della nazionalizzazione di tutto e quindi dell'abolizione totale della proprietà e dell'iniziativa dei privati. La NEP, che si presentava dunque come una sorta di economia mista, garantì effetti positivi ed una certa pace, fino al 1928 circa, ma era colpevole, agli occhi di Stalin, succeduto a Lenin (1924) nel controllo del Partito e quindi dello Stato, di aver favorito il riformarsi di proprietari privati, nel commercio, nell'artigianato e nella finanza, e soprattutto di aver permesso la rivitalizzazione dei kulaki, i contadini agiati, le "sanguisughe", i "borghesi rurali".

Così nel 1928 finì la tregua tra governo e mondo contadino; iniziò, per così dire, il secondo round della lotta contro la proprietà privata agraria: era la ripresa dello scontro con i kulaki, attuata già tra il 1918 ed il 1921 col comunismo di guerra; era la realizzazione del progetto di nazionalizzazione, non solo nel campo industriale, ma anche agrario. I kulaki, che rispetto ai contadini dell’Europa libera erano in realtà dei semindigenti, in possesso, spesso, di non più di due o tre cavalli ed altrettante mucche, tornavano ad essere i "ricchi", gli oppressori, che andavano "sterminati in quanto classe": è la cosiddetta "dekulakizzazione" (1930-1932) , che portò all'eliminazione fisica o alla deportazione in massa nei campi di lavoro, i Gulag, dei kulaki e di quei contadini in genere che si opponevano alla collettivizzazione, e cioè alla cessione della propria proprietà agricola: tutte le aziende private furono accorpate e dettero vita ai sovkoz (la terra era di proprietà statale) ed ai kolchoz (aziende cooperative, di proprietà comune; dal 1935 i membri avevano a disposizione un piccolo appezzamento privato ). Tali aziende vengono inserite nei piani di produzione, con obbligo di consegna dei prodotti al prezzo fissato dallo Stato; permettono, inoltre, un ammodernamento dell’agricoltura, che viene sempre più meccanizzata, e il passaggio, in pochi anni, di 20 milioni di agricoltori all’attività industriale.

Oltre alla dekulakizzazione ed al collettivismo forzato della terra, Stalin perseguì una industrializzazione accelerata del paese (anche perché sosteneva che se l'URSS non si fosse rafforzata sarebbe stata schiacciata dalle nemiche potenze occidentali), tramite i piani quinquennali (il primo va dal 1928 al 1932; 1933-1937…), il cui presupposto è la nazionalizzazione dell'industria e della terra, cioè dei mezzi di produzione. In breve l'URSS divenne una grandissima potenza economica, seconda solo a USA e Germania, anche se il potenziamento si ebbe soprattutto nel campo dell'industria pesante, siderurgica, del carbone, degli armamenti, e non certo nel campo dei beni di consumo. Tale obiettivo fu raggiunto con giornate lavorative lunghissime, fino a 56 ore settimanali (mito del minatore Stakhanov, da cui "stakanovismo"), salari bassi, licenziamento obbligatorio anche per una sola assenza ingiustificata dal lavoro, pena di morte contro i furti di merce, divieto di abbandonare il proprio domicilio, utilizzazione di lavoratori coatti (kulaki, oppositori del regime, delinquenti comuni…) che nei gulag realizzavano canali, ferrovie, fabbriche previsti nei piani quinquennali. In questi campi di lavoro, dove morirono anche molti italiani, fuggiti dall’Italia fascista convinti di trovare in Russia il paradiso dei lavoratori, finirono anche parecchi vecchi compagni di partito di Stalin; altri, come Kamenev, Zinovev, Bucharin, Jagoda ecc. pur essendo “amici” della prima ora, furono sterminati nel corso delle celebri purghe staliniane, eliminazione, con processi farsa, di uomini della vecchia guardia bolscevica, di funzionari del partito e di ufficiali dell’Armata Rossa, accusati a vario titolo di tradimento . Il dispotismo faraonico del dittatore arrivò fino al punto di far ammazzare da un sicario, a colpi di piccone, anche il fondatore dell’Armata Rossa, Troski, già fuggiasco in Messico. Del resto, come racconta Eugenio Corti, in una tragedia dedicata al dittatore georgiano, anche la sua vita familiare fu funestata da incredibili crudeltà.

La seconda moglie Nadia Allyluieva, in principio fervente comunista, si suicidò, terrificata dalle notizie che arrivavano dalla campagna riguardo alla dekulakizzazione. Il figlio Jakov tentò di uccidersi “sparandosi un colpo che lo ferì solo leggermente”, e in seguito al quale il padre ebbe a chiedergli: “E così, hai fatto cilecca?” (G.Rocca, op.cit.); anni più tardi caduto nelle mani dei tedeschi e rinnegato dal padre si sarebbe suicidato.Di quattro cognati due vennero fucilati, mentre quattro cognate vennero deportate…: “Era così isolato da tutti – scrive la figlia Svetlana, in Venti lettere a un amico – così portato alle stelle, che intorno a lui si era formato il vuoto: non aveva nessuno con cui scambiare una parola”. Eppure viveva confortato dalla sua speranza: un mondo giusto che avrebbe dovuto nascere, che si ostinava a non nascere per l’invidia, l’egoismo, la cattiveria dei più, di coloro che non volevano capire, e che andavano per questo eliminati. Anche Robespierre, per imporre le sue idee politiche e religiose, il mitico Robespierre, aveva dovuto sterminare i Vandeani, punire alcune città francesi, innalzare nel centro di Parigi quel marchingegno immenso e freddo che tagliava, a migliaia, le teste degli oppositori. Con Stalin stavano i partiti comunisti d’Europa, nati dalla scissione all’interno dei partiti socialisti: la Russia era la terra promessa e Stalin, come Mosè, vi aveva portato un popolo. Questa era la fede.

Certo, qualcuno, rileggendo Marx ed Hegel, si stupiva di alcune incongruenze: come aveva potuto realizzarsi il comunismo proprio in Russia, nel paese più arretrato, o quasi, d’Europa, dove la classe borghese esisteva appena e dove il proletariato industriale era pressoché inesistente? Eppure Marx aveva detto che ciò sarebbe potuto accadere solamente nei paesi più industrializzati, dove più forte era lo scontro tra operai e borghesia: in questo, a suo dire, stava la “scientificità” del suo pensiero, il socialismo scientifico, la differenza col pensiero degli utopisti, incapaci di leggere nelle leggi della storia. Qualcuno, come Andrè Frossard, figlio del primo segretario generale del partito comunista francese, poteva chiedersi come mai, dopo l’instaurazione del comunismo, continuasse ad esistere un esercito, l’Armata Rossa, come in qualsiasi stato borghese, laddove si era sempre proclamato che, risolto il problema economico, vi sarebbe stata la fine di ogni guerra e di ogni militarismo; come mai la religione venisse perseguitata violentemente, mentre avrebbe dovuto crollare da sola, di fronte all’evidenza dei fatti, non servendo più a nessuno, in un mondo nuovo e giusto, “l’oppio dei popoli”, quell’oppio che solo nelle società borghesi aveva una ragion d’essere; come mai, per farla breve, il paradiso dei lavoratori era pieno di prigioni, di polizie segrete, di commissari governativi, di ospedali psichiatrici, di corsi di rieducazione, di spie…? Un vero comunista poteva accettare queste cose solo come un momento di passaggio, un esigenza dei tempi, ma non come la normalità, per anni, di tutti i giorni: dov’era, per dirla ancora con Frossard, “la gioia di esistere in un mondo che sarebbe diventato così bello, la felicità di convincere, di veder tanta gente sfilare verso la città fraterna, che si scorge nel futuro della storia; una città indicata col dito, e verso la quale spinge un uragano di profezie”?. E la fine dello Stato, prevista dall’ortodossia , la fine, cioè, dell’ultimo possessore di proprietà privata, dell’ultima, necessaria ma temporanea, ingiustizia sociale? Rimandata a quando? Stalin non dava l’idea di volerla perseguire… Ma dopo tanto orrore anche la morte del grande dittatore sarebbe stata terribile. Il suo maestro, Lenin, nell’ultimo periodo della sua vita, aveva avuto una paralisi del braccio e della gamba destri, grave sclerosi delle arterie cerebrali, tanto che al cervello non arrivava la necessaria quantità di sangue e di ossigeno, e, infine, lui che con una frase poteva decidere della vita di milioni di persone, aveva perso l’uso della parola (vedi R.Clark, Lenin, Bompiani, 1988).

La morte di Stalin sarà incredibilmente simile, quasi gravasse, sul maestro e sul discepolo, la stessa maledizione: “Un ictus lo folgorerà, facendolo stramazzare al suolo, paralizzandogli il lato destro del corpo e privandolo dell’uso della parola…” (vedi G.Rocca, Stalin, Mondatori, 1988). Ecco come una figlia descrive gli ultimi momenti della vita di Stalin: “Nelle ultima dodici ore fu ormai chiaro che la fame di ossigeno cresceva. Il volto si scuriva e si alterava, gradualmente i suoi lineamenti diventavano irriconoscibili, le labbra si facevano nere. Nell’ultima ora o nelle ultima due egli andò semplicemente soffocando. L’agonia fu spaventosa, Strangolava un uomo sotto gli occhi di tutti. In quello che sembrò essere l’ultimo momento aprì gli occhi all’improvviso e abbracciò con lo sguardo tutti coloro che si trovavano nella stanza. Aveva uno sguardo terribile, folle o forse irato, e pieno di paura della morte…Poi avvenne qualcosa di tremendo e di incomprensibile, qualcosa che non sono ancora riuscita a capire e a dimenticare. A un tratto sollevò la mano sinistra come se indicasse qualcosa in alto e ci lanciasse una maledizione. Era un gesto incomprensibile e pieno di minaccia…” (vedi Svetlana, figlia di Stalin, in Venti lettere ad un amico). (tratto da : Francesco Agnoli, Conoscere il Novecento, La storia e le idee, Il Cerchio

 
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