Diventa socio
Sostieni la nostra attivitą
Contatti
Il problema del dolore è, filosoficamente, il più difficile da risolvere. Per il cristiano è la via scelta da Cristo stesso, misteriosamente, per redimere l'uomo. Si può dunque cercare, solamente, di intuire qualcosa, di intravedere un senso, per quanto nascosto e velato.
E' evidente, invece, che l’uomo aspira, con la ragione, alla Verità delle cose, e tende, col cuore, al Bene. Ma cosa è che ce lo svela? Cosa fa capire all’uomo ciò che, in ultima analisi, domanda e desidera? La chiave, lo strumento di questa conoscenza non è solo la pura ragione, capace, per assurdo, di divinizzare se stessa, bensì il dolore, nel senso più ampio possibile: il lavoro, che ci è imposto, stimola la ricerca, l'azione stessa della ragione; la mancanza di qualcosa, di un bene, di una quiete, della felicità fisica o interiore, mancanza vissuta dolorosamente, ci muove verso ciò cui aspiriamo. L’uomo dunque coglie la sua imperfezione, la sua miseria, nel dolore.
E proprio quando riconosce che "le sue mani sono vuote", solitamente, intuisce che ciò che manca alla sua limitatezza esiste, e si chiama Dio. In ogni situazione di dolore, infatti, come in una tempesta, c'è qualcosa che ti promette la quiete, il porto, la pace. Qualcosa ti dice: più avanti, aspetta, spera, non è per questo, né solo questo… Anche il peccato, come male spirituale, esige il compimento del perdono, promette la bellezza della riconciliazione, la pace dell'anima, a meno che non diventi peccato contro lo Spirito, e cioè inversione cosciente dei concetti di bene e di male. Dio dunque è esigenza di ogni nostra mancanza, e il dolore rende questo chiaro e manifesto.
Se ne desume dunque che non è mai un bene in se stesso, bensì una mancanza di bene, epperò molla del nostro comprendere e del nostro tendere. Ci svela dunque, per via d’esperienza, quello che possiamo apprendere per via di ragione: non siamo l’Essere, Assoluto, Perfetto, e cioè compiuto, ma abbiamo l’essere, un essere che tende al compimento, a colmare, per così dire, le sue mancanze. Non siamo da noi e per noi, salvezza a noi stessi, ma dipendiamo: “Il nostro cuore è inquieto finché non riposa in Te”, scriveva S. Agostino. Ma il dolore lascia anche capire che ciò che può colmare il nostro cuore è un Dio personale, un Dio che ama.
Così svela all’uomo, contemporaneamente, la sua mendicità, la sua miseria, e la sua grandezza, ciò che è e ciò per cui è fatto. Inoltre il significato del dolore si può in parte comprendere dalla vita morale. E’ innegabile che in esso l’uomo si purifica, come l’oro nel crogiolo: il superbo conosce l'umiltà, l’invidioso capisce il suo errore, l’egoista si apre alla carità, il lussurioso comprende il vero valore delle cose materiali…
Il dolore è così, paradossalmente, l'altra faccia dell'amore, anche quando appare come "punizione". La pensa così Manzoni, che ha perduto otto figli su dieci, allorché parla del "Dio che atterra e suscita, che affanna e che consola", o quando delinea la figura di Ermengarda, quella di Napoleone, o quella di don Rodrigo che muore di peste. "Può essere castigo, o misericordia", dice fra Cristoforo a Renzo, alludendo alla possibilità che la malattia risvegli anche in don Rodrigo un desiderio di perdono. Se il paragone è lecito, castigo e misericordia, insieme, vivono anche nel dolore di due terribili dittatori, come Lenin e Stalin, che si erano innalzati al livello di Dio. Le loro morti lasciano atterriti per l'incredibile somiglianza che le caratterizza, e per l'eloquenza biblica e “metafisica” del loro male, della sopraggiunta impotenza. Nell’ultimo periodo della sua vita Lenin ebbe vari attacchi di trombosi cerebrale, paralisi del braccio e della gamba destri, grave sclerosi delle arterie cerebrali, tanto che al cervello non arrivava la necessaria quantità di sangue e di ossigeno; perse, inoltre, l’uso della parola. (R.Clark, Lenin, Bompiani). A Stalin, invece, “un ictus lo folgorerà, facendolo stramazzare al suolo, paralizzandogli il lato destro del corpo e privandolo dell’uso della parola…” (G.Rocca, Stalin, Mondatori). Castigo e misericordia, intendo, come avrebbe detto Oscar Wilde, che parlando della sua triste condizione di prigioniero, dopo una vita di piaceri consunti e di peccato, prima di convertirsi, scriveva: "Ora io trovo nascosto in qualche luogo della mia natura qualcosa che mi dice che nulla al mondo è privo di significato e men che tutto la sofferenza. Quella cosa nascosta nella mia natura, come un tesoro in un campo, è l'umiltà". E’ consolante pensare che anche a Lenin e Stalin sia stata data l’opportunità, sino all’ultimo, per attingere al tesoro.