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Paolo Mieli, il Corriere, don Gelmini e il giornalismo fazioso.
Di Francesco Agnoli - 09/08/2007 - Attualitą - 1357 visite - 0 commenti

Paolo Mieli, il direttore del Corriere, deve avere qualcosa in sospeso col mondo cattolico. Qualche sassolino nella scarpa, un'inveterata antipatia che gli impedisce di mantenere l'obiettività. E' una storia lunga, da ripercorrere. Data almeno dall'auspicio, espresso in un celebre editoriale, che il partito di Pannella, con il suo "laicismo temperato", potesse crescere elettoralmente.

C'è stato poi il famoso referendum sulla legge 40, quando Mieli schierò tutto il giornale, senza scissioni di sorta nella pur nutrita redazione, sulla stessa posizione: la sua, contro la legge. All'epoca arrivò al punto di pubblicare sistematicamente le voci discordi rispetto alla propria con un titolo ambiguo, ma utile alla causa: "perchè no" a caratteri cubitali, e piccolissimo "o astensione". In realtà la gran parte degli intervistati, a volte tutti, erano appunto per l'astensione, secondo la posizione della Chiesa, ma proporre il no come vera alternativa al sì poteva essere un grazioso escamotage per far raggiungere il quorum. Poi ricordo la ricerca disperata del Corriere per rintracciare dissidenti, tra il mondo cattolico, secondo il vecchio stratagemma di mostrarlo diviso e litigioso. Nello stesso tempo, con analoga furbizia, l'opzione cattolica ortodossa doveva sempre essere incarnata da un sacerdote, quasi mai da un laico, per mettere in luce un presunto carattere clericale della posizione astensionista.

Sono seguite, in ordine cronologico, le gigantografie di Welby, per fare appello al sentimentalismo, secondo la sperimentata tattica dei casi pietosi, paginate intere sui preti pedofili in America, per finire con l'abnorme spazio dato all'accusa di violenza sessuale a don Pierino Gelmini, l'uomo, si noti la malizia, "alla testa di un impero antidroga". Un uomo potente, si dice negli articoli, con tante amicizie politiche: opportunissimo allora riportare il giudizio imparziale e ponderato di Luxuria ("che invita a non assolvere don Gelmini solo perché è un sacerdote") o di Katia Belillo ("E' un sacerdote potente: io chiedo garanzie per chi lo ha querelato"). Poco importa che don Gelmini abbia dedicato la sua vita ai tossicodipendenti, che sia già stato accusato ingiustamente di pedofilia, che gli accusatori siano degli ex tossici, espulsi dalla comunità per furto, e quindi desiderosi di vendetta. Poco importa che don Gelmini abbia servito l'Italia per tutta la vita, e che in assenza di condanne e di prove sarebbe bene non mettere alla gogna nessuno, neppure il peggior nemico politico, o religioso.

Detto tutto questo devo esternare tutto il mio stupore anche di fronte ad alcuni articoli di Pierluigi Battista, altra firma di rilievo del Corriere, essendo il vice di Mieli, che talvolta scrive pezzi equilibrati, prendendo le distanze da certi eccessi di laicismo nostrano, quasi fossero faccenda d'altri, ma che in fondo in fondo la linea laicista del suo quotidiano deve in qualche modo condividerla. Infatti recentemente Battista ha recensito a tutta pagina, quasi in ginocchio, un testo "singolarmente intelligente" di un altro collaboratore del Corriere (ma va!), Christopher Hitchens, autore di un testo intitolato "Dio non è grande. Come la religione avvelena ogni cosa". Si tratta di un libro che rimastica luoghi comuni ridicoli, cui chi abbia studiato solo un poco la storia non dovrebbe dedicare un secondo del suo tempo, prezioso o meno che sia. Dice, il Battista, riprendendo Hitchens, che "nel nome di Dio è storicamente e statisticamente più frequente che ci si ammazzi e ci si stermini reciprocamente anziché aiutarsi solidalmente a vicenda". Per lui ogni malvagità umana, in fondo, deriva non dall'uomo, dalla sua miseria, dalla sua tendenza al male, ma dalla religiosità. E finge di non sapere che il 90 per cento della solidarietà, ad esempio nel nostro paese, nasce appunto da persone religiose, e che il 90 per cento delle cosiddette "guerre di religione", da quelle dei principi protestanti alla strage della notte di san Bartolomeo, per usare esempi scolastici, sono conflitti nati per motivi politici, economici, umani, in cui l'elemento religioso si è solo aggiunto, a posteriori, come aggravante, su un'inimicizia preesistente. Ma soprattutto dimentica che proprio "statisticamente" l'ateismo in un solo secolo ha fatto più morti di tutte le religioni del mondo in duemila anni di storia: gli oltre cento milioni di vittime del comunismo ateo, gli stermini del nazismo, ateo anch'esso, le guerre mondiali dell'Europa ormai non più cristiana, almeno nei suoi governi, per finire con i milioni di vittime dell'aborto, della droga, e del nichilismo di massa.

Basterebbe l'esempio della Cambogia, in cui Pol Pot aveva vietato per legge ogni religione. Lì, in quel paese governato da personaggi che avevano appreso il loro ateismo a Parigi, e avevano ammirato il deista Robespierre, dal 1975 al 1979 vi furono 2 milioni di morti su sette di abitanti! Lì si bruciavano i libri e gli album delle fotografie, perché scomparisse il ricordo del mondo precedente. In alcune regioni fu proibito leggere, ridere o cantare; ogni spostamento era controllato, ogni proprietà, perfino delle posate personali, proibito; le case tutte uguali. Quanto alla morale sessuale ci furono: massacri eugenetici di malati, feriti e handicappati; pena di morte per i rapporti fuori dal matrimonio; divieto di ogni segno d'affetto tra coppie, in pubblico; divieto di utilizzare le parole "padre" e "madre", anche per i bambini… Lì gli intellettuali venivano eliminati, non quando dicevano corbellerie, caro Hitchens, ma sempre, appena venivano identificati.

 
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