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Due sempici idee sull'ars medica, logos e caritas
Di Francesco Agnoli - 01/04/2008 - scienza - 1368 visite - 0 commenti

La medicina, come ogni altra scienza, nasce da un atto di fede nella ragione, nel Logos, nella possibilità cioè di risalire dagli effetti alle cause, seguendo un filo logico, causale e non casuale.

Per questo la sua patria è anzitutto la Grecia, che fa dell’idea di ordine e di armonia della natura il fondamento delle sue riflessioni filosofiche. Per Ippocrate, come nota Michelangelo Pelàez, “il divino si manifesta nella regolarità stessa delle leggi naturali”. Analogamente Galeno si ispira al finalismo platonico e al principio di Aristotele secondo cui “la natura non fa nulla invano”, riconoscendo dunque come base dell’indagine medica la fiducia nel senso e nell’ordine della realtà, l’idea di cosmos contrapposta a quella di caos. Nulla a che vedere dunque con la realtà come illusione, propria della filosofia induista, o con lo scetticismo gnoseologico di un David Hume. Ma perché la medicina si sviluppi veramente, oltre ad un riconoscimento pieno del Logos, occorre anche quello della Caritas. Diversamente da altre scienze, infatti, essendo una scienza “applicata” all’uomo, la medicina non risponde solo al desiderio infinito di conoscenza, ma affronta anche il cuore della natura corporale, la sua fragilità e finitezza. Se infatti il desiderio di conoscere è innato, perché risponde alla nostra natura razionale, la misericordia e la pazienza, virtù rispettivamente del medico e del malato, richiedono invece, spesso, uno sforzo, una fatica, perché combattono con la natura umana decaduta. Ebbene, non è un caso che la medicina sorga, dopo l’alba greca, nella Cristianità, in cui il Logos incontra la Caritas, prende una carne che patisce e si fa “infermo tra gli infermi”. “Curate infirmos” è il comandamento straordinariamente nuovo di Cristo, antitetico ad un ideale di liberazione dualista o spiritualista; un comandamento che va insieme all’esortazione ad annunciare la Verità. Il Logos manifesta dunque se stesso nella Carità, e chiede che ogni uomo faccia altrettanto, facendosi prossimo, nel corpo e nello spirito: veritatem facientes, in caritate. Per questo assistenza ai poveri, ai malati, agli orfani, sono sin dall’origine nel cuore della Chiesa, e proprio per questo l’Italia e l’Europa saranno la culla di ospizi, xenodochi, ordini ospedalieri, confraternite e ospedali, che sorgono in tutto il medioevo sulle vie dei pellegrini, oltre che delle università di medicina, dalla Schola medica di Salerno, alle università pontificie di Bologna e Ferrara, sino all’università di Padova, nelle quali nascerà, appunto, la medicina moderna. La carità verso i poveri e i malati, sin dal Medioevo, è così importante che il re stesso, in Francia ed Inghilterra, è anche taumaturgo: San Luigi di Francia, ad esempio, incontrava e benediceva scrofolosi e malati tutti i giorni, dopo la messa, alloggiava a palazzo e nutriva i ritardatari e poiché tra i “malati che venivano a chiedere ai re la guarigione si trovavano molti bisognosi”, i re inglesi e francesi provvidero, sino all’età moderna, con grande generosità, al loro mantenimento ( M. Bloch, I re taumaturghi). Il sommo potere regale era dunque legato, nella mentalità di quell’epoca, al servizio, e chi era capo era chiamato a prendersi cura della abiezione e della miseria dei ultimi.

Ma l’esempio più interessante storicamente della carità medievale, che esploderà ancor più dopo il Concilio di Trento, con le figure di Camillo de Lellis, Giovanni di Dio e Vincenzo de Paoli, è l’ospedale di Santo Spirito, istituito a Roma con la protezione dei papi, e “vero precursore dell’assistenza ospedaliera e sociale” moderna. I suoi statuti, tramandati nel famoso Liber Regulae Sancti Spiritus ci dicono quanta fosse l’attenzione verso il dolore fisico dell’uomo. Santo Spirito era un ospedale organizzato in modo straordinario, con un reparto di maternità, un brefotrofio, il baliatico, la ruota per i bambini abbandonati, il gerontocomio, il lazzaretto, il pronto soccorso… I frati che vi operavano, in grande povertà, si consideravano “servi” del loro “signore”, il malato, in cui vedevano lo stesso Cristo sofferente; giravano periodicamente per la città con una specie di carriola per raccogliere malati e poveri nelle vie e nelle piazze; provvedevano ad affidare, se possibile, i trovatelli presso famiglie che li adottassero ed accoglievano le prostitute, in alcuni periodi dell’anno, nelle loro case, specie su esortazione di Innocenzo III, che aveva elargito speciali indulgenze a chi le avesse sposate e le avesse così ricondotte ad una vita dignitosa.

Qui, a Santo Spirito, avrebbe fatto il suo tirocinio anche Camillo de Lellis, qualche centinaio di anni più tardi, dopo aver abbandonato la sua vita di mercenario e di giocatore incallito. Mentre san Filippo Neri, suo confessore, invitava i giovani sbandati di Roma, col celebre detto “state buoni se potete, tutto il resto è vanità”, Camillo esortava i suoi frati a domandare la grazia a Dio di ottenere un “affetto materno verso il prossimo infermo”, per poterlo servire, con carità, sia nell’anima che nel corpo. Migliaia di persone, da allora, lo avrebbero seguito, in mezzo ad ogni difficoltà, sino alle persecuzioni dei sovrani assolutisti e di Napoleone, sino alla rinascita. Sempre, per quanto possibile all’uomo, col carisma dell’amore, che rende anche l’occhio del clinico, dello scienziato, più acuto e penetrante, perché gli fa intravedere, dietro il corpo, l’anima, e il peso anche morale della sofferenza. Perché la sapienza del medico, senza la carità, è come la cultura del maestro, senza l’amore per i discepoli: un cembalo vuoto, che tintinna.

 
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