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di Anna Foa Quando nel 1988 Benny Morris, il capofila della nuova storiografia israeliana, pubblicò in inglese il suo libro sul problema dei profughi palestinesi — apparso in ebraico solo nel 1991 e in italiano, sia pur in una nuova edizione completamente rivista, con il titolo di Esilio, solo nel 1995 da Rizzoli — il dibattito sulle sue tesi fu subito accesissimo. Morris sosteneva infatti, sulla base di approfondite ricerche negli archivi israeliani da poco resi accessibili — non altrettanto poteva dirsi di quelli palestinesi, per quell'epoca inesistenti, o di quelli degli Stati arabi, chiusi agli studiosi israeliani — che una grossa parte dei profughi palestinesi che lasciarono Israele durante la guerra del 1948 lo fecero perché espulsi con la forza dall'esercito di Israele.
La sua versione, che non coincideva con la vulgata palestinese secondo cui questa espulsione sarebbe stata il risultato di una volontà prederminata del governo di Israele, smontava però anche radicalmente la versione israeliana, secondo cui i palestinesi se ne erano andati spontaneamente o spinti dai loro stessi dirigenti. Lo stupore con cui le tesi di Morris furono accolte in Israele, la durezza delle polemiche suscitate dal suo libro, ci fanno pensare che si trattasse di una conoscenza storica nuova, che si affacciava per la prima volta. Eppure, non era così. Che l'esilio dei palestinesi fosse stato in molta parte tutt'altro che spontaneo era cosa di cui la generazione del 1948, che di quei fatti era stata protagonista, era stata ben consapevole.
E anche più tardi, quando la memoria si era offuscata e la consapevolezza diluita, la rimozione era stata solo parziale. Il dibattito sul 1948 A ricordarcelo viene ora un libriccino di grande interesse, "Brutti ricordi. Il dibattito in Israele sulle espulsioni di palestinesi nel 1948-1949" con saggi di Ephraim Kleiman e Anita Shapira, appena pubblicato dalle edizioni Una città, con una prefazione di Pierre Vidal-Naquet, ultimo scritto del grande studioso, datato due settimane prima della sua morte, nel 2006, e scritto con una viva partecipazione alla questione palestinese e ai percorsi della società israeliana.
Storico da sempre affascinato dalla storia della memoria, Vidal-Naquet ha ritrovato in questo libro un discorso che non tocca tanto i fatti quanto il loro immaginario. Ed effettivamente di questo si tratta: del come, del quanto e del perché Israele ha ricordato. È un volumetto composito, che parte da un testo — e che dobbiamo, se vogliamo leggerlo, cercare nelle edizioni Einaudi — che non è presente nel libro: un lungo racconto pubblicato nel 1949 da un importante narratore israeliano, Samekh Yizhar, "La storia di Khirbet Khiza" — ma il titolo italiano, del 2005, è "La rabbia del vento" — considerato un classico della letteratura, entrato dal 1964 a far parte dei programmi scolastici di letteratura ebraica nelle scuole. In "Brutti ricordi", lungo saggio di una dei maggiori studiosi israeliani del sionismo, Anita Shapira analizza nel tempo, attraverso la fortuna di questo testo, le vicissitudini della memoria del 1948 in Israele. Al suo saggio è accostata una riflessione-testimonianza, scritta nel 1980 da Ephraim Kleinman, un importante economista che da giovane partecipò ad operazioni analoghe a quella descritta da Yizhar in maniera romanzata (Khirbet Khiza, infatti, non esiste, e lo stesso autore è incerto se presentarlo come un caso isolato oppure un simbolo): l'espulsione degli abitanti di un villaggio palestinese e la distruzione delle loro case, e al tempo stesso le diverse reazioni dei soldati, che vanno dall'indifferenza, se non dal sadismo, al dubbio e alla rivolta interiore.
Ma come mai, se un testo forte e duro come quello di Yizhar non solo aveva suscitato polemiche e dibattiti, ma era addirittura entrato fra i testi scolastici, gli israeliani possono essersi stupiti delle conclusioni, basate su fonti documentarie e non su un racconto, ma sostanzialmente concordanti, di Morris e della storiografia cosiddetta post-sionista? Come mai, pur avendo letto il libro a scuola, gli studenti di Anita Shapira restano attoniti rileggendolo nelle aule universitarie? Che percorso ha avuto questa memoria? Il saggio di Shapira ci conduce per mano, attraverso le varie fasi della ricezione di questo piccolo testo, nel fondamentale percorso lungo il quale la società israeliana ha dimenticato il suo peccato d'origine, ha rimosso l'espulsione di centinaia di migliaia di palestinesi. Non di tutti quelli che se ne sono andati, certo, ma di molti di essi. Molti fuggirono per la paura della guerra, una guerra scatenata e voluta dai paesi arabi, ricordiamolo. Altri, come ad Haifa, lasciarono le loro case perché lo vollero i loro capi. Ma altri ancora andarono in esilio perché furono espulsi dall'esercito di Israele, sia nel corso delle operazioni militari che successivamente.
Le loro terre e le loro case furono occupate dai nuovi immigranti, dai profughi ebrei della Shoah, da quelli dei paesi arabi. La memoria di questi fatti fu ondivaga. In una prima fase, quando la conoscenza di quello che era successo era ancora viva nella generazione della guerra del 1948, il dibattito si riferì non ai fatti, ma alla loro necessità storica. Era il discorso del "noi o loro", accompagnato però da intense riflessioni sul cinismo delle giovani generazioni, sulla perdita dei valori dei soldati nel corso della guerra. Più tardi, nel 1978, in una seconda fase del dibattito, che accompagnò l'uscita televisiva di un film tratto dal libro di Yizhar, il dibattito si spostò sull'opportunità politica di raccontare questa storia. Nel frattempo, anche la memoria dei fatti era svanita, o perlomeno si era diluita, nelle nuove generazioni che crescevano, che non avevano partecipato a quegli eventi, con gli ebrei dei paesi arabi che avevano a loro volta conosciuto un'analoga espulsione, con il problema dei territori occupati nel 1967. Reimparare a ricordare Fu così che la società israeliana, ci racconta Shapira, ha potuto ricordare e dimenticare, ricordare e dimenticare di nuovo, e ancora di seguito: "L'espulsione non è mai stata un segreto. Ci sono stati momenti in cui se ne dibatteva più apertamente, ed altri in cui emergeva una posizione più compiacente e farisaica. Preferiamo non ricordare, così come scartiamo quei controversi frammenti di realtà che ci opprimono o scuotono la nostra auto-immagine. Khirbet Khiza è rimasto come 'un ricordo sgradevole' persistente". Per questo, anche se generazioni di studenti hanno letto in classe le parole con cui Yizhar racconta l'espulsione del 1948, ci si può ancora stupire leggendone in un libro di storia. Che Khirbet Khiza sia stato adottato nelle scuole è certamente un grande esempio di apertura. Ma i tortuosi percorsi della memoria offuscano con i veli della rimozione e dell'oblio anche i momenti di coraggio e di sincerità. Ed ogni volta, sembra dirci questo libro, bisogna reimparare a ricordare.
Da "L'Osservatore Romano" di domenica 11 novembre 2007