Non c’è instante della vita che non sia precario: basta, come notava Pascal, una goccia d’acqua ad ucciderci. In agguato, ogni momento, ci sono le malattie, i tracolli economici, la morte stessa, nostra o di un nostro caro. Siamo qui e ogni tanto dovremmo stupirci, e ringraziare: ogni mattina di essere vivi, ed ogni sera di poter posare il capo. Ringraziare per questo, ricordare che ogni capello della testa è contato e prezioso; vivere ogni momento della nostra vita, come se fosse nostro, sapendo che è di Dio: è la posizione dei "poveri in spirito", l’indifferenza di Sant’Ignazio e l’abbandono fiducioso di Santa Teresina. Benessere o povertà, salute o malattia, affetti o solitudine, fertilità o sterilità: tutto può essere accettato e vissuto con quella santa rassegnazione che qualcuno ha potuto scambiare per “una morale da servi”. Qualcuno che cercava il superuomo, voleva andare “oltre”, perché non sapeva stare qui. Che diceva “oltre”, ma non sapeva indicare dove. Perché in verità cosa ci libera dalla precarietà, dalla contingenza e dalla fugacità delle cose? Cosa dal desiderio continuo di avere o di apparire? Cosa può rendere il nostro animo più lucido, più costante, più sereno, se non la costante e ferma consapevolezza di essere e di valere più di ciò che muta, di ciò che finisce e di ciò che limita? La rassegnazione cristiana è presupposto di una vera libertà: rende l’uomo padrone, superiore ad ogni evento negativo e ad ogni accidente transeunte. Non paralizza, ma libera, perché non scaturisce dallo spavento, dalla paura, dall’ansia per il presente o il futuro, ma dalla assenza di terrene preoccupazioni, alla luce dell'eternità. Garante e padre della nostra libertà è Dio, che provvede ad ogni nostro bisogno, soccorre ad ogni prova, sovviene ad ogni necessità, lasciando alla libertà umana di accoglierlo o meno.
Non servono allora, in questa ottica, strategie di emancipazione, di liberazione, modalità artificiali di finto ed illusorio controllo sulla vita o sulla morte, nascite artificiali o morti procurate, diritti sempre nuovi e innaturali. Questo indaffararsi a riplasmare il mondo, infatti, è una tendenza prometeica, che oppone la libertà come ribellione alla rassegnazione fiduciosa. "Liberazione" diviene così la parola d’ordine dei movimenti beat, hippy, e di tutto il Sessantotto: liberazione dai tabù sessuali, dalla religione, dalla natura, dal pensiero… Sono molto chiari, al riguardo, gli slogans dell’epoca. Ne ricorda alcuni un protagonista come Aldo Ricci, scrittore e fotografo che studiò a Trento: “Né maestro né Dio, Dio sono io”; Il sesso è tuo, liberalo”; “Lotta dura contro natura”; “Fate saltare le menti meccaniche con l’acido santo”; “Vitamine al vostro cervello: Lsd”; "Freedom for Satana"; "Inventate nuove perversioni"... Di cosa sono espressione questi pensieri, liberi perché slegati, sradicati, e cioè pazzi ("a pensar senza imbarazzi/chi più liberi dei pazzi?"), se non di una fortissima incapacità di stare nella realtà, nella natura, in ciò che ci è dato? Di cosa, se non di una mancanza di libertà, che esplode in tutte le direzioni, perfino contro se stessi, con l’esaltazione del suicidio e della droga? L’ex ministro della Giustizia, Giovanni Flick, proprio in quegli anni, parlando della "liberalizzazione totale" delle droghe, arrivava a scrivere che la droga è "espressione di autodeterminazione…di libertà morale...una scelta individuale di ricerca del piacere, di rifiuto della sofferenza, di sottrazione alle convenzioni"("Droga e legge penale", Giuffrè). Liberazione, in questo senso, non significa più libertà di muoversi nelle infinite possibilità offerte dalla realtà, né capacità di esprimere la propria originalità ed unicità in un percorso personale attraverso la vita, ma, al contrario, libertà da tutto ciò che esiste, dal nostro corpo, dalla razionalità, dalla nostra stessa personalità, sino all'annullamento nirvanico, al "vuoto mentale", alla "droga rabbiosa" e alle visioni infernali di Allen Ginsberg, ai viaggi in India o in Brasile di Mauro Rostagno e compagnia, a sperimentare i funghi allucinogeni e l'evocazione di spiriti…Al fondo c’è sempre l’insoddisfazione gnostica, l’odio per la vita: "Chi odia me- dice la Sapienza- ama la morte". Lo sapeva bene anche Jack Kerouac, che nella prefazione al suo "Le città delle notti rosse", scriveva: "questo libro è dedicato agli Antichi, al Signore delle Abominazioni…Angelo Oscuro di tutto ciò che è escrezione e corruzione, Signore della Decomposizione… a Ix Tab, patrona di coloro che si impiccano….al Distruttore…al Signore degli Assassini. Niente è vero. Tutto è permesso".
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