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Vanno sempre più di moda, in Italia e nel mondo, gli ateologi: da Christopher Hitchens, a Piergiorgio Odifreddi, a Richard Dawkins…Ogni loro libro è un successo mediatico, almeno per il fatto che i giornali e le televisioni ne parlano di continuo….
Il più celebre di loro è sicuramente l'inglese Richard Dawkins, che grazie al suo titolo di biologo evolutivo, può spacciare la sua voce e le sue personali opinioni per la voce della scienza, sino a dar vita ad una sua Fondazione, la sua piccola chiesa, attraverso la quale raccoglie soldi, elemosine, per contrastare la "superstizione" religiosa; sino a vantarsi del fatto che vi sono suoi ammiratori che leggono brani dei suoi libri ai funerali dei propri cari, al posto delle letture sacre.
Niente di strano, è già successo: nel 1882, nel suo discorso inaugurale alla Accademia delle scienze di Francia, il grande scienziato Louis Pasteur, fervido credente, spiegava al suo uditorio che Comte e Littré, i due grandi maestri del positivismo, avevano addossato al "metodo mirabile" di Galilei e Newton competenze non sue, credendo erroneamente "che potesse risolvere tutti i problemi" dell'umanità ed eliminare lo spirito religioso e la metafisica. Pasteur era un grande scienziato, Comte e Littrè, soprattutto, dei filosofi, benché il secondo fosse anche un medico, imbevuto di positivismo. Accade lo stesso oggi con l'ultima fatica di Dawkins, "L'illusione di Dio" (Mondadori): una serie di idee, sconclusionate, dell'autore, un minestrone confuso di ritagli storici, e di considerazioni sull'attualità, condito di riferimenti biblici e filologici mal digeriti, diventa per moltissimi, specie negli Usa, una nuova Bibbia, la risposta "scientifica" a ogni interrogativo dell'uomo. Il concetto fondamentale su cui Dawkins si batte è quello di tanti neodarwinisti che cercano di piegare una ipotesi scientifica, come fa il nostro Telmo Pievani nel suo "Creazione senza Dio", a delle conclusioni filosofiche, teologiche ed esistenziali.
L'errore di fondo è anzitutto quello di voler oltrepassare il campo della scienza sperimentale, che studia il come delle cose, il perché limitato, non ultimo, dei fenomeni, insomma tutto ciò che cade sotto il dominio dei sensi, per trasbordare nel campo della filosofia della natura, e in quello dello spirituale, dell'immateriale, dei pensieri e delle idee, finendo addirittura per negare l'esistenza di un perché dei perché, di una causa incausata, cioè di un Dio, come origine e principio di ogni cosa. Dawkins è infatti convintissimo che si possa dire, in base alla ragione e alla statistica (che non è sicuramente una scienza "esatta"), che Dio è altissimamente "improbabile": per fortuna il nostro non si spinge oltre, non arriva a dire, come altri hanno fatto, che Dio non esiste perché nessuno lo ha incontrato sulla luna o perché non è stato avvistato da nessun telescopio ("che non si possa dimostrare l'inesistenza di Dio è un fatto riconosciuto", p. 60).
La improbabilità di Dio, poi, diventa in Dawkins inevitabilmente negazione dell'anima immortale umana, della sua specificità e della sua libertà, senza apportare per simili conclusioni nessuna prova scientifica che smentisca l'evidenza ed il senso comune. Sempre, nell'argomentare, prevale la superficialità, nascosta dietro una prosa brillante e a tratti divertente, ma vuota. Nel capitolo intitolato "Perché è quasi certo che Dio non esiste" Dawkins sostituisce inizialmente l'opera di un Creatore con quella della selezione naturale, che procedendo gradualmente e per accumulazione, è quindi in grado di costruire ogni cosa, ogni complessità: già qui Dawkins ignora che le ipotesi sul tappeto dell'evoluzionismo non sono solo quella gradualista, ma anche quella "contraria" degli equilibri punteggiati. Per esempio gli evoluzionisti dibattono tra loro se il cervello umano si sia sviluppato gradualmente o se sia frutto di una evoluzione improvvisa e subitanea: due ipotesi, come si vede, del tutto differenti, su cui torneremo.
Ma il bello viene quando il nostro spiega che "l'evoluzione darwiniana procede allegramente una volta che è iniziata la vita. Ma come è iniziata la vita?". E' proprio qui il punto, si dice il lettore, aspettandosi una risposta intelligente e chiarificatrice. Dawkins invece ammette che "molti considerano improbabile la comparsa spontanea e casuale della prima molecola ereditaria", che avrebbe poi dato il là alle molteplici forme di vita. Ebbene a questo punto, lo scienziato che ha definito Dio "improbabile", spiega che anche la vita è "improbabile", improbabilissima (non è una novità, lo dicono tutti gli scienziati atei, da Monod a Crick), ma che esistendo un "miliardo di miliardi di pianeti", sarebbe possibile che la vita, pur "con probabilità così scarse", fosse nata su "un miliardo di pianeti, uno dei quali chiamato Terra". Non serve essere Tommaso d'Aquino o Einstein per capire quanto poco scientifico sia il ragionamento di Dawkins, che conclude: "Se anche accettassimo le stime più pessimistiche sull'origine spontanea del fenomeno, l'argomento statistico demolisce completamente l'idea che dovremmo postulare il progetto per colmare la lacuna".
Evidentemente a Dawkins sfuggono almeno tre considerazioni: che un argomento statistico per definizione non può demolire "completamente" una ipotesi; che proprio i matematici, in base al calcolo delle probabilità, sono più spesso critici verso la macroevoluzione darwiniana e verso l'idea di una generazione spontanea del Dna o di un semplice filo d'erba; infine che servirsi di miliardi di miliardi di pianeti per dar vita, casualmente, alla prima cellula, è un escamotage brillante, che però non giustifica l'esistenza dei miliardi di miliardi di pianeti da cui partire (a meno che non si spieghi che sono sorti dal nulla, casualmente, ma allora la teoria delle probabilità salta, dal momento che il nulla non ha probabilità alcuna di produrre pianeti).
A questo punto, giunti al cuore del discorso, cioè al problema dell'origine, l'argomentare dello zoologo Dawkins diventa estremamente lacunoso: a pagina 143 per ben due volte l'origine della vita diviene, poco scientificamente, un "colpo di fortuna", mentre per negare Dio come principio Dawkins ripete che "occorre una certa fortuna per iniziare e il principio antropico dei miliardi di pianeti ce lo concede". Sapendo bene che il passaggio dalla prima forma di vita alla vita cosciente e razionale è un altro salto abissale, ontologico, inspiegabile, aggiunge: "Forse anche per altri passaggi successivi della storia evolutiva occorrono forti iniezioni di fortuna con giustificazione antropica". Una "certa fortuna", "forti iniezioni di fortuna": sono queste le risposte definitive e chiarificatrici della scienza alle domande ultime, sul perché dell'essere, della vita e dell'uomo? A pagina 157 Dawkins raggiunge il ridicolo: "I miei amici teologi sono tornati più volte sul punto che è più sensato postulare l'esistenza di qualcosa anziché del nulla. Ci deve essere stata una prima causa di tutto e tanto vale darle il nome di Dio. Sì, ho risposto, ma questo qualcosa deve essere stato semplice e quindi, comunque vogliamo chiamarlo, Dio non è il termine giusto"… Stretto all'angolo, il nostro ammette qualcosa, ma subito tenta di giocare sui termini, sulle definizioni di Dio, come se la più ovvia non fosse appunto quella di Origine delle cose che sono. Poi prosegue dicendo che "l'ipotesi del progettista (Dio, ndr) solleva immediatamente il problema più vasto di chi abbia progettato il progettista".
Qui evidentemente Dawkins applica alla causa le caratteristiche dell'effetto-causato, dimenticando che la causa è sempre superiore all'effetto: universo e uomo nascono e muoiono ma la Causa prima di ciò che nasce e muore non può né nascere nè morire. Dunque, ovviamente, non è causata. E Dio è appunto Causa incausata di ciò che è. Continua
Recentemente, sul Corriere della sera (16/10/2007) lo scienziato italiano Massimo Piattelli Palmarini, dopo aver esposto la sua visione evoluzionista, scriveva: "...E' una conquista di libertà e una salutare igiene intellettuale che la religione non si immischi di questioni scientifiche e che, simmetricamente, la scienza non si immischi di questioni religiose. Qui sono in disaccordo con alcuni colleghi, come me scienziati e come me atei, per esempio il biologo inglese Richard Dawkins e il cognitivista americano Daniel Dennett, che si sono sentiti in diritto nei mesi scorsi, in libri di successo, di attaccare la religione partendo da presunte basi scientifiche. Da noi lo ha fatto l'amico Piergiorgio Odifreddi, valentissimo logico e matematico, ma improvvisato teologo. Le risposte della scienza ai grandi «perché » non possono, per loro natura, retrocedere all'infinito. C'è sempre un perché dietro ad ogni perché. Dateci un'ottima spiegazione razionale e scientifica di un fenomeno e alcuni di noi saranno lieti di fermarsi a questa. Io fra loro. Ma lasciamo poi libero, chi se la sente, di chiedersi il perché. E poi il perché della sua stessa risposta, senza limiti. C'è una netta divisione di compiti, di stili e di strumenti intellettuali per far fronte a queste umanissime inquietudini...."