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Giancarlo Galli è un economista navigato, che da alcuni anni collabora ad Avvenire e che ama scavare dietro i fatti, per scoprire legami, vizi, intrallazzi dei grandi finanzieri italiani. E' autore di testi interessantissimi, sul banchiere Mattioli, su Enrico Cuccia e sugli Agnelli. Riporto qui uno stralcio da un suo libro.
I1 - SILVIO BERLUSCONI Ho conosciuto Silvio Berlusconi, dandoci del tu, negli anni Settanta. Costruttore edile («palazzinaro ambrosiano» lo stuzzicavo, sino a farlo incazzare) e «televisionario» (cominciò la telescalata con una rete a circuito chiuso nella sua città-satellite Milano 2), avendo il quartier generale in Foro Bonaparte, m'invitava a colazione in Brera, alla Torre di Pisa. Piatto d'ordinanza, il «filetto all'alpino»: un ghiotto trancio di manzo con sopra un bel porcino e rametto di rosmarino. Una volta s'unì a noi Bettino Craxi, da tempo suo amico (per via della passione musicale, almeno agli inizi); per me, un coetaneo e compagno di gioventù, sul quale circa un lustro più tardi avrei scritto una biografia, non sponsorizzata ma certamente agevolata. Silvio aveva il piglio e la grinta del winner americano: colui che nemmeno prendeva in considerazione la possibilità di perdere. Ricordo un paio di per me malaugurati set a tennis a Milano 2 (m'aveva fatto avere in omaggio la tessera del club): le palle decisive erano sempre, per lui, «un filo dentro»; le mie, «un pelo fuori». Esattamente come il Bettino: in piazza Duomo 19, dove andavo di tanto in tanto a far chiacchiere il lunedì, alle obiezioni replicava stizzito: «Non capisci un cazzo, il riformismo è una lunga marcia. Calma e gesso... ». Alla Torre di Pisa, da un tavolo vicino Fedele Confalonieri ci osservava tendendo le orecchie e scuotendo il capo, quasi fossimo marziani. Silvio sfoderava cultura, e non d'accatto. Oltre al giovanile saggio su Tommaso Moro del quale andava ultrafiero, citava con insistenza Karl von Clausewitz, massimo teorico della guerra. Accadde di discettare sulle modalità d'impiego delle divisioni corazzate. Piuttosto romanticamente, o per un substrato di strategica ignoranza, sostenni le teorie di Guderian, Rommel, Patton: l'impiego «a massa», per sfondare il fronte nemico. Con mia sorpresa, Silvio non si limitò a contrapporre altri schemi, legati al coordinato impiego di carri-aviazione-fanterie, ma giunse a una conclusione riassumibile in due parole: «avanzata ordinata». Strano dispositivo strategico, quello dell'«avanzata ordinata».
Può persino apparire rinunciatario, tuttavia, se appena riflettiamo, s'è obbligati a constatare che i due protagonisti-antagonisti della politica italiana degli ultimi lustri hanno un identico, ritmato e cadenzato denominatore comune. Silvio Berlusconi e Romano Prodi: chi poteva immaginare «al vertice» un professore universitario, democristiano ma non troppo, e un imprenditore amico di tanti ma con nessuno davvero imparentato? Eppure, quanta strada, a scorno dei «politici professionisti». Assai poco posso dire di Prodi, col quale ho avuto solo sporadici incontri punteggiati da qualche baruffa. Il che non esime dal valutarne la qualità, intellettuale e politica, da «peso massimo», capace di incassare senza andare Ko anche colpi sotto la cintura. Torno pertanto a Berlusconi. Gradirà forse poco ma, da uomo di mondo, accetterà. Aveva un cruccio, e lo confessava: il provincialismo, l'ignoranza delle lingue. Però aveva capito. Testardo come un mulo, appena decise di compiere il salto da «palazzinaro» (pardon, imprenditore edile) a imprenditore tout court, chinò il testone mettendosi a studiare l'inglese. Ore e ore, insegnanti a turno. Sfidando le ironie degli amici, fra cui Craxi. Seguiranno il perfezionamento dello scolastico francese e dello spagnolo, utilissimi nelle operazioni televisive con La Cinq a Parigi e TeleCinco a Madrid. Persino un po' di tedesco. Con gran stupore di Ruggiero, che non si riprenderà dalla sconfitta, il Cavaliere si rivelerà tutto fuorché un provinciale…
2 - GIULIO TREMONTI In Roma-capitale si racconta che una sera, in casa Berlusconi, l'algido Tremonti perse le staffe. Esacerbato per le affermazioni del governatore sul «declino», rosso in volto, avrebbe affermato che occorreva tirar fuori gli artigli nei confronti dei «disfattisti». A quel punto Berlusconi, abbracciato da Bossi, avrebbe dato carta bianca a Tremonti, da quell'istante generalissimo a cinque stelle. Che subito anticipò agli intimi: attaccherò dove nessuno immagina...
3 - YAKI E LAPO ELKANN Nessuno obietta al fatto che, ancora una volta, la successione in Fiat sia una «questione di famiglia». E arriva appunto un «famiglio», Luca Cordero di Montezemolo, alla presidenza. Che immediatamente nomina «vice» il ventottenne John «Jaky» Elkann, figlio di primo letto di Margherita (figlia di Gianni e Marella Agnelli), pupillo del nonno; e Lapo Elkann a responsabile del marketing e dell'immagine. Jaky avrà magari doti preclare, ma qualche dubbio sarebbe più che ragionevole. O no? D'altronde, lo stesso Montezemolo, in un'intervista al «New York Times» (20 luglio 2004), dichiara con franchezza: «Quel che cerco di fare con Marchionne è anche far crescere John Elkann». Quanto a Lapo, non spargiamo sale sulle ferite delle sue umane disavventure. Reso onore alla sincerità, riflettiamo. Mentre il motore della Fiat, azienda-leader da un secolo, batte in testa e perde vistosamente colpi, col pareggio rinviato di anno in anno, il paese intero s'entusiasma, almeno a dare credito alle cronache giornalistiche, al matrimonio di Jaky con l'aristocratica Lavinia Borromeo, figlia del conte Borromeo, celebrato su un'isoletta del Lago Maggiore il 4 settembre 2004. Al ricevimento, gli ospiti non si contano.
C'è il gotha della Finanza (quello che dovrebbe preoccuparsi dei debiti della Fiat), e persino Silvio Berlusconi, che non si sottrarrà alla tentazione di cantare una canzone. È arrivata persino mamma Margherita, che ha appena chiuso davanti ai notai il protocollo di pace sull'eredità, dopo aver impugnato il lascito testamentario di Re Gianni. Tutti felici e contenti, come il protocollo esige. Ma la Fiat? In ritagli di cronaca, quando ci sono, s'apprende che nelle stesse ore sono state programmate settimane di cassa integrazione per i vari stabilimenti del Gruppo, che a Torino cesserà la produzione dei motori «Power-train», costruiti d'intesa con la General Motors: trasferimento in Argentina, 500-600 posti di lavoro in meno. Dai sindacati, sempre così sensibili a ogni stormir di fronde, nemmeno un gridolino di dolore. E dove sono finiti i no global? Verità è che l'Italia intera s'inchina ai riti dinastici. Il romanticismo facendo premio sulla razionalità. Chissà perché nessun cronista va a intervistare, ai cancelli di Mirafiori, quegli operai delle catene di montaggio che entrano ancora all'alba, pur coscienti che, fra non molto, la grande fabbrica si trasformerà in museo. Meglio fingere di partecipare alla felicità dei principi ereditari di un impero ormai inesistente che guardare a occhi spalancati il futuro. È davvero il declino delle coscienze, riconosciamolo.(Giancarlo Galli, Poteri deboli, Mondadori, estratto)
Don Raffaele di Renata Fontanelli Fu un grande banchiere, e fu un grande uomo, raffinato umanista, profondamente colto e curioso, ma anche scaltro e abile manovratore dei destini economici dell'Italia del dopoguerra. Annunciando la sua morte, il quotidiano francese "Le Monde" lo definì "Le plus grand banquier italien dépuis Laurent de Medici". Ed è la verità. Raffaele Mattioli ha segnato profondamente la storia della finanza italiana, allora ancora distaccata e autonoma dal potere politico e, con la sua morte, il 27 luglio 1973 si è veramente conclusa un'epoca destinata a non ripetersi mai più. Di lui, Raffaele Mattioli, per trent'anni presidente della Comit, si è parlato molto ma si è scritto poco. Giancarlo Galli, giornalista e saggista, nel suo "Il banchiere eretico" ha tentato di definire la complessa personalità e l'opera di Mattioli, entrato in Comit non ancora trentenne e uscitovi dopo 27 anni di ininterrotto servizio il 22 aprile 1972, prima vittima della lottizzazione politica e della spartizione forsennata di poltrone in corso tra Dc e Psi, rifiutando, in un moto d'orgoglio la presidenza onoraria. Una personalità complessa e piena di sfaccettature, quella di Mattioli, gattopardo della finanza postbellica, e scaltro tessitore di relazioni a trecentosessanta gradi. Pur essendo convinto antifascista, un autentico liberal-progressista, teneva ottimi rapporti anche con Mussolini e il suo entourage, non rinunciando poi a lunghe conversazioni con Togliatti che incontrava spesso in gran segreto e da cui era volentieri ospite in casa. Partecipa alla stesura del manifesto del partito d'azione, ma allo stesso tempo lavora al salvataggio di casa Savoia e finanzia la casa della cultura di Rossana Rossanda e una lunga serie di iniziative legate alla cultura, al teatro e all'arte. Non disdegna il compromesso, ma non si venderà mai a nessuno.
Mattioli fu l'unico banchiere ad avere in mente un modello di finanza legato al potere politico di turno, però pur sempre superiore ad esso. Ben altra visione rispetto a quella della Mediobanca di Enrico Cuccia, dove gli interessi delle grandi famiglie del capitalismo prevalgono su tutto. Lo chiamavano il banchiere eretico per il suo totale distacco dal potere del Vaticano e dagli affari di Chiesa, anche se lo stesso Vaticano in più occasioni finanziò la Comit tant'è che in molti si stupirono quando decise di farsi seppellire con cerimonia religiosa. Il grande limite di Raffaele Mattioli - sostengono in molti - fu però quello di guardar poco oltrefrontiera, di essere troppo legato alla sua Italia che tanto amava. Gli mancò quella visione internazionale dell'economia e della finanza che farà di uno dei suoi pupilli, Enrico Cuccia, il re incontrastato e mondialmente riconosciuto della finanza nostrana. Mattioli era troppo legato alla penisola, tanto da non rendersi conto di quello che stava succedendo a Wall Street. Per lui il riferimento rimase sempre la City, Londra, oltre non seppe o non volle andare. E l'uomo Mattioli? Marito, padre, grande narciso dall'indiscutibile fascino. Amava farsi chiamare Don Raffaele e farsi fare ritratti. Somma fu la sua delusione quando l'espressionista Kokoshka rifiutò di immortalare il suo volto su tela. Alto, sguardo scuro e penetrante, piaceva alle donne, ipnotizzava col suo carisma gli uomini. Usava un linguaggio forbito, a volte di difficile comprensione, ricco di citazioni, riferimenti letterari e filosofici. Negli ultimi anni della sua vita soffrì molto per problemi alla prostata, da lui vissuto come una perdita di virilità: "quando un uomo - confidava sconsolato ad un amico - funziona solo dalla cintola in su è soltanto un mezzo uomo". Dopo la morte della prima moglie che gli diede il primo figlio Giuliano, si risposa con la bella Lucia Monti, discendente di una brillante famiglia di intellettuali borghesi milanesi, e mette al mondo altri tre bambini, Maurizio, depositario dei valori della famiglia, Stefano, modesto pittore e Letizia, scrittrice e giornalista. Con la prole, finché son piccoli, non ha grandi rapporti. La moglie lo segue in silenzio, passo dopo passo nella sua carriera. Gli organizza cene, partecipa alle discussioni, diventa depositaria dei suoi più intimi segreti. In casa, ricordano i figli, il presidente della Comit non parlava quasi mai della banca. Preferiva discettare di arte e lettere, spesso addirittura parlando in latino. I figli ricordano che, protetto dalle mura domestiche, Don Raffaele dava sfogo al suo convinto e radicale antifascismo con sfuriate e grida contro il regime di Mussolini. E che di contro i suoi rapporti con il Duce, pur rimanendo formali erano caratterizzati dalla profonda stima che Mussolini nutriva nei confronti del "banchiere eretico".
Con la figlia Letizia, inizia ad avere un rapporto molto stretto quando scopre la di lei passione per la letteratura. Inizia così un periodo di grande intimità tra i due, complice la lettura di testi sempre più impegnati. Tra le sue ammiratrici c'è poi l'affascinante Anna Bonomi Bolchini, da lui stimatissima per il suo intuito, da lui spronata, spinta e incoraggiata nel mondo della finanza, anche se poi finirà per deluderlo. Sarà lei la misteriosa ed elegante signora che ogni giorno, dopo la sua morte, si reca al cimitero portando fiori freschi. Le facce di Mattioli sono tante: tra queste c'è quella del Mattioli crociano: di Don Benedetto fu oltre che cultore, anche grande amico. E con lui condivise il sostanziale disprezzo per le Logge e la Massoneria, anche se non furono pochi quelli che insinuarono che dietro al suo ingresso in Comit ci fosse la dolce spinta di qualche Gran Maestro. E poi c'è anche il Mattioli cinico e bugiardo. Così lo ricordano i suoi concittadini di Vasto, paesino abruzzese dimenticato presto da Mattioli che elegge la Milano internazionale a sua patria e che decide di non tornare più nella sua terra d'origine, anche da morto, rifiutando la sepoltura nel piccolo villaggio e preferendo il riposo eterno nell'aristocratico cimitero dei preti cistercensi alle porte di Milano. Ma a Vasto Mattioli ci andò poco anche da vivo. Più volte i suoi compaesani vanno a trovarlo nel suo ufficio di Piazza Scala per chiedergli di venire in visita al paese o di partecipare a qualche dibattito. E ogni volta lui promette, poi dimentica, e a Vasto non ci andrà mai con somma delusione dei suoi vecchi amici d'infanzia che lo ricordano infatti, seppur bonariamente, come un gran burlone.La carrieraMa andiamo con ordine, e cerchiamo di capire come fece Mattioli da Vasto ad arrivare in Piazza Scala, sulla poltrona di presidente della Comit, risollevando la banca dalla profonda crisi in cui la trovò il giorno del suo ingresso. Nasce il 20 marzo 1895. Di famiglia benestante, viene spronato agli studi dal padre che sogna un giorno di vederlo diventare avvocato. L'indipendente giovanotto tradirà però le aspettative del genitore: va a Genova e si iscrive alla facoltà di economia. "l'economia - spiegherà Mattioli a chi gli chiedeva il motivo della sua scelta - è contemporaneamente storia e filosofia, e la sua filosofia, qualche volta astrusa, è sempre connessa alle miserie e alle speranze umane". Nel frattempo il giovane Raffaele si sposa con Emilia, dalla quale ha il primo figlio Giuliano. La moglie muore però poco tempo dopo di febbre spagnola. Raffaele rimane solo con il piccolo, ma non si perde d'animo. Un paio di anni dopo si laurea con una tesi sulla stabilità delle monete destinata a far scalpore. Siamo nel 1921. Improvvisamente si libera l'ambitissima poltrona di segretario generale alla Camera di Commercio di Milano.
Mattioli, ventisettenne, vince il posto, si insedia, e dopo un anno di duro lavoro viene confermato. A qualcuno però quella nomina non va giù. I candidati esclusi fanno ricorso, puntando essenzialmente sul fatto che il "vincitore" non ha l'età richiesta dal bando, è quindi troppo giovane. In realtà dietro quella nomina ci sono potenti raccomandazioni, prima tra tutte quella del rettore della Bocconi, Angelo Sraffa sotto la cui ala protettiva Mattioli troverà spesso rifugio. Mattioli lo sa, e dopo poco presenta una lettera di dimissioni dal tono umile e mesto, sicuramente non nel suo stile. Inizia così la brillante carriera del banchiere eretico.L'approdo in Piazza ScalaGiancarlo Galli ricostruisce puntigliosamente l'ingresso di Mattioli alla Comit. Ad agevolare l'insediamento è la sua amicizia con Giuseppe Toeplitz, ebreo nato a Varsavia, trasferitosi poi a Genova e diventato dominus assoluto e incontrastato della Comit. Un uomo brillante e intraprendente che però riuscì a lasciare la Comit in uno stato di totale disorganizzazione e prossima al fallimento. Fu la successiva gestione Mattioli a risollevare le sorti della banca pubblica. Dal 1973 la banca torna ad essere solida e in utile, e per tutto il periodo di presidenza di Don Raffaele nessuno da Roma interferì mai con richieste di nomine, sia durante il fascismo che in democrazia. Toepliz fu dunque "l'iniziatore" del Gattopardo di Piazza Scala, ma l'allievo superò ben presto il maestro. Differenti visioni sull'economia e sulla finanza creeranno un disaccordo insanabile tra i due. Mentre Toepliz tenta di portare la Comit a diventare una banca d'affari, Mattioli vorrebbe riportarla ad una più normale quanto solida attività di credito. Toeplitz è per il liberismo sfrenato e totale, Mattioli si rende conto dell'indispensabilità dell'intervento dello Stato nell'economia. Come Mattioli anche Toeplitz non ha simpatia per Mussolini. Ma entrambi si rendono conto, da buone volpi dell'economia quali sono, che per il quieto vivere è necessario anche saper ogni tanto chiudere un occhio. E anche nei confronti della Chiesa e del Vaticano i rapporti di Mattioli seguono più direzioni. Tutti conoscono la sua proverbiale laicità, ma la stessa Comit, per anni è stata un punto di riferimento del Vaticano. Durante l'era Toeplitz la Santa Sede fu uno dei più validi sostenitori finanziari dell'istituto, e anche nel dopoguerra - come riferisce Galli - parlando de "il cliente speciale", in Comit si faceva riferimento al Vaticano.
L'abilità e la furbizia di Mattioli traspaiono anche nella gestione dei suoi rapporti con la stampa. Come una primadonna Don Raffaele gioca un po' a rimpiattino con i giornalisti, offrendosi e negandosi a seconda delle sue necessità. Memorabile rimase una sua "spedizione" negli Usa. Anche Mattioli, come poi Cuccia ma in maniera decisamente più accentuata, aveva perfettamente capito l'importanza di contatti internazionali. Decide quindi di guidare una delegazione di banchieri a Washington, dove ai tempi ancora non era conosciuto. Fu così che anche in terra statunitense il Gattopardo riuscì a far colpo su tutti, con il suo inglese spesso accompagnato da un rapido gesticolare e quella verve intelligente e latina che gli garantivano successo ovunque. Ebbene, nessuno ha mai capito come, dopo essere rimasti per giorni senza che nessuno si accorgesse del loro arrivo, ad un certo punto la stampa finanziaria dà l'annuncio del suo "sbarco" in terra americana e titola a quattro colonne: "The fabulous italian banker". Mattioli era stato accreditato nel mondo della finanza americana. L'uscita di Mattioli dal suo disordinato ufficio di Piazza Scala segna anche l'ultimo capitolo della sua vita. Al suo posto gli succede Gaetano Stammati, Ragioniere generale dello Stato. Non certo la persona che Don Raffaele avrebbe voluto veder prendere il suo posto. Ma il cambio della guardia è anche indice di un cambio generale dell'aria. La Comit fa gola a Roma, ai partiti. E da quel momento la maggior parte delle nomine vennero decise proprio nella capitale. Mattioli era diventato scomodo, troppo individualista, idealista, slegato dai poteri della politica. Il più grande colpo fu per lui vedere che nonostante la sua assenza in Comit tutto procedeva. Il suo declino era iniziato. Trascorrerà gli ultimi mesi dedicandosi allo sviluppo degli studi storici per la Ricciardi. Morirà un anno dopo a Roma, nella clinica Villa Margherita dove era andato per farsi operare.Giancarlo Galli, giornalista e saggista, nel suo "Il banchiere eretico" ha tentato di definire la complessa personalità e l'opera di Mattioli, entrato in Comit non ancora trentenne e uscitovi dopo 27 anni di ininterrotto servizio il 22 aprile 1972. Muore nel 1973. Personalità complessa quella di Mattioli, al centro della scena finanziaria post-bellica e gran tessitore di relazioni. Pur essendo ostile al fascismo, aveva ottimi rapporti con Mussolini, non rinunciando neppure all'amicizia con Togliatti. Non disdegnava il compromesso, senza mai vendersi a nessuno. Lo chiamavano il banchiere eretico per la sua laicità e per il suo totale distacco dal potere del Vaticano. Molto individualista e idealista, ha sempre operato slegato dai poteri della politica.da Uomini e business aprile 1988