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La farsa dei plebisciti.
Di Angela Pellicciari - 19/04/2008 - Storia del Risorgimento - 2588 visite - 0 commenti

Per avere l’appoggio delle potenze liberali la conquista sabauda della penisola italiana deve salvare le apparenze. Deve cioè sembrare frutto della giustizia e del diritto. E’ letteralmente quello che scrive lo storico massone Giuseppe La Farina a Filippo Bartolomeo: «È necessario che l’opera sia cominciata dai popoli: il Piemonte verrà, chiamato; ma non mai prima. Se ciò facesse, si griderebbe alla conquista, e si tirerebbe addosso una coalizione europea». Il re Vittorio Emanuele - scrive La Farina - dice: «io non posso stendere la mia dittatura su popoli, che non m’invocano, e che collo starsi tranquilli danno pretesto alla diplomazia di dire che sono contenti del governo che hanno».

A cose fatte, a conquista ultimata, per rafforzare la propaganda della legittimità dell’intervento i liberali ricorrono all’invenzione napoleonica dei plebisciti. Tutta la popolazione è chiamata a scegliere liberamente se essere annessa o meno al Piemonte. Colossale truffa quella dei plebisciti. Per rendersene conto basta ricorrere a due fonti autorevoli appartenenti per di più ai due opposti schieramenti: quello liberale e quello cattolico. Mi riferisco al Memoriale di Filippo Curletti -stretto collaboratore di Cavour e capo della polizia politica- e alla prestigiosa rivista dei gesuiti Civiltà Cattolica. Oltre che funzionario di polizia Curletti è complice e mandante di una banda torinese di malviventi. Rifugiatosi in Svizzera da dove apprende la condanna in contumacia, Curletti si vendica pubblicando le proprie memorie. Ecco come il poliziotto rievoca lo svolgimento dei plebisciti a Modena: «Ci eravamo fatti rimettere i registri delle parrocchie per formare le liste degli elettori. Preparammo tutte le schede per le elezioni dei parlamenti locali, come più tardi pel voto dell’annessione. Un picciol numero di elettori si presentarono a prendervi parte: ma, al momento della chiusura delle urne, vi gittavamo le schede, naturalmente in senso piemontese, di quelli che si erano astenuti.

Non è malagevole spiegare la facilità con cui tali manovre hanno potuto riuscire in paesi del tutto nuovi all’esercizio del suffragio universale, e dove l’indifferenza e l’astensione giovavano a maraviglia alla frode, facendone sparire ogni controllo». Il capo della polizia politica prosegue: «In alcuni collegi, questa introduzione in massa, nelle urne, degli assenti, - chiamavamo ciò completare la votazione, - si fece con sì poco riguardo che lo spoglio dello scrutinio dette un numero maggiore di votanti che di elettori inscritti». Le cose vanno diversamente nelle altre regioni? A parere di Curletti no: «Per quel che riguarda Modena, posso parlarne con cognizione di causa, poiché tutto si fece sotto i miei occhi e sotto la mia direzione. D’altronde le cose non avvennero diversamente a Parma ed a Firenze». La Civiltà Cattolica segue l’evento plebiscitario con corrispondenze da tutte le capitali italiane. Scegliamo il resoconto relativo alla Toscana perché è un buon esempio di spensierata e divertente goliardia. In Toscana, dunque, una pressante campagna di stampa dichiara “nemico della patria e reo di morte chiunque votasse per altro che per l’annessione. Le tipografie toscane furono poi tutte impegnate a stampare bollettini per l’annessione: e i tipografi avvisati che un colpo di stile sarebbe stato il premio di chi osasse prestare i suoi torchi alla stampa di bollettini pel regno separato. Le campagne furono inondate da una piena di bollettini per l’annessione.

Chiedevano i campagnuoli che cosa dovessero fare di quella carta: si rispondeva che quella carta dovea subito portarsi in città ad un dato luogo, e chi non l’avesse portata cadeva in multa. Subito i contadini, per non cader in multa, portarono la carta, senza neanche sapere che cosa contenesse”. E dire che Salvemini accuserà Giolitti di essere il “ministro della malavita”. Non bisogna aspettare Giolitti perché le elezioni in Italia siano truccate: ciò succede dall’inizio. La propaganda di regime racconta la favola buonista del re democratico e disinteressato che rispetta la volontà dei popoli. Immediatamente prima dello svolgimento dei plebisciti Vittorio Emanuele II indirizza ai Popoli dell’Italia meridionale il seguente proclama: «Le mie truppe si avanzano fra voi per raffermare l’ordine: Io non vengo ad imporvi la mia volontà, ma a fare rispettare la vostra. Voi potrete liberamente manifestarla: la Provvidenza, che protegge le cause giuste, ispirerà il voto che deporrete nell’urna». Forte del favorevolissimo risultato plebiscitario, il 7 novembre 1860 il Re dichiara: «Il suffragio universale mi dà la sovrana podestà di queste nobili province. Accetto quest’alto decreto della volontà nazionale, non per ambizione di regno, ma per coscienza d’italiano». Questa leggenda dura ancora oggi.

 
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