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Il caso Galilei: controstoria. Conclusione.
Di Francesco Agnoli - 26/07/2007 - Scienza - 1880 visite - 0 commenti

Dopo il decreto del 1616 Galilei entra in contrasto con il gesuita Orazio Grassi, valente scienziato e architetto della chiesa di Sant'Ignazio a Roma, intorno all'apparizione di alcune comete nel cielo. Il Grassi in un suo scritto sostiene contro Aristotele che le comete costituiscono dei veri e propri corpi celesti, situati oltre la sfera lunare. Galilei risponde interpretando "la parte di un aristotelico conservatore" inoltrandosi "in una selva di incoerenze" (Rossi, p.123), e definendo le comete, erroneamente, come effetti ottici dovuti ai riflessi della luce solare sui vapori che circondano la terra.

La sua trattazione è tutta giocata in attacco, con un linguaggio ed un tono che sconcertano i Gesuiti, che si sentono ingiustamente attaccati, dopo tanto favore concesso allo scienziato pisano. In effetti Galilei adotta sovente, nelle sue polemiche, un linguaggio violento, brutale, che gli alienerà nel tempo molti amici, definendo gli avversari "serpe lacerata, castrone, scorpione, solennissima bestia, ignorantissimo bue, animalaccio…". La verità è che non tollera che i Gesuiti, abbandonato Tolomeo e Aristotele, stiano sempre più abbracciando il sistema geo-eliocentrico di Tycho Brahe.

Nel 1623 esce "Il Saggiatore" dedicato al nuovo papa, il cardinal Maffeo Barberini, col nome di Urbano VIII. La sua elezione è motivo di grande gioia per Galilei, che lo ricorda come un amico e un grande estimatore. Decide così che è venuto il tempo di tornare a Roma, dove giunge il 23 aprile del 1624: il giorno dopo è già accolto in una lunga udienza privata dal papa, che lo rivedrà, in tre mesi, ben sei volte. Nel periodo della sua permanenza nell'urbe Galilei constata di essere ancora stimato ed amato da molti cardinali e uomini di curia. Lascia Roma carico di doni ricevuti direttamente dal papa, insieme ad un attestato in latino in cui si esaltano le doti e le scoperte del "dilectus filius Galilaeus", che può essere considerato, a quest'epoca, a tutti gli effetti, "l'astronomo ufficiale del papa".

Anche i suoi allievi più intimi, padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, fanno fortuna: il primo viene nominato alla nuova cattedra di matematica dell'università pontificia La Sapienza nel 1626, mentre il secondo nel 1629 assume la stessa cattedra a Bologna. Commenta Pietro Redondi: "il più prestigioso insegnamento scientifico universitario in terra papale era assicurato ad un galileiano" (P. Redondi, "Galileo eretico", Einaudi, p. 119-123).

In realtà, amicizia e stima a parte, Urbano VIII dissente su un punto, in particolare, rispetto a Galilei: ritiene che "poiché per ogni effetto naturale può darsi una spiegazione diversa da quella che a noi sembra la migliore (data l'onnipotenza divina, ndr), ogni teoria deve muoversi sul piano delle ipotesi e rimanere su questo piano". Ad una siffatta opinione Galilei risponde con un ragionamento assai più realista e quindi più conforme alla dottrina cattolica: nessuna conoscenza umana limita la libertà e l'onnipotenza di Dio, perché "noi non cerchiamo quello che Iddio poteva fare, ma quello che Egli ha fatto". L'uomo infatti è dotato di ragione per conoscere le realtà naturali, benché altre realtà, quelle soprannaturali, abbisognino della Rivelazione divina, delle sacre Scritture.

Nel 1632 esce il "Dialogo sopra i due massimi sistemi", l'opera che segna la rottura con Roma. Galilei viene infatti immediatamente convocato a discolparsi, e sostiene insistentemente di aver voluto confutare, non avvallare, la teoria copernicana. L'evidente menzogna rafforza l'ala intransigente del sant' Uffizio, che attribuisce a Galilei alcune colpe: l'aver trattato il sistema copernicano come verità assoluta, pur in assenza di prove concrete, e non come ipotesi; l'aver posto in bocca a Simplicio, cioè ad uno sciocco, persino nel nome, incaricato di difendere le idee aristoteliche, alcune frasi di Urbano VIII, lanciandogli così una evidente sfida; l'aver proposto come prova incontrovertibile della teoria copernicana, erroneamente, il moto delle maree, mettendo nel "mazzo con le vecchie ridicolose" la posizione degli scienziati vaticani i quali collegavano a ragione le maree alla attrazione della luna (mentre Galilei bollava questa opinione come una credenza magica).

Galilei si trova dunque a mal partito: da una parte il suo tentativo di negare la realtà, dall'altra il rancore di Urbano VIII, che si sentiva offeso personalmente, da un uomo che aveva sempre trattato con benevolenza ed onori. "All'origine dell'iniziativa inquisitoriale stava in primo luogo lo sdegno del papa Urbano VIII" (Camerota, p. 632): è bene ribadire questo concetto, l'esistenza di questo scontro personale e non dottrinale, senza il quale non si capiscono molte vicende, come ad esempio il fatto che Urbano VIII, con notevole testardaggine, non ascolti nè il suo teologo personale, Agostino Oreggi, nè il celebre teologo Pasqualigo, consultato anch'egli dal papa stesso, i quali erano entrambi sostenitori della necessità di distinguere "tra ciò che appartiene alla fisica, ciò che spetta alla matematica e ciò che appartiene alla metafisica" (Redondi, p.316 e p.318, 342. Pasqualigo scriveva: "Non vedo come la fisica e la teologia debbano essere confuse in una sola scienza"). Il 22 giugno 1633 Galilei abiura davanti ai suoi giudici, che in numero di sette su dieci condannano la teoria copernicana, senza però definirla formalmente eretica, e senza impegnare la infallibilità della Chiesa.

Galilei non fa un giorno di carcere, vive alcuni giorni presso il palazzo dell'ambasciata toscana di villa Medici, per poi essere accolto "con sincera amicizia", dall'arcivescovo di Siena, Ascanio Piccolomini, nell'attesa che l'estinzione della epidemia pestilenziale gli consenta di tornare ad Arcetri, nella sua villa vicino Firenze. Nel 1634 muore la dilettissima figlia Suor Maria Celeste, che lo aveva aiutato a sopportare con fede anche le avversità di uomini di Chiesa, e gli ulteriori attacchi dei colleghi universitari, come il professore di filosofia dello studio pisano Chiaramonti o aristotelici libertini come Antonio Rocco, che attaccavano Galilei anche per le scoperte del Nuncius. In un bilancio finale, infine, occorre ricordare che il sistema copernicano verrà dimostrato molto più avanti, con le scoperte del 1725, del 1837 e definitivamente nel 1851 con gli esperimenti di Foucault. Galilei morirà l'8 gennaio del 1642, munito della benedizione papale, assistito dai discepoli Evangelista Torricelli e Vincenzo Viviani, e, come ebbe a scrivere il Viviani stesso, "con filosofica e cristiana rassegnazione rese l'anima al suo Creatore": lui che mai aveva dubitato della capacità delle Scritture di indicare la via al cielo, che non aveva mai contrapposto scienza e fede; lui che aveva raggiunto la fama e la celebrità grazie alla consacrazione dei Gesuiti e del papato, prima di inimicarseli con le sue violente polemiche, nonostante l'avversione degli scienziati e degli universitari laici dell'epoca; lui, infine, che era incorso, non senza alcuni suoi gravi errori, nel risentimento non certo lodevole di un papa che sino ad allora era stato suo amico e protettore.

 Una storia complessa, dunque, che in troppi hanno voluto elevare a simbolo di uno scontro teorico, dottrinale, quello tra scienza e fede, che non ci fu (basti pensare che tutte le opere di Galilei furono subito ristampate, anche in terra pontificia, ad eccezione del solo Dialogo).

Se lanciamo ora un veloce sguardo agli sviluppi successivi della scienza e della cultura dopo Galileo, possiamo dire che Urbano VIII non comprese quello che invece avevano capito tanti ecclesiastici di rango come mons. Giovanni Ciampoli, consigliere e addetto culturale del papa stesso, oltre che eminenza grigia della Segreteria di Stato vaticana, il celebre padre Mersenne e molti altri, che videro sempre in Galilei il filosofo e lo scienziato cristiano chiamato finalmente a sostituire l'astro-biologia pagana di Aristotele, e a combattere "contro il naturalismo averroistico e l'irreligiosità libertina e magica" allora in auge. Ciampoli auspicava l'abbandono di Aristotele, non certo per quanto riguarda i principi della logica, ma affinché si ponesse un limite "a quell'ibrida mescolanza tra dogmi cattolici e filosofia aristotelica" che risultava spesso ingiustificabile, soprattutto in fisica (e che in realtà già nel medioevo aveva portato il vescovo di Parigi Tempier a condannare l'eternalismo di Aristotele). Padre Mersenne, dal canto suo, si schiera dalla parte della nuova scienza "come un argine di fronte ai pericoli grandissimi che sono rappresentati, per il pensiero cristiano e il suo patrimonio di valori, dalla ripresa dei temi magici, dalla diffusione della tradizione ermetica, dalla presenza di posizioni che si richiamano al naturalismo rinascimentale e alle dottrine presenti nel pensiero di Pomponazzi…" (Rossi, p.205). Ciampoli, Mersenne e tanti altri (la lista degli ecclesiastici galileiani sarebbe troppo lunga, da padre Riccardi, maestro di Sacro Palazzo e superiore dei domenicani, a mons. Sforza Pallavicino, a scienziati come don Balli, padre Maignan, padre Valeriano Magni, padre Stefano Degli Angeli, padre Francesco Maria Grimaldi…oltre ai già citati padre Benedetto Castelli e padre Bonaventura Cavalieri, sino a don Marco Ambrogetti e padre Clemente Settimi, che stettero accanto al vecchio Galileo, ormai cieco, per scrivergli gli appunti e rispondere alle lettere) videro giusto: con lo scienziato pisano la magia entrò definitivamente in crisi, e con essa tutte le filosofie animiste e panteiste, e quindi anti-cristiane, che erano risorte coll'umanesimo e il rinascimento.

Il nuovo avversario della fede, da allora, non sarebbero stati più i maghi e i filosofi pagani, che interpretavano il mondo come un "grande animale", ma i filosofi razionalisti, atei e materialisti, che toglieranno l'anima non solo alle stelle, ma anche agli uomini.

Prima, però, ci fu la generazione degli scienziati credenti: dopo l'ecclesiastico Copernico, Galilei e il religiosissimo Keplero, vi furono, a prescindere da alcune incrostazioni esoteriche, scienziati devoti come Isaac Newton, Robert Boyle e tanti altri. Spetterà a questi due, in particolare, il compito di teorizzare una visione meccanicistica cristiana, già adombrata da alcuni religiosi in epoca medievale, escludendo però un indebito allargamento del meccanicismo al regno dello spirito. Boyle, per esempio, attaccò spesso i seguaci di Epicuro, di Democrito e di Cartesio, che volevano trarre conclusioni materialiste dal meccanicismo, dichiarando che "il problema della 'prima origine delle cose' va tenuto accuratamente distinto da quello del 'successivo corso della natura'".

Dal canto suo Newton prese le distanze dai "possibili esiti ateistici e materialistici del cartesianesimo", affermando che il "cieco destino" e il "Caos", non avrebbero mai potuto essere chiamati in causa per giustificare, insieme alle mere leggi della natura, il "disegno intenzionale", divino, intelligente e non casuale, sotteso alla creazione. "La ammirevole disposizione del sole, scriveva Newton, dei pianeti e delle comete può essere solo opera di un Essere onnipotente e intelligente", che ha posto in essere leggi naturali che hanno cominciato ad operare solo dopo che l'universo è stato creato. "Newton e i newtoniani, conclude lo storico della scienza Paolo Rossi, non accettarono mai l'idea che il mondo possa essere stato prodotto da leggi meccaniche" (Rossi, p.207,208).

 
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