L'esodo dei giuliano-dalmati dopo la II Guerra Mondiale
(ci scrive lo storico Marco Ceschi) In questi giorni, come accade da 3 o 4 anni (2004, istituzione della Giornata del Ricordo – 10 Febbraio), torna d’attualità il dramma delle Foibe e dell’Esodo che coinvolse migliaia di italiani della Venezia Giulia, dell’Istria e della Dalmazia.
Gli argomenti da trattare, approfondire e chiarire sarebbero ancor oggi numerosissimi: in pochi conoscono l’esatto svolgimento dei fatti, la loro contestualizzazione, la loro conclusione ed i risvolti politico-storiografici che per più di cinquant’anni hanno determinato un quasi totale silenzio sui tragici accadimenti del nostro Confine Orientale.
Affrontare in sintesi tali vicende nella loro totalità e complessità non credo sia umanamente possibile: si rischierebbe infatti di fare più danno che altro alla storia ed alla memoria di chi quei fatti li ha vissuti e ne conserva a tutt’oggi un doloroso ricordo, gli Esuli.
Per questo tratterò molto brevemente del destino che toccò a più di 300.000 persone costrette a lasciare la propria terra, le proprie radici, i propri beni per aver scelto di restare Italiani – scelta che non avrebbero mai potuto vivere nel contesto statuale della Nuova Jugoslavia di Tito – e dell’‘accoglienza’ loro riservata in Italia.
Già dal 1947 il governo italiano aveva allestito dei veri e propri Centri di Raccolta Profughi (la Risiera di San Sabba a Trieste era tra questi) gestiti dall’Opera Assistenza Profughi ed inizialmente sovvenzionati dal Ministero per l’assistenza post –bellica, che non saranno chiusi prima degli anni Settanta ma che in alcuni casi continueranno ad ospitare diversi nuclei familiari di origine istriano-dalmata sino ai primi anni Ottanta.
L’Opera Assistenza Profughi Giuliani e Dalmati, che tramite l’apparato prefettizio e comunale gestiva gli aiuti e l’assistenza dei Centri Raccolta Profughi, era emanazione diretta del Comitato Nazionale Rifugiati Italiani, patrocinato tra gli altri da Alcide De Gasperi, Ferruccio Parri, Ivanoe Bonomi, personaggi questi appartenenti a schieramenti politici diversi ma mossi dagli stessi valori civili, religiosi, di carità e solidarietà e che speravano di coinvolgere il maggior numero possibile di cittadini, in quanto lo Stato da solo non sembrava in grado di affrontare l’emergenza.
Parallelamente a quella statale si sviluppò anche una solidarietà che traeva linfa dalla Pontificia Opera di Assistenza, da donazioni di grossi industriali che fornivano ciò che producevano e dai comitati locali sorti in diverse città.
In diversi casi però le attenzioni e le risorse riservate ai profughi non erano accolte volentieri dagli autoctoni; soprattutto nel caso triestino dove gli abitanti della città non potevano non vedere i profughi come “gente di passaggio”, colpevole in quel periodo di aggravare la già non facile situazione che la capitale giuliana si trovava ad affrontare, divisa com’era tra governo Alleato, presenza italiana e minaccia jugoslava.
Quando la “provvisorietà” immaginata dai triestini iniziò ad assumere la forma più definitiva di “stanzialità”, l’astio e la diffidenza verso gli esuli aumentarono sensibilmente fino a provocare quello che è stato poi ribattezzato “l’esodo triestino verso l’Australia”.
Anche nelle altre regioni d’Italia gli Esuli erano spesso visti di cattivo occhio in quanto, oltre ad aggravare le difficoltà economiche post-belliche, erano presi di mira dalla propaganda del Partito Comunista che li accusava di fascismo e li attaccava in quanto avevano abbandonato la Jugoslavia Titina che appariva agli occhi dei compagni italiani come una sorta di paradiso in terra.
Una volta giunti in Italia, alcuni Esuli rinunciarono agli aiuti offerti dalle organizzazioni statali preferendo andare alla ricerca di amici o parenti disposti ad ospitarli. Chi invece si affidava alle opere di pubblica assistenza era sottoposto ad accurati interrogatori da parte degli ufficiali statali per la sicurezza, durante i quali il profugo poteva portare ogni tipo di testimonianza circa la sua origine, per ottenere infine un documento con cui presentarsi nei centri profughi che fornivano vitto e alloggio temporaneo.
Dopo un periodo più o meno lungo in questi centri di smistamento, interi nuclei familiari o singoli individui erano indirizzati nei veri e propri Centri Raccolta Profughi dove venivano dotati di un posto letto o di un “box” abitativo; in entrambi i casi le condizioni di vita per l’esule risultavano molto precarie.
Ancora nel 1956, il questore di Trieste segnalava in una nota al Commissario generale del governo che il freddo intenso dell’inverno aveva colpito drammaticamente i campi per esuli di Padriciano, Villa Opicina e Prosecco.
La situazione economica italiana alla fine degli anni ’50 spinse il governo a tentare di rendere meno precaria la posizione dei profughi: vennero così proposti corsi specialistici per elettricisti, agricoltori o allevatori, al fine di favorire l’occupazione e una progressiva indipendenza economica degli ospiti dei campi.
Altre iniziative prevedevano invece l’insegnamento dell’inglese, cui seguiva la visita di personale diplomatico straniero (canadese e australiano soprattutto) allo scopo d’incentivare e favorire la possibile emigrazione.
Rimasero però ancora molto scarse le condizioni igieniche a causa delle difficoltà nello smaltimento dei rifiuti, specie nella stagione estiva. Per porre rimedio a ciò si pensò di dotare tutti i campi di personale medico permanente.
Condizioni igieniche scarse, sovraffollamento, promiscuità degli alloggi, erano i principali motivi, assieme al sussidio garantito per sei mesi a chi lasciasse il campo, che facevano dell’abbandono dei campi e del trasferimento in un’abitazione vera la principale attrattiva di ogni profugo.
Vero è che, perché questo si potesse realizzare, era necessario che uno o più componenti del nucleo familiare trovassero un’occupazione fissa per potersi poi permettere le spese d’affitto, luce, gas e riscaldamento che il trasferimento fuori dai campi comportava.
In questa ricerca di stabilità e indipendenza gli ospiti erano aiutati da diversi enti (E.C.A di Trieste – G.M.A) che promossero la costruzione di quartieri e case popolari da destinare, a condizioni molto favorevoli, proprio agli esuli dei campi profughi.
Furono proprio le politiche di questi enti a indicare anche ai governi la nuova via da seguire nella questione Centri Raccolta Profughi, ossia l’abbandono di una strategia assistenzialistica a vantaggio di progetti finalizzati al reinserimento nel tessuto sociale di singoli e famiglie.
L’Opera Assistenza Profughi diventando interlocutrice principale dello stato progettò e realizzò dal nulla “Quartieri Istriani” nei quali si trovavano scuole materne ed elementari, convitti femminili o per orfani, abitazioni popolari e i servizi principali.
Molti profughi infine, viste le difficoltà d’inserimento nella realtà italiana e le attrattive d’Oltreoceano, preferirono la strada dell’emigrazione. Viaggi interminabili che avevano come meta paesi diversi per lingua, tradizioni e costumi, ma che potevano offrire stabilità, tranquillità economiche e soprattutto la possibilità di ricominciare una nuova vita senza portarsi addosso le “colpe” dell’esodo.
Ancora oggi in Australia, Sud Africa, Argentina e Canada esistono comunità molto numerose di esuli giuliano-dalmati che, pur avendo rinunciato a tutto non accettano ancora di rinunciare alla memoria e al ricordo dei fatti che li coinvolsero in maniera così drammatica più di cinquant’anni fa.
Marco Ceschi
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