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Madri Selvagge. Dopo il referendum sulla legge 40
Di Mattia Tanel - 11/05/2007 - Bioetica - 1205 visite - 0 commenti
«Come mai non leggiamo sui giornali di sinistra che Vandana Shiva, Naomi Klein, le organizzazioni femministe e non solo nei Paesi Terzi, gran parte dei no global hanno posizioni durissime e diffidenti nei confronti delle tecniche di fecondazione assistita e di manipolazione degli embrioni?». Bella domanda. Se la sono posta due «femministe libertarie di sinistra», Alessandra Di Pietro e Paola Tavella, sul Foglio del 7 giugno 2005 (cioè a pochissimi giorni dal referendum sulla legge 40), in un articolo che aveva già avverato se stesso: era stato infatti inizialmente proposto al quotidiano di sinistra per cui le due giornaliste scrivevano di solito, il manifesto, che l’aveva puntualmente cassato. In effetti, negli ultimi anni è successo in Italia un fatto piuttosto strano: il vasto e variegato dibattito critico che dalla fine degli anni Settanta ha avuto come oggetto le tecniche di fecondazione artificiale è stato completamente silenziato, obliato addirittura nelle coscienze dei suoi stessi protagonisti, per essere gradualmente sostituito da una contrapposizione semplicistica quanto fasulla: le donne, la libertà e la scienza da una parte, l’oscurantismo ultracattolico e le ingerenze ruiniane dall’altra. Persino le femministe italiane, che fino al giorno prima avevano dibattuto della fecondazione artificiale senza celarne i rischi e le prospettive anche inquietanti, in occasione del referendum preferirono nascondersi dietro questo schema di comodo, mettendo «momentaneamente da parte» i loro ragionamenti «in nome di una minaccia proveniente direttamente dalle gerarchie vaticane» (Elena del Grosso). Un atteggiamento riassumibile nei seguenti termini: i vescovi hanno sempre torto, anche quando sono d’accordo con noi. Eugenia Roccella, un’intellettuale femminista che durante la campagna referendaria optò per la coerenza di fronte allo strepitio anticlericale delle sue colleghe, ebbe a dire in un’intervista: «credo che le nostre battaglie da femministe siano oggi tradite, innanzitutto, dalle femministe stesse». Per rendersi conto della verità di questa affermazione basterebbe sfogliare le pagine della pubblicazione collettanea Madre Provetta (Franco Angeli Editore), del 1994, o fare un salto all’indirizzo web http://www.rinocammilleri.it/beyondengine/frontend/exec.php?id_content_element=310, in cui, con il referendum alle porte, venivano elencate alcune nettissime posizioni di organizzazioni femministe e no global a livello internazionale. Per chi, invece, avesse voglia di una riflessione più recente [il presente articolo è stato scritto ad aprile 2006, ndr], è uscito a febbraio [sempre 2006, ndr] presso Einaudi l’ottimo Madri Selvagge. Contro la tecnorapina del corpo femminile, libro con il quale Alessandra Di Pietro e Paola Tavella danno seguito al succitato articolo per Il Foglio e alla loro astensione militante in occasione del referendum. Madri Selvagge è un «manifesto radicale di amore per la vita» che pone finalmente con forza, da parte progressista, alcuni temi che negli ultimi tempi sono stati appannaggio quasi esclusivo dei cattolici. Si parla innanzitutto delle cause dell’infertilità, argomento totalmente rimosso che a ben vedere è alla base di qualsiasi riflessione in materia di pma: «se nei Paesi sviluppati la fertilità umana è diminuita soprattutto a causa dell’inquinamento alimentare e ambientale», osservano le due autrici, «la soluzione sarebbe vietare l’agricoltura chimica e l’emissione in atmosfera di nuove sostanze incontrollate. Invece», ed è questo che la grande informazione misconosce, «si sceglie la protesi reazionaria, la fecondazione artificiale extracorporea, che apre ai gruppi farmaceutici un nuovo immenso spazio di speculazioni e di profitti». Con il relativo paradosso: «chi provoca l’infertilità fornisce, allo stesso tempo, il rimedio artificiale. Non a caso, spesso scienziati finanziati dalle case farmaceutiche sono in prima linea a sostenere soluzioni tecnoscientifiche all’infertilità» (pag. 30). Il potere biotecnologico «maschile» allunga le mani sul corpo femminile per sperimentare su di esso soluzioni «pesanti, invasive, grezze, poco sicure» e largamente inefficaci, lucrando sul desiderio di maternità e nascondendo alle donne le controindicazioni e i rischi, anche mortali, delle procedure a cui si sottopongono. Rischi per le donne stesse, innanzitutto, ma anche per gli eventuali nuovi nati: sono impressionanti le percentuali di malformazioni e di patologie che colpiscono i figli di «madre provetta». «È sulle donne e sulle sorti delle generazioni future», affermano Paola e Alessandra, «che avviene la prima sperimentazione di massa del biotech sugli umani» (pag. 48; si vedano, per quanto riguarda i rischi per le donne e i nuovi nati, i dati scientifici e statistici esposti in G.M. Carbone, La fecondazione extracorporea, ESD, Bologna 2005, pagg. 23-33). Per non parlare della compravendita degli ovuli, pratica che nasconde i suoi risvolti schiavistici dietro il termine «ovodonazione» e che le autrici definiscono efficacemente, nel capitolo omonimo, «rapina delle uova». Com’è noto, alcune forme di fecondazione artificiale eterologa, la cosiddetta clonazione terapeutica e la ricerca sulle staminali embrionali necessitano di un grande numero di ovuli, estratti dai corpi di donatrici prezzolate (strane donatrici...), previamente sottoposte a pesanti bombardamenti ormonali. Quello che i sedicenti pro-choice si guardano bene dal dire è che tali procedure minano la salute della «donatrice» fino a provocarne, ironia della sorte, la sterilità. Non solo. Gran parte degli ovuli provengono da paesi poveri, in particolare dell’Europa orientale, in cui la miseria spinge centinaia di donne, tra le quali molte ragazzine, a vendere in cambio di due soldi la propria femminilità, spesso e volentieri senza che i centri a cui si rivolgono le informino dei possibili rischi. In nome del concetto astratto di «autodeterminazione della donna», il neocolonialismo tecnoscientifico ha dato vita a un enorme e sordido giro d’affari basato sullo sfruttamento delle donne concrete, meglio se povere, ignoranti e provenienti da Paesi sottosviluppati: lontano dagli occhi, lontano dal cuore. Ciò che sconcerta, infatti, è che tutto questo avvenga con il placet del fronte progressista italiano, che fonda la propria pretesa superiorità morale sulla difesa degli oppressi (siano essi foche monache o linciatori alla Carlo Giuliani), ma transige sulla difesa della vita e della dignità umana, in ossequio alla diffusa mentalità nichilisteggiante o a qualche grande interesse economico. Si pensi ad esempio a un tipo come Umberto Veronesi, incorrotto paladino della Scienza per i media progressisti, che all’insaputa del grande pubblico lucra sulle biotecnologie con la sua Genextra. Ad ogni modo, Di Pietro e Tavella sembrano fare eccezione. Il loro libro analizza altre importanti questioni che i referendari di un anno fa [due, ndr] hanno bellamente ignorato, come ad esempio l’inesistenza di cure dalle cellule staminali embrionali o il ritorno in grande stile dell’eugenetica nelle nostre odierne democrazie; gli ultimi due capitoli, Travagli e Spruzzi, si diffondono sulle tematiche più generali della medicalizzazione della gravidanza e dell’allattamento, con argomentazioni brillanti e a tratti sorprendenti. Un unico aspetto, in Madri Selvagge, non convince per nulla («Atti di Coraggio Femminista Elementare Radicale» e consimili bizzarrie a parte), ed è la soluzione fornita al problema dello statuto dell’embrione. Le due autrici sono favorevoli all’aborto e temono, peraltro del tutto ragionevolmente, «che riconoscere veramente l’embrione come umano sia ammettere che abortire significa uccidere» (pag. 96), ma tali premesse non dovrebbero dispensarle dal rispetto della logica aristotelica del terzo escluso: l’embrione, questa «entità» che secondo gli odierni «illuminati», non privi di gusto per il paradosso, «sarebbe stato più prudente non sbattere sotto i riflettori» (Chiara Valentini), per Di Pietro e Tavella non è né un grumo di cellule né un essere umano, né del materiale biologico né una vita individuale, cioè né cosa né persona, né oggetto né soggetto. E allora cos’è, visto che tertium non datur? Non si sa. I «misteriosi embrioni» (la definizione, a questo punto pertinente, si trova a pag. 108) appartengono comunque alla donna «in virtù di una relazione carnale»: «se gli embrioni sono di qualcuno, sono delle donne» (pag. 103). Alle nostre femministe sfugge, forse, che le categorie di «proprietà» e di «potestà» su un terzo esprimono modalità di rapporto tipicamente maschili e paterne (paternalistiche, direbbero loro); la specificità e l’essenza del femminile, del materno, è l’esatto contrario, espresso dalle categorie di «accoglienza», «reciprocità», «tutela». Certo femminismo è stato spesso accusato di perseguire la parità della donna a spese della donna stessa, rincorrendo ed emulando il modello e la mentalità maschile: attenzione a non ricadere inavvertitamente nell’errore, disputandosi l’embrione ai dadi con preti e tecnoscienziati. Perché ogni uomo, embrione compreso, appartiene solo a se stesso e – posto che esista, come infatti esiste – a Dio.
 
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