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Don Benzi, apostolo delle prostitute.
Di Rassegna Stampa - 03/11/2007 - Religione - 1101 visite - 0 commenti

«Don Elio, io muoio». Don Oreste Benzi, il prete dalla tonaca lisa che ha insegnato la condivisione vivendola, se ne è andato a 82 anni con serenità, pronunciando queste parole, che oggi suonano come una sintesi estrema del «pane quotidiano», la riflessione che aveva vergato lui stesso per la commemorazione dei defunti di ieri e dove, per la prima volta, il prete degli emarginati rifletteva sulla propria morte.

È arrivata ieri mattina, alle 2 e 22 – dopo l’ennesimo attacco di cuore che ha reso vano anche l’intervento del 118 – al primo piano della casa parrocchiale della Resurrezione, a Grotta Rossa, dove Rimini è già campagna e guarda il Montefeltro. Qui è stata allestita la camera ardente, in attesa dei funerali, che si svolgeranno lunedì mattina nel duomo di Rimini. Qui don Benzi ha vissuto per quarant’anni con don Elio Piccari, il sacerdote con cui aveva fondato nel 1968 la comunità di sacerdoti che ha dato vita all’Associazione Giovanni XXIII. «Aveva avuto un attacco cardiaco a Parigi, in occasione di una delle sue estenuanti missioni – racconta Giampiero Cofano, responsabile estero dell’Associazione e del settore antitratta internazionale – ma si ostinava a negare tutto». Invece, di malori don Benzi ne aveva avuti parecchi negli ultimi tre mesi.

Martedì era svenuto all’aeroporto di Fiumicino, dopo un incontro con rappresentanti dei ministeri della Solidarietà sociale e della Salute. È stato assistito ma ha voluto continuare il viaggio, perché in serata doveva parlare ai giovani in discoteca. Era atteso all’«Europa», un locale dell’entroterra, dove si svolgeva una festa alternativa ad Halloween, insieme al vescovo di San Marino, monsignor Luigi Negri. È arrivato puntuale e, come ha detto a un suo collaboratore, «ha dato il meglio di sé ai suoi giovani». «Sosteneva che i preti dovessero strapazzarsi per le anime» dice Enrico Masini, responsabile del servizio maternità difficili, testimone di parecchi «strapazzi». Ci mostra l’agenda di don Oreste: ben oltre il limite dell’umana sopportazione. «Quante volte ha dormito in auto, per arrivare dappertutto» ricorda una sua collaboratrice, in lacrime. Il prete delle prostitute e dei disabili non amava le ingiustizie ma neppure i rimorsi, preferiva vedere il lato ottimistico delle cose ed era, anche in questo, un vero romagnolo, pratico e gioviale. «Il suo sorriso aperto fu la prima cosa che notai – rievoca don Elio – quando lo incontrai in seminario. Veniva da una famiglia umile. Descriveva suo padre con grande amore, come uno che non voleva farsi notare. Credo che apprese in quella sua bella famiglia l’attenzione per i più poveri e il desiderio di donarsi a loro». Fino all’estremo, ma sempre con quel suo sorriso che era il riflesso di una fede stentorea. Don Benzi non parlava spesso in prima persona, perché preferiva far parlare il Signore attraverso la sua opera, sporcandosi le mani con i reietti, comprese le ragazze di strada per difendere le quali era finito nel mirino della «mala».

Come non voleva la scorta, così non amava i medici ma, moltissimo, la medicina. «Era affascinato dalle tecnologie e scherzava sulla coronarografia che avrebbe fatto l’indomani – spiega Cofano – che evidentemente aveva accettato solo perché i dolori erano diventati insostenibili». Diceva di sè: «Sono una dinamo, se mi spengo mi fermo». Aveva imparato a curare il proprio cuore con la pillola salvavita, ma lui curava gli altri con la fede. Ne parla don Elio: «come insegna San Giacomo, usava l’imposizione delle mani e la preghiera, ho visto centinaia di malati risollevati». Ne parla Oscar Baffoni, ex viveur, oggi responsabile dell’Associazione in Asia: «Avevo un tumore con metastasi, don Oreste mi ha aiutato molto». Era con lui anche giovedì sera al ristorante «Grotta rossa». Un’ultima cena con gli amici più stretti, a base di tagliolini e sangiovese, scherzando sulla malattia e sugli esami dell’indomani. «Una cena in gazzoia, cioè gioiosa, come diciamo noi in Romagna» conclude don Elio. Avvenire, 3 novembre 2007

 
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