La storia di Don Sante, il prete che ha fatto pubblica dichiarazione del proprio amore per una donna, manifesta una volta di più, ce ne fosse bisogno, come l’utilizzo dei mass media e il loro potere di seduzione, possa vincere persino la forza sacramentale della scelta sacerdotale.
Il “povero prete” è caduto, sedotto oltre che da una donna, dal fascino di sostare davanti al puntino rosso di una telecamera accesa.
Rapido e rapace il mondo della televisione ha affondato i denti sulla patetica carcassa del giovane prete, trasformando una triste vicenda personale in una sorta di giudizio laico nei confronti di temi complessi e delicatissimi, quali il celibato sacerdotale, il ruolo dell’autorità ecclesiastica, la presunta insensibilità della Chiesa nei confronti del diritto ad amare. Dimenticando ovviamente che esistono molteplici forme d’amore, come il Papa ha ben chiarito nella sua prima enciclica, Deus Caritas est.
Ma il mondo non ha tempo di approfondire, soprattutto quello televisivo, preoccupato soltanto di accrescere l’odiens. Mancava soltanto fosse indetto un estemporaneo sondaggio sul diritto dei preti all’amore carnale, perché il quadro fosse completo.
La vicenda però, non credo meritasse tutto lo strepito che per qualche giorno le è stato dedicato. La storia infatti è assai prosaica e semplice.
Un giovane prete si è innamorato di una donna divorziata madre di due figli, quindi ha rivendicato pubblicamente, dal pulpito, la legittimità del proprio amore.
Ciò non bastasse si è cosparso il capo di cenere roso dal rimorso; un rimorso, che però ha giudicato innaturale, frutto di una mentalità ecclesiastica retriva e ingiustificata.
Si è in tal modo esposto ad una gogna pubblica inconsapevole, trasformandosi da “colpevole” in vittima, da accusato in accusatore. Tutto questo, Don Sante, lo ha fatto da solo.
Questo uomo, sospinto dall’ebrezza mediatica, ha fatto della propria storia una bandiera da brandire in difesa di rivendicazioni da lui giudicate epocali; su tutte la libertà d’amare dei sacerdoti.
Nel suo delirio montante si è addirittura richiamato a Don Milingo e di riflesso alla chiesa del reverendo Moon, la quale nega persino la divinità di Cristo.
Si è in tal modo, ancora una volta, da solo, posto al di fuori della Chiesa Cattolica.
Ma ciò che stupisce e appare inadeguato in tutta questa vicenda non è l’amore, la passione che può irretire chiunque, bensì l’atteggiamento irresponsabile e irrispettoso manifestato dal sacerdote verso l’autorità cui un giorno egli giurò fedeltà e obbedienza.
Quando Don Sante scelse di essere sacerdote era consapevole di ciò che tale scelta comportava e nonostante questo ha dissacrato dissennatamente la propria opzione, il proprio mondo, la dignità del proprio ministero. E questo lo ha fatto in pubblico, pensando in tal modo di mostrarsi sincero. Ma la sua sincerità, in realtà, non ha fatto che screditare davanti al mondo, il ruolo del sacerdote in genere. Perché tutti sappiamo, per prima la Chiesa, che l’essere umano è debole e che la scelta della castità e del celibato costano. Per questo la Chiesa ha sempre cercato, con discrezione, di andare incontro a quei ministri che cedono alla passione e all’amore per una donna. Ma questa sensibilità e attenzione all’umana debolezza, questo senso vivo della realtà umana, ha sempre altresì evitato, con somma cura di alimentare lo scandalo.
In settembre si commemorava la morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vilmente trucidato dalla mafia insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, nel 1982 a Palermo.
La vicenda di questo uomo è sicuramente straordinaria e ricca di insegnamenti, ma in tale circostanza, voglio porla in parallelo con quella del pretino di cui ho raccontato le poco nobili peripezie sentimentali.
Se guardiamo al Generale, se leggiamo la storia, riconosciamo una persona ricca di un’indole forte e decisa, dotata di una rettitudine adamantina e di un sacro attaccamento alla divisa dei Carabinieri.
La moralità di Dalla Chiesa, il suo attaccamento alle istituzioni democratiche, presentano per molti aspetti i tratti di una scelta vocazionale, con tutti i voti che la distinguono.
La vita del Generale fu infatti totalmente votata all’arma e allo Stato, quasi con esso avesse contratto un patto nuziale; per esso, profuse ogni energia nella lotta contro la criminalità.
Sono queste le ragioni per cui, Dalla Chiesa ha con profondo e fermo senso del dovere sacrificato, prima gli affetti familiari, quindi la vita stessa.
Il Generale, pur tra gravissime difficoltà, non ha cercato scorciatoie, non è fuggito davanti alle proprie responsabilità, anzi ha persino trascurato l’amatissima moglie, in nome, non di un’amante, ma di una promessa sacrale che aveva pronunciato il giorno in cui era diventato carabiniere e aveva vestito quella divisa come si indossa un saio, indice di appartenenza ad un “ordine.”
Quale distanza, separa la nobile figura di questo martire, dalla piccola e imbarazzante sagoma del sacerdote innamorato.
Questa vicenda mi sembra suggerire una lezione: la storia di Sante forse ci indica che stiamo smarrendo il senso dei ruoli, il rispetto e la dignità che ogni professione reclama. Sono venuti meno, uno dopo l’altro, il senso della gerarchia, del dovere, dell’autorità costituita, del sacrificio e dell’ubbidienza. Perciò don Sante sembra lo specchio di un certo prete progressista, ricalcitrante alle regole, malato di protagonismo, indifferente ad ogni autorità, nonché abile nel dar adito a scandali che spesso si risolvono in una bolla di sapone.
E’ questa la “colpa” del prete, la debolezza di un uomo che si fa aggressiva rivendicazione, nella totale inconsapevolezza del fango che in tal modo getta sulla sua Chiesa, cui un giorno giurò fedeltà, obbedienza, amore.
DON SANTE E IL GENERALE settebre 2007.
La storia di Don Sante, il prete che ha fatto pubblica dichiarazione del proprio amore per una donna, manifesta una volta di più, ce ne fosse bisogno, come l’utilizzo dei mass media e il loro potere di seduzione, possa vincere persino la forza sacramentale della scelta sacerdotale.
Il “povero prete” è caduto, sedotto oltre che da una donna, dal fascino di sostare davanti al puntino rosso di una telecamera accesa.
Rapido e rapace il mondo della televisione ha affondato i denti sulla patetica carcassa del giovane prete, trasformando una triste vicenda personale in una sorta di giudizio laico nei confronti di temi complessi e delicatissimi, quali il celibato sacerdotale, il ruolo dell’autorità ecclesiastica, la presunta insensibilità della Chiesa nei confronti del diritto ad amare. Dimenticando ovviamente che esistono molteplici forme d’amore, come il Papa ha ben chiarito nella sua prima enciclica, Deus Caritas est.
Ma il mondo non ha tempo di approfondire, soprattutto quello televisivo, preoccupato soltanto di accrescere l’odiens. Mancava soltanto fosse indetto un estemporaneo sondaggio sul diritto dei preti all’amore carnale, perché il quadro fosse completo.
La vicenda però, non credo meritasse tutto lo strepito che per qualche giorno le è stato dedicato. La storia infatti è assai prosaica e semplice.
Un giovane prete si è innamorato di una donna divorziata madre di due figli, quindi ha rivendicato pubblicamente, dal pulpito, la legittimità del proprio amore.
Ciò non bastasse si è cosparso il capo di cenere roso dal rimorso; un rimorso, che però ha giudicato innaturale, frutto di una mentalità ecclesiastica retriva e ingiustificata.
Si è in tal modo esposto ad una gogna pubblica inconsapevole, trasformandosi da “colpevole” in vittima, da accusato in accusatore. Tutto questo, Don Sante, lo ha fatto da solo.
Questo uomo, sospinto dall’ebrezza mediatica, ha fatto della propria storia una bandiera da brandire in difesa di rivendicazioni da lui giudicate epocali; su tutte la libertà d’amare dei sacerdoti.
Nel suo delirio montante si è addirittura richiamato a Don Milingo e di riflesso alla chiesa del reverendo Moon, la quale nega persino la divinità di Cristo.
Si è in tal modo, ancora una volta, da solo, posto al di fuori della Chiesa Cattolica.
Ma ciò che stupisce e appare inadeguato in tutta questa vicenda non è l’amore, la passione che può irretire chiunque, bensì l’atteggiamento irresponsabile e irrispettoso manifestato dal sacerdote verso l’autorità cui un giorno egli giurò fedeltà e obbedienza.
Quando Don Sante scelse di essere sacerdote era consapevole di ciò che tale scelta comportava e nonostante questo ha dissacrato dissennatamente la propria opzione, il proprio mondo, la dignità del proprio ministero. E questo lo ha fatto in pubblico, pensando in tal modo di mostrarsi sincero. Ma la sua sincerità, in realtà, non ha fatto che screditare davanti al mondo, il ruolo del sacerdote in genere. Perché tutti sappiamo, per prima la Chiesa, che l’essere umano è debole e che la scelta della castità e del celibato costano. Per questo la Chiesa ha sempre cercato, con discrezione, di andare incontro a quei ministri che cedono alla passione e all’amore per una donna. Ma questa sensibilità e attenzione all’umana debolezza, questo senso vivo della realtà umana, ha sempre altresì evitato, con somma cura di alimentare lo scandalo.
In settembre si commemorava la morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vilmente trucidato dalla mafia insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, nel 1982 a Palermo.
La vicenda di questo uomo è sicuramente straordinaria e ricca di insegnamenti, ma in tale circostanza, voglio porla in parallelo con quella del pretino di cui ho raccontato le poco nobili peripezie sentimentali.
Se guardiamo al Generale, se leggiamo la storia, riconosciamo una persona ricca di un’indole forte e decisa, dotata di una rettitudine adamantina e di un sacro attaccamento alla divisa dei Carabinieri.
La moralità di Dalla Chiesa, il suo attaccamento alle istituzioni democratiche, presentano per molti aspetti i tratti di una scelta vocazionale, con tutti i voti che la distinguono.
La vita del Generale fu infatti totalmente votata all’arma e allo Stato, quasi con esso avesse contratto un patto nuziale; per esso, profuse ogni energia nella lotta contro la criminalità.
Sono queste le ragioni per cui, Dalla Chiesa ha con profondo e fermo senso del dovere sacrificato, prima gli affetti familiari, quindi la vita stessa.
Il Generale, pur tra gravissime difficoltà, non ha cercato scorciatoie, non è fuggito davanti alle proprie responsabilità, anzi ha persino trascurato l’amatissima moglie, in nome, non di un’amante, ma di una promessa sacrale che aveva pronunciato il giorno in cui era diventato carabiniere e aveva vestito quella divisa come si indossa un saio, indice di appartenenza ad un “ordine.”
Quale distanza, separa la nobile figura di questo martire, dalla piccola e imbarazzante sagoma del sacerdote innamorato.
Questa vicenda mi sembra suggerire una lezione: la storia di Sante forse ci indica che stiamo smarrendo il senso dei ruoli, il rispetto e la dignità che ogni professione reclama. Sono venuti meno, uno dopo l’altro, il senso della gerarchia, del dovere, dell’autorità costituita, del sacrificio e dell’ubbidienza. Perciò don Sante sembra lo specchio di un certo prete progressista, ricalcitrante alle regole, malato di protagonismo, indifferente ad ogni autorità, nonché abile nel dar adito a scandali che spesso si risolvono in una bolla di sapone.
E’ questa la “colpa” del prete, la debolezza di un uomo che si fa aggressiva rivendicazione, nella totale inconsapevolezza del fango che in tal modo getta sulla sua Chiesa, cui un giorno giurò fedeltà, obbedienza, amore.
DON SANTE E IL GENERALE settebre 2007.
La storia di Don Sante, il prete che ha fatto pubblica dichiarazione del proprio amore per una donna, manifesta una volta di più, ce ne fosse bisogno, come l’utilizzo dei mass media e il loro potere di seduzione, possa vincere persino la forza sacramentale della scelta sacerdotale.
Il “povero prete” è caduto, sedotto oltre che da una donna, dal fascino di sostare davanti al puntino rosso di una telecamera accesa.
Rapido e rapace il mondo della televisione ha affondato i denti sulla patetica carcassa del giovane prete, trasformando una triste vicenda personale in una sorta di giudizio laico nei confronti di temi complessi e delicatissimi, quali il celibato sacerdotale, il ruolo dell’autorità ecclesiastica, la presunta insensibilità della Chiesa nei confronti del diritto ad amare. Dimenticando ovviamente che esistono molteplici forme d’amore, come il Papa ha ben chiarito nella sua prima enciclica, Deus Caritas est.
Ma il mondo non ha tempo di approfondire, soprattutto quello televisivo, preoccupato soltanto di accrescere l’odiens. Mancava soltanto fosse indetto un estemporaneo sondaggio sul diritto dei preti all’amore carnale, perché il quadro fosse completo.
La vicenda però, non credo meritasse tutto lo strepito che per qualche giorno le è stato dedicato. La storia infatti è assai prosaica e semplice.
Un giovane prete si è innamorato di una donna divorziata madre di due figli, quindi ha rivendicato pubblicamente, dal pulpito, la legittimità del proprio amore.
Ciò non bastasse si è cosparso il capo di cenere roso dal rimorso; un rimorso, che però ha giudicato innaturale, frutto di una mentalità ecclesiastica retriva e ingiustificata.
Si è in tal modo esposto ad una gogna pubblica inconsapevole, trasformandosi da “colpevole” in vittima, da accusato in accusatore. Tutto questo, Don Sante, lo ha fatto da solo.
Questo uomo, sospinto dall’ebrezza mediatica, ha fatto della propria storia una bandiera da brandire in difesa di rivendicazioni da lui giudicate epocali; su tutte la libertà d’amare dei sacerdoti.
Nel suo delirio montante si è addirittura richiamato a Don Milingo e di riflesso alla chiesa del reverendo Moon, la quale nega persino la divinità di Cristo.
Si è in tal modo, ancora una volta, da solo, posto al di fuori della Chiesa Cattolica.
Ma ciò che stupisce e appare inadeguato in tutta questa vicenda non è l’amore, la passione che può irretire chiunque, bensì l’atteggiamento irresponsabile e irrispettoso manifestato dal sacerdote verso l’autorità cui un giorno egli giurò fedeltà e obbedienza.
Quando Don Sante scelse di essere sacerdote era consapevole di ciò che tale scelta comportava e nonostante questo ha dissacrato dissennatamente la propria opzione, il proprio mondo, la dignità del proprio ministero. E questo lo ha fatto in pubblico, pensando in tal modo di mostrarsi sincero. Ma la sua sincerità, in realtà, non ha fatto che screditare davanti al mondo, il ruolo del sacerdote in genere. Perché tutti sappiamo, per prima la Chiesa, che l’essere umano è debole e che la scelta della castità e del celibato costano. Per questo la Chiesa ha sempre cercato, con discrezione, di andare incontro a quei ministri che cedono alla passione e all’amore per una donna. Ma questa sensibilità e attenzione all’umana debolezza, questo senso vivo della realtà umana, ha sempre altresì evitato, con somma cura di alimentare lo scandalo.
In settembre si commemorava la morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vilmente trucidato dalla mafia insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, nel 1982 a Palermo.
La vicenda di questo uomo è sicuramente straordinaria e ricca di insegnamenti, ma in tale circostanza, voglio porla in parallelo con quella del pretino di cui ho raccontato le poco nobili peripezie sentimentali.
Se guardiamo al Generale, se leggiamo la storia, riconosciamo una persona ricca di un’indole forte e decisa, dotata di una rettitudine adamantina e di un sacro attaccamento alla divisa dei Carabinieri.
La moralità di Dalla Chiesa, il suo attaccamento alle istituzioni democratiche, presentano per molti aspetti i tratti di una scelta vocazionale, con tutti i voti che la distinguono.
La vita del Generale fu infatti totalmente votata all’arma e allo Stato, quasi con esso avesse contratto un patto nuziale; per esso, profuse ogni energia nella lotta contro la criminalità.
Sono queste le ragioni per cui, Dalla Chiesa ha con profondo e fermo senso del dovere sacrificato, prima gli affetti familiari, quindi la vita stessa.
Il Generale, pur tra gravissime difficoltà, non ha cercato scorciatoie, non è fuggito davanti alle proprie responsabilità, anzi ha persino trascurato l’amatissima moglie, in nome, non di un’amante, ma di una promessa sacrale che aveva pronunciato il giorno in cui era diventato carabiniere e aveva vestito quella divisa come si indossa un saio, indice di appartenenza ad un “ordine.”
Quale distanza, separa la nobile figura di questo martire, dalla piccola e imbarazzante sagoma del sacerdote innamorato.
Questa vicenda mi sembra suggerire una lezione: la storia di Sante forse ci indica che stiamo smarrendo il senso dei ruoli, il rispetto e la dignità che ogni professione reclama. Sono venuti meno, uno dopo l’altro, il senso della gerarchia, del dovere, dell’autorità costituita, del sacrificio e dell’ubbidienza. Perciò don Sante sembra lo specchio di un certo prete progressista, ricalcitrante alle regole, malato di protagonismo, indifferente ad ogni autorità, nonché abile nel dar adito a scandali che spesso si risolvono in una bolla di sapone.
E’ questa la “colpa” del prete, la debolezza di un uomo che si fa aggressiva rivendicazione, nella totale inconsapevolezza del fango che in tal modo getta sulla sua Chiesa, cui un giorno giurò fedeltà, obbedienza, amore.
DON SANTE E IL GENERALE settebre 2007.
La storia di Don Sante, il prete che ha fatto pubblica dichiarazione del proprio amore per una donna, manifesta una volta di più, ce ne fosse bisogno, come l’utilizzo dei mass media e il loro potere di seduzione, possa vincere persino la forza sacramentale della scelta sacerdotale.
Il “povero prete” è caduto, sedotto oltre che da una donna, dal fascino di sostare davanti al puntino rosso di una telecamera accesa.
Rapido e rapace il mondo della televisione ha affondato i denti sulla patetica carcassa del giovane prete, trasformando una triste vicenda personale in una sorta di giudizio laico nei confronti di temi complessi e delicatissimi, quali il celibato sacerdotale, il ruolo dell’autorità ecclesiastica, la presunta insensibilità della Chiesa nei confronti del diritto ad amare. Dimenticando ovviamente che esistono molteplici forme d’amore, come il Papa ha ben chiarito nella sua prima enciclica, Deus Caritas est.
Ma il mondo non ha tempo di approfondire, soprattutto quello televisivo, preoccupato soltanto di accrescere l’odiens. Mancava soltanto fosse indetto un estemporaneo sondaggio sul diritto dei preti all’amore carnale, perché il quadro fosse completo.
La vicenda però, non credo meritasse tutto lo strepito che per qualche giorno le è stato dedicato. La storia infatti è assai prosaica e semplice.
Un giovane prete si è innamorato di una donna divorziata madre di due figli, quindi ha rivendicato pubblicamente, dal pulpito, la legittimità del proprio amore.
Ciò non bastasse si è cosparso il capo di cenere roso dal rimorso; un rimorso, che però ha giudicato innaturale, frutto di una mentalità ecclesiastica retriva e ingiustificata.
Si è in tal modo esposto ad una gogna pubblica inconsapevole, trasformandosi da “colpevole” in vittima, da accusato in accusatore. Tutto questo, Don Sante, lo ha fatto da solo.
Questo uomo, sospinto dall’ebrezza mediatica, ha fatto della propria storia una bandiera da brandire in difesa di rivendicazioni da lui giudicate epocali; su tutte la libertà d’amare dei sacerdoti.
Nel suo delirio montante si è addirittura richiamato a Don Milingo e di riflesso alla chiesa del reverendo Moon, la quale nega persino la divinità di Cristo.
Si è in tal modo, ancora una volta, da solo, posto al di fuori della Chiesa Cattolica.
Ma ciò che stupisce e appare inadeguato in tutta questa vicenda non è l’amore, la passione che può irretire chiunque, bensì l’atteggiamento irresponsabile e irrispettoso manifestato dal sacerdote verso l’autorità cui un giorno egli giurò fedeltà e obbedienza.
Quando Don Sante scelse di essere sacerdote era consapevole di ciò che tale scelta comportava e nonostante questo ha dissacrato dissennatamente la propria opzione, il proprio mondo, la dignità del proprio ministero. E questo lo ha fatto in pubblico, pensando in tal modo di mostrarsi sincero. Ma la sua sincerità, in realtà, non ha fatto che screditare davanti al mondo, il ruolo del sacerdote in genere. Perché tutti sappiamo, per prima la Chiesa, che l’essere umano è debole e che la scelta della castità e del celibato costano. Per questo la Chiesa ha sempre cercato, con discrezione, di andare incontro a quei ministri che cedono alla passione e all’amore per una donna. Ma questa sensibilità e attenzione all’umana debolezza, questo senso vivo della realtà umana, ha sempre altresì evitato, con somma cura di alimentare lo scandalo.
In settembre si commemorava la morte del Generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, vilmente trucidato dalla mafia insieme alla moglie, Emanuela Setti Carraro, nel 1982 a Palermo.
La vicenda di questo uomo è sicuramente straordinaria e ricca di insegnamenti, ma in tale circostanza, voglio porla in parallelo con quella del pretino di cui ho raccontato le poco nobili peripezie sentimentali.
Se guardiamo al Generale, se leggiamo la storia, riconosciamo una persona ricca di un’indole forte e decisa, dotata di una rettitudine adamantina e di un sacro attaccamento alla divisa dei Carabinieri.
La moralità di Dalla Chiesa, il suo attaccamento alle istituzioni democratiche, presentano per molti aspetti i tratti di una scelta vocazionale, con tutti i voti che la distinguono.
La vita del Generale fu infatti totalmente votata all’arma e allo Stato, quasi con esso avesse contratto un patto nuziale; per esso, profuse ogni energia nella lotta contro la criminalità.
Sono queste le ragioni per cui, Dalla Chiesa ha con profondo e fermo senso del dovere sacrificato, prima gli affetti familiari, quindi la vita stessa.
Il Generale, pur tra gravissime difficoltà, non ha cercato scorciatoie, non è fuggito davanti alle proprie responsabilità, anzi ha persino trascurato l’amatissima moglie, in nome, non di un’amante, ma di una promessa sacrale che aveva pronunciato il giorno in cui era diventato carabiniere e aveva vestito quella divisa come si indossa un saio, indice di appartenenza ad un “ordine.”
Quale distanza, separa la nobile figura di questo martire, dalla piccola e imbarazzante sagoma del sacerdote innamorato.
Questa vicenda mi sembra suggerire una lezione: la storia di Sante forse ci indica che stiamo smarrendo il senso dei ruoli, il rispetto e la dignità che ogni professione reclama. Sono venuti meno, uno dopo l’altro, il senso della gerarchia, del dovere, dell’autorità costituita, del sacrificio e dell’ubbidienza. Perciò don Sante sembra lo specchio di un certo prete progressista, ricalcitrante alle regole, malato di protagonismo, indifferente ad ogni autorità, nonché abile nel dar adito a scandali che spesso si risolvono in una bolla di sapone.
E’ questa la “colpa” del prete, la debolezza di un uomo che si fa aggressiva rivendicazione, nella totale inconsapevolezza del fango che in tal modo getta sulla sua Chiesa, cui un giorno giurò fedeltà, obbedienza, amore.
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