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L'amico Andrea Tornielli ci manda il suo contributo sull'ultimo numero del Timone, sulla vicenda Luzzatto-Padre Pio.
Molto rumore per nulla. È stato grande lo scalpore suscitato dalla pubblicazione del libro dello Sergio Luzzatto sul santo stimmatizzato del Gargano (Padre Pio. Miracoli e politica nell’Italia del Novecento, Einaudi, pp. 422, 24 euro). Il giovane storico, docente all’università di Torino, ha proposto una lettura «politica» della figura del santo e ha potuto consultare documenti rimasti fino ad oggi inediti, nell’archivio dell’ex Sant’Uffizio. Il volume è documentato ed nel suo complesso serio. Presenta però diverse pecche che rischiano di rendere unilaterale la lettura della figura di Padre Pio. Innanzitutto, una premessa. Luzzatto, nel libro e nelle numerose interviste concesse dopo la sua uscita, tiene a dire che questo è il primo libro di storia di Padre Pio, il primo scritto da uno storico di mestiere.
Ma non si ferma qui. Aggiungendo anche che «di Padre Pio esistono innumerevoli agiografie, totalmente prive di qualsivoglia requisito critico» (p. 9) e che gli agiografi, in «centinaia e centinaia di volumi ricalcati l’uno sull’altro hanno prodotto una narrazione tanto spiritualmente portentosa quanto intellettualmente striminzita» (p. 18). Insomma, tutti coloro che hanno scritto prima di Luzzatto, sarebbero a suo dire da buttare. Cose di nessun valore. Peccato che, invece, quegli agiografi hanno accompagnato i loro lavori con abbondante documentazione, spesso di prima mano. Molte testimonianze sulla vita del santo sono state rese note proprio in quei libri che secondo lo storico, al quale forse difetta un po’ di modestia, sarebbero privi di «qualsivoglia requisito critico». Se si controllano le citazioni (compito questo dello storico), ci si accorge che alcune di quelle che sulla stampa sono state spacciate come novità del suo libro, erano state già raccontate - con meno clamore mediatico - dalle agiografie definite nel libro «intellettualmente striminzite». È curioso poi che proprio per dimostrare la tesi centrale del libro, una lettura tutta «politica» del santo diventato - a detta dell’autore - un’icona del clerico-fascismo, Luzzatto si serva proprio delle testimonianze di un agiografo qual è Emanuele Brunatto, definito dallo storico come un «millantatore»: le citazioni attribuite a Padre Pio su Mussolini («Preghiamo perché la sua vita è in pericolo», avrebbe detto il futuro santo riferendosi al duce fascista», p. 218) sono tratte proprio da una delle primissime biografie, scritte da Brunatto.
Delle due l’una: o Brunatto è un millantatore e tutte le agiografie non hanno alcun valore critico - ma allora perché lo storico le usa, quando fa comodo la citazione? - oppure bisognava riconoscere che qualche buona pagina era stata scritta anche prima di questo volume. Veniamo ora ai due punti principali dell’opera di Luzzatto su cui si è concentrata l’attenzione mediatica. Il primo è il documento del Sant’Uffizio, datato marzo 1921, nel quale si descrivono le testimonianze - datate 1919 - di un farmacista e di una sua cugina (anch’essa farmacista), ai quali Padre Pio chiese di procurargli dell’acido fenico e della veratrina. Il documento del Sant’Uffizio - dove queste accuse vennero attentamente vagliate - era inedito. Ma non era affatto inedita la storia dell’acido fenico. Già padre Paolino da Casacalenda aveva scritto nelle sue memorie (pubblicate nel 1978 dai frati di San Giovanni Rotondo, ma lo storico non le cita in proposito) che «Padre Pio per pulire le ferite ed arrestare il sangue usava l’acido fenico». Luzzatto presenta la questione dilungandosi in diverse pagine. Osserva: «Più che profumo di mammole o violette, odore di santità, dalla cella di Padre Pio erano sembrati sprigionarsi effluvi di acidi e veleni, odore di impostura». Ora, ciò che manca assolutamente nel suo libro è una descrizione sobria e precisa di quali fossero i reali usi dell’acido fenico e della veratrina. Dei quali si parla soltanto in relazione alle giustificazioni addotte dallo stesso frate stimmatizzato, il quale si vergognava delle piaghe e diceva che l’acido fenico gli serviva per disinfettare le siringhe quando faceva le iniezioni ai seminaristi. Qui c’è un dato storico, che meritava di essere approfondito: Padre Pio fu davvero «infermiere» dei seminaristi e fece davvero le iniezioni.
Stiamo parlando del 1919, c’è l’epidemia cosiddetta «spagnola» che solo a San Giovanni Rotondo mieterà duecento vittime. Dunque l’uso del disinfettante per quello scopo era più che giustificato. Ecco invece l’informazione decisiva, mancante sia nel libro di Luzzatto come in molti articoli giornalistici che ne hanno parlato. In un Dizionario dei Medicamenti si legge (Medicamenta - Cooperativa Farmaceutica Milano - VI edizione 1965, p. 3508 e 3509) che l’acido fenico ha «potere antisettico», in passato «fu adoperato da Lister per l’antisepsi operatoria, ma ora è abbandonato» ed è «usato con qualche frequenza nella disinfezione di piaghe e di ferite infette». Lo stesso testo indica che la veratrina, «applicata sulla cute e sulle mucose determina irritazione fortissima (senso di calore, di bruciore ecc.) a cui segue, specialmente se la veratrina è sciolta nell’alcool, o mescolata con grasso, ottundimento della sensibilità». In termini più semplici: era usata come anestetico locale. Disinfezione, attenuazione del dolore: per questo Padre Pio si serviva di quelle sostanze, nel tentativo di contenere l’inspiegabile sanguinamento delle sue stimmate. Piaghe che non erano state provocate dall’acido (al massimo quello, usato non diluito, poteva provocare delle bruciature e scottature, non certo dei fori) e che durarono per cinquant’anni, sempre sanguinanti, senza mai infettarsi o cicatrizzarsi. Da quanto si è letto al momento dell’uscita del libro di Luzzatto, è sembrato che l’unico utilizzo dell’acido fenico, l’unico scopo per cui veniva venduto, fosse quello di permettere ai matti di procurarsi le stimmate! Bisogna poi aggiungere che, non appena fu noto il sospetto che le piaghe del frate rimanessero aperte grazie all’acido fenico, il Provinciale dei cappuccini proibì tassativamente che nel convento di San Giovanni Rotondo vi entrassero quelle sostanze.
Allo storico, spiega Luzzatto, non compete pronunciarsi sulla soprannaturalità delle stimmate. Giusto. Ma sollevare dubbi e sospetti, su una storia superata vecchia di ottant’anni, esaminata accuratamente e vagliata a fondo durante le ispezioni del Sant’Uffizio e poi dai giudici della causa, non è un buon servizio reso alla storia. Se lo storico aveva nuove prove sul fatto che le piaghe fossero auto-procurate, poteva proporle e andare a fondo della cosa. Altrimenti doveva contestualizzare meglio di quanto ha fatto l’episodio. Che così com’è scritto nel suo libro (dove nel titolo di un paragrafo Luzzatto ironizza su Padre Pio «piccolo chimico», p. 126) serve solo a gettare un’ombra sul frate stimmatizzato. Altrettanto grave è il fatto che, nel penultimo capitolo, dedicato al rapporto con Papa Giovanni XXIII, e nelle anticipazioni giornalistiche conseguenti, si sia per lo più giocato con citazioni vecchie: Luzzatto, durante lo speciale TG1 dedicato al suo libro, ha presentato come novità le parole del Papa «buono» che definivano Padre Pio «idolo di stoppa», mentre queste erano state già pubblicate nel 2000 da Saverio Gaeta nel suo Giovanni XXIII, che lo storico non cita, così come non cita la biografia più completa e documentata su Papa Roncalli, quella edita nel 2006 da Mondadori e scritta dal pronipote Marco Roncalli, nella quale tutta la vicenda Padre Pio è trattata con abbondanza di riferimenti documentari. Un libro, quest’ultimo, imprescindibile per chiunque intenda affrontare la figura del Pontefice bergamasco. In questo caso, l’unico vero inedito di una storia già ben nota e abbondantemente pubblicata, è un appunto di Giovanni XXIII nel quale il Papa definisce quello del frate di San Giovanni Rotondo un «grande inganno» e parla di «filmine» che proverebbero i rapporti amorosi di Padre Pio con le donne che da lui si confessavano. Grave, a nostro avviso, è che nelle pagine del libro si Luzzatto (che su quelle «filmine» fa pure il titolo di un paragrafo) non si dica mai chiaramente che il Papa prese un grande abbaglio: non si trattava di filmine - parola che richiama all’esistenza di un video - ma di registrazioni audio, peraltro pessime. Furono messi i microfoni, fu violato il sigillo sacramentale. Il Papa non volle ascoltare e credette a ciò che gli riferirono i collaboratori. Da quelle bobine emergerebbe lo schioccare di un bacio. Si trattava però, come ebbe a spiegare allo stesso Giovanni XXIII l’arcivescovo di Manfredonia Andrea Cesarano, dei baci che le penitenti cercavano di dare alla mano piagata del futuro santo.
Tutto ben acclarato nei 104 volumi della Positio, del processo canonico. Volumi che Luzzatto non cita, forse credendo che quando si fa un processo di beatificazione si mettano in luce solo gli aspetti positivi del candidato agli altari. Quelle pagine sono, invece, una miniera di testimonianze imprescindibili per chiunque voglia conoscere i risvolti della vita di Padre Pio. Infine, un altro dei punti sui quali Luzzatto insiste e s’indigna, è il «denaro sporco» che Emanuele Brunatto, fedelissimo di Padre Pio, informatore dell’Ovra fascista e collaboratore dei nazisti durante la guerra, guadagnò con le sue attività parigine. Il «millantatore» Brunatto, infatti, grazie al mercato nero, vendendo vettovaglie e champagne agli occupanti tedeschi, fece una fortuna. Lo storico ricorda che da questi proventi giunsero i tre milioni e cinquecentomila franchi che permisero l’avvio dei lavori per la grande opera Casa Sollievo della Sofferenza. Vorremmo qui spezzare una lancia in favore di Brunatto, che oltre a elargire quella consistente donazione a Padre Pio per il suo ospedale, spese un milione e trecentomila franchi per aprire una mensa per i poveri nelle stazioni parigine. Insomma, buona parte di quei «soldi sporchi», la cui provenienza indigna lo storico Luzzatto, furono spesi non bene, ma benissimo.