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La 194, una legge ipocrita.
Di Francesco Agnoli - 13/12/2007 - Aborto - 1257 visite - 0 commenti
Si avvicina l’anniversario della 194 ed è facile immaginare che il dibattito rinascerà infuocato. Per intanto una certa discussione c’è già negli ambienti cattolici pro life. Internet pullula di articoli e di prese di posizione, in cui spesso si finisce per scadere nel personale e nell’insulto. Mi permetto di inserirmi allora nel dibattito, per ricordare quella che ritengo sia la posizione cattolica. La 194 nasce in Italia in un certo clima culturale, di fronte al quale i cattolici al governo ritengono che non sia necessario neppure limare ed emendare una legge troppo aperta, anche per chi legittima l’aborto in casi estremi, per renderla meno ampia e permissiva, e questo benché la stessa Corte costituzionale abbia richiesto al legislatore di predisporre “le cautele necessarie per impedire che l’aborto venga procurato senza seri accertamenti della realtà e gravità del danno o pericolo che potrebbe derivare alla madre dal proseguire della gestazione”.
La realtà è che la 194 si caratterizza per essere la legge più ipocrita dell’orbe, forse proprio perché sottoscritta da cattolici: si intitola “Norme a tutela della maternità” e permette l’aborto, nei primi novanta giorni con assoluta libertà; nasce dalla sedicente volontà di combattere gli aborti clandestini, e invece diminuisce le pene previste per tale reato; dichiara di tutelare la vita dal suo inizio, e, oltre a legalizzare l’aborto, omette di prevedere qualsiasi vera e concreta modalità per attuare una prevenzione di esso, per aiutare le coppie in difficoltà, per rendere consapevole la donna di quello che andrà a compiere; mette l’accento sulle possibili conseguenze psicologiche di una gravidanza, quasi fosse un’esperienza contro natura, lasciando intendere che l’aborto possa configurarsi come salutare e salvifico, e tralascia di sottolineare le sue conseguenze nefaste sulla psiche e sul fisico della donna (conseguenze oggi sempre più evidenti e catalogate come psicosi post aborto, stress post aborto e sindrome abortiva).

Inoltre la 194 afferma di non concepire l’aborto come metodo di regolazione delle nascite, ma non pone nessun limite al numero degli aborti di una stessa donna, lasciando così che avvenga proprio ciò che si dice di contrastare. Infine nega di avere possibili esiti eugenetici, mentre in concreto permette l’eliminazione di un bambino “malato”, qualsiasi sia la sua malattia, foss’anche un labbro leporino o due dita del piede attaccate. Una legge insomma, ingiusta nella sostanza, ipocrita e inapplicabile nelle sue buone dichiarazioni di principio. Un altro aspetto negativo della 194 è che ha consacrato l’idea che la madre sia proprietaria del feto che ospita nel suo grembo e che il padre sia personaggio assolutamente inutile, non tanto perché non può opporsi all’aborto, quanto perché viene deresponsabilizzato integralmente, in tutti gli istanti del rapporto affettivo, dal momento che permettere l’aborto separa sin dall’origine il padre dalle sue responsabilità. Per questo dunque la 194 mi sembra una legge contro la vita, dei concepiti, delle madri e dei padri, e una castrazione di questi ultimi e della vita di coppia rettamente intesa. La 194 infatti realizza perfettamente quel rischio che l’enciclica Humanae Vitae attribuiva alla contraccezione, spingendo all’infedeltà coniugale, alla sottovalutazione dell’importanza del rapporto carnale e a considerare la donna “come semplice oggetto di godimento egoistico”. E’, insomma, una vera legge contro la donna, dal momento che ne fa l’unica responsabile di un compito, la maternità, che andrebbe invece vissuto e portato, sin dall’origine, in due. Oggi, a sentire i benpensanti, la responsabilità del maschio è ridotta alla sua volontà o meno di usare il preservativo, e l’uomo, così animalizzato e sminuito, si regola di conseguenza, scindendo sesso e amore: l’utero è tuo, gestiscitelo pure tu, con le eventuali nascite, gli eventuali aborti, e i traumi fisici e psichici che ne deriveranno. Se così stanno le cose, non rimane che fare tutto il possibile perché la verità sia conosciuta, evitando di lasciarsi irretire da possibili strategie politiche e tatticismi in nome dei quali sacrificare la verità: sia perché non esiste alcun fine che giustifichi i mezzi, sia perché la verità ci rende liberi, sia infine, perché il modello, per un cattolico, è Tommaso Moro e non Machiavelli.

Trovo conferma a queste riflessioni leggendo l’ultimo numero della rivista “Contraccezione, sessualità, salute riproduttiva”, diretta da Emilio Arisi, presidente nazionale dell’Uicemp( da non confondere con l'Ucipem, organizazione cattolica), abortista convinto e uno dei massimi promotori della Ru 486 in Italia. Ebbene in tale rivista la dottoressa Lerda racconta diversi casi di concepimento e di aborto in seguito al fallimento del preservativo. Ci racconta così la storia di Patrizia, una ragazza che sette anni dopo l’aborto “ è diventata insicura e ancora si tormenta…sta ancora con quel ragazzo: non lo ama più, ma non ha il coraggio di lasciarlo. La lega a lui il ricordo del bambino mai nato e della vita che avrebbero potuto avere insieme, ma che per colpa sua non hanno potuto vivere”. L’anno scorso Patrizia ha iniziato un ciclo di psicoterapia, “ma non è ancora pronta a perdonarsi”. Dopo altre storie analoghe la Lerda conclude sull’aborto: “Sia che la donna cerchi di cancellarne il ricordo, sia che continui a sentirne il peso, si tratta comunque di un lutto che si porterà dietro tutta la vita. E’ una scelta che influenzerà anche il rapporto con il partner e con gli eventuali partner successivi, una scelta che peserà nuovamente in caso di altre gravidanze”.
 
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