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Accade talora che i miei alunni mi chiedano cosa ne penso di questa o di quella vicenda di sangue o di violenza. Ogni volta, a loro che conoscono persino i dettagli, mi tocca ammettere che non ho seguito gli avvenimenti. Quando avevo vent’anni, o qualcosa meno, dopo una indigestione di romanzi gialli, decisi infatti di non leggere più di omicidi, violenze, malvagità, per non lasciarmi affascinare dal gusto per il male, dalla curiosità disordinata per tutto ciò che è brutto e malvagio. Non volevo, insomma, passare il tempo a fantasticare sulle peggiori azioni umane, come se in esse si potesse trovare un divertimento, un qualcosa di piacevole e appagante. All’uomo, spesso, infatti, piace voltolarsi nel fango, sfruculiare nel male, nelle sue pieghe più profonde, come se esso non fosse, in realtà, terribilmente banale, uguale a se stesso, ripetitivo, e soggiogante. Il sesso fine a se stesso chiede sesso, la lussuria, lussuria, l’egoismo, egoismo, in un circolo infinito.
Eppure, derogando a questa mia decisione, ho letto, in questi giorni, qualche articolo sulla vicenda della povera Meredith, la ragazza assassinata a Perugia. E mi sono reso conto che la sua storia poterebbe essere utile per capire qualcosa. E’ la storia di un piccolo pezzo di mondo, non il “mondo piccolo” di Guareschi, ma il mondo cittadino, cementificato e senza Dio di oggi. Un piccolo pezzo di mondo, dicevo, perfettamente rappresentativo di tanti altri, sparsi qua e là, nelle nostre moderne Babilonie: abitato da giovani inquieti, sradicati, multiculturali, bianchi e neri, italiani e stranieri, tutti vacuamente insieme, alla ricerca del piacere, unico collante della loro momentanea “integrazione”. Gli ingredienti della loro vita sono presto detti: canne, sesso, discoteche, musica, quella musica assordante e continua, chiamata a sostituire il pensiero, e strategie per godere al massimo ogni sensazione ed ogni esperienza. Ingredienti, qui sta la banalità del male, che sono sempre i medesimi. Nel fare il bene, nel vincere le passioni, nel dirsi di no, al contrario, c’è sempre fantasia, originalità, personalità, libertà.
Nelle notti di Amanda, Raffaele, Meredith e compagni, notti in cui si cercava forse di dare un senso al giorno, trascorso invano, c’erano invece la noia, il tedio, l’inquietudine stanca e scialba che sfociano sempre lì, nella schiavitù dei sensi. E i sensi, come dicevo, non hanno libertà né fantasia: vogliono, bramano, desiderano, sempre, ciecamente, senza prospettive, voracemente. Sono a tal punto tirannici che persino di fronte al sangue, alla morte, proseguono nel loro capriccio, ripiegati su se stessi: dopo l’omicidio di Meredith, Raffaele e Amanda hanno continuato a divertirsi, a dedicarsi alle cose più futili e alle cose più grandi, il loro presunto amore, nel modo più futile possibile, mentre Rudy, che aveva con la deceduta una relazione, ma non una simpatia, né amore, è subito andato a passare la notte in discoteca, forse per dimenticare, forse senza neppure sentire questa esigenza. Tutti insomma in movimento, mossi dall’avida voluttà, e dalla disperata noia. Una storia per la quale calzano a pennello le riflessioni di Baudelaire, quando ricordava nella prefazione ai suoi “Fiori del male”, che “nelle cose ripugnanti troviamo delle attrattive; ogni giorno, senza orrore scendiamo di un passo verso l’Inferno”… E parlando del piacere, della voluttà, “divinità pagana”, aveva scritto: “Oh! Non rallentare il tuo ardore; riscalda il mio cuore intorpidito, o voluttà, tortura delle anime. O Dea, diffusa nell’atmosfera, fiamma che arde nel nostro sotterraneo! Esaudisci un’anima assiderata, che ti consacra il suo canto di bronzo…versami il tuo sonnifero potente nel vino informe e mistico, voluttà, fantasma dalle mille forme”. Deve essersi accorto, ad un certo punto, del “sonnifero potente”, della “tortura delle anime” che è la pagana voluptas, anche Raffaele, uno dei protagonisti della squallida vicenda, se sono sincere le parole che ha scritto al padre: “L’unico pensiero di Amanda è la ricerca del piacere, in ogni momento…Ma dopo queste esperienze, credimi papà, non toccherò più una canna in vita mia. Solo ora ho capito cosa significhi passeggiare all’inferno. E prego Dio che non accada più”. Se in tanto male e in tanta tragedia, almeno Raffaele avesse capito “la selva oscura” in cui si era smarrito, la banalità del male di cui si era infatuato, potremmo sperare che sia già iniziata un’altra storia, come per Dante, quando, descritto appena il suo traviamento interiore, aggiunge: “ma per trattar del ben ch’io ritrovai…”, iniziando subito a raccontarci, così, la sua rinascita.