La giornata della memoria secondo Sergio Romano
Quando venne in discussione alle Camere la legge che ha istituito anche in Italia la «giornata della memoria», il solo parlamentare contrario al provvedimento, se non ricordo male, fu Lucio Colletti, studioso del marxismo, filosofo della politica e comunista per alcuni anni, ma fondamentalmente liberale e infine deputato di Forza Italia per due legislature sino alla morte. Al suo posto, anch'io avrei votato contro quella legge. Temevo che il genocidio ebraico avrebbe occupato gran parte dello spazio celebrativo aperto da quella data e scatenato una sorta di corsa alla memoria da parte di tutti coloro che si sarebbero sentiti esclusi o insufficientemente ricordati. Temevo che la ricorrenza avrebbe creato i «professionisti della memoria», vale a dire una categoria di studiosi che si dedicano prevalentemente a questo esercizio. E temevo gli eccessi di retorica e di conformismo che questo esercizio avrebbe provocato.
In modo diverso e con diverse motivazioni le vostre lettere mi sembrano confermare le mie previsioni. Esistono ormai, non soltanto in Italia, i professionisti della memoria antifascista, della memoria anticomunista, della memoria anticolonialista e della memoria antirazzista. Ciascuno di essi ricorda le proprie vittime o quelle provocate dall'ideologia nemica, ma tende inevitabilmente a dimenticare o trascurare le vittime che non portano acqua al mulino della sua specializzazione. Ho l'impressione che queste giornate della memoria abbiano avuto due conseguenze negative.
In primo luogo stiamo perdendo di vista le principali caratteristiche della storia del Novecento. Dimentichiamo che l'Europa e l'Asia, dopo la Grande guerra e la rivoluzione bolscevica, furono teatro di un gran numero di guerre civili fra il comunismo e il nazionalismo esasperato dei movimenti radicali, più o meno violenti, che vengono raggruppati, un po' semplicisticamente, nella categoria dei «fascismi». I due contendenti si comportarono spesso alla stesso modo. Non appena riuscì a prevalere e a instaurare il proprio regime, ciascuno di essi decise che la vittoria sarebbe stata completa e sicura soltanto se fosse riuscito a liquidare o neutralizzare tutti i suoi nemici, veri o presunti, reali o potenziali. Così fece Lenin con l'ondata di terrore che si abbatté sulla Russia sovietica nei primi anni del regime. Così fece Stalin quando annientò ogni potenziale voce discordante all'interno del regime. Così fece Mussolini, anche se in forma molto meno radicale e cruenta, dopo il 1926. Così fece Hitler contro i socialdemocratici, i comunisti, gli ebrei, gli zingari e i dissidenti religiosi. Così fece Franco quando continuò a perseguitare e a eliminare la componente repubblicana della società spagnola. Così fecero Mao in Cina, Ho Chi-minh in Vietnam, Suharto in Indonesia, Tito in Jugoslavia e la dirigenza dei partiti comunisti nei Paesi satelliti dell'Urss dopo la Seconda guerra mondiale. Quanto all'espulsione degli ebrei russi verso la Siberia, programmata da Stalin nel suo ultimo anno di vita, è probabile che il dittatore sovietico li considerasse infidi e, soprattutto dopo la nascita di Israele, la possibile «quinta colonna» di uno Stato straniero. La tesi secondo cui la sua morte sarebbe stata provocata da un complotto filoebraico, caro Di Nisio, non è documentata ed è frutto, probabilmente, di una larvata forma di giudeofobia. In secondo luogo abbiamo permesso che la storiografia venisse degradata a strumento di lotta politica e che gli eventi del passato divenissero munizioni per le battaglie di oggi. Gli storici dovrebbero essere i primi a respingere questo uso partigiano e fazioso della loro disciplina.
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