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Se il poeta è colui che porta alla luce, dall'abisso dell'interiorità, ciò che di più essenziale, di più umano vi è in noi, egli non può fare a meno di parlare di Dio. Non gli è possibile. Non sarebbe vero poeta. Sarebbe, al più, un abile verseggiatore, o un venditore di illusioni.
La poesia moderna, umanista, inizia con Petrarca: l'uomo che ama, di un amore troppo carnale, Laura, e l'alloro, la fama e l'onore mondani, alla fine torna a Dio, insoddisfatto, chè la vita gli mostra ogni istante che "quanto piace al mondo è breve sogno". Nel secolo passato, della decadenza, dell'ateismo e del sangue, i costruttori della felicità politica non sono mai poeti: al contrario, giornalisti, saggisti, polemisti…
Scrivono il Mein Kampf, editoriali della Pravda o del Popolo d'Italia, il libretto rosso, esattamente come gli illuministi producevano saggi, enciclopedie, utopie, ma poca poesia e poca arte. Amore, vita, morte, felicità, le uniche cose che contano, vengono accantonate: si discute di economia, rivoluzione, potere… L'orizzonte è sempre e solo terreno, come se Dio, il Mistero, non ci fosse; come se loro stessi fossero Dio. I veri poeti no. Per loro, se Dio non c'è, è finita: regna l'assurdo. Vivono magari nella stessa temperie culturale, prostrati dallo stesso nichilismo, dal medesimo dubbio, dei loro contemporanei, ma non si lasciano comprare da un senso religioso, quello ideologico, adulterato e fasullo, né da speranze meramente terrene. Pensiamo a Leopardi: le "magnifiche sorti e progressive" dell'illuminismo suscitano in lui un profondo disprezzo. Aspira a "interminati spazi, sovrumani silenzi, profondissima quiete", all'infinito del mare… I suoi sono "desideri infiniti", cui cerca una soddisfazione mondana, ma rendendosi sempre conto che non basta. Leopardi aspira a Dio, e lo rifiuta, ma non sostituisce mai, all'Eterno, né se stesso, né il mondo. Per lui infatti "il fine dell'uomo, il suo sommo bene, la sua felicità non esistono"; eppure il cuore "cerca e cercherà sempre sommamente ed unicamente queste cose" (Zibaldone). Leopardi, come scrive Divo Barsotti, "non vive che per domandar conto di sé, per chiedere la ragione della sua vita". Alza gli occhi alla luna, e li abbassa alla terra, e poi di nuovo, di continuo. E' imbevuto di filosofie atee, sensiste, ma non cessa mai di inquietarsi. Non si rassegna ad essere materia inerte, senza scopo. Non lo farebbe neppure se qualcuno gli spiegasse, "scientificamente", che è solo un "refuso" della natura, un evento "casuale", un animale "evoluto".
Così è il cuore: se Dio non c'è, tutto perde significato, e rimane solo "l'infinita vanità del tutto". Per questo tante volte in Leopardi "l'infelicità si fa parola di accusa come in Giobbe, ma più spesso, forse, inconsapevole e segreta preghiera": "Che fai tu luna in ciel, dimmi che fai?". Qualcosa di simile accade anche ai crepuscolari, all'inizio del Novecento. Le promesse e i dogmi del positivismo, l'esaltazione del futurismo, l'interventismo messianico, la religione nazionalista, il nascente contrapporsi tra rossi e neri, sono per loro, da subito, vano agitarsi di sciocchi: a nessuna di queste speranze, da poco, si aggrappano per trovare la salvezza, quella vera. I poveri e tristi crepuscolari vedono spesso molto più in là di tanti contemporanei, osservano disincantati la malattia del secolo, lo smarrirsi dell'uomo: "non so che triste affanno mi consumi/ sono malato e nei miei dì peggiori". Sono versi di Guido Gozzano, il poeta che ha bevuto il "veleno dannunziano": si è nutrito del superomismo, dei versi altisonanti, senza contenuto, puro colore e suono, usciti dalla penna e non dal cuore di D'Annunzio, e ha sognato per sé amori straordinari, "attrici e principesse".
Ma si è accorto che questo desiderio di costruirsi una vita "divina", di essere ad un tempo il popolo che attende ed il Messia che salva, di creare con le parole una splendida cornice al vuoto di significato, inaridisce il cuore e la mente: porta ad una "vita sterile, di sogno", alla delusione più cocente. Sono tristi, questi poveri crepuscolari, che ci parlano spesso di candele consunte, di conventi, di vecchie suore e di chiese buie e deserte. Riconoscono il crepuscolo, anche quello della fede, e ripetono, come Leopardi, la domanda essenziale: "Ed io che sono?". Consapevoli del vuoto, chiedono, come Sergio Corazzini: "perché tu mi dici poeta?". Non aver niente da dire, su di sé e sul mondo, di certo, di vero, di bello: questo è il loro cruccio, la consapevolezza che senza Dio ogni passo è perduto, ogni parola inutile.