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San Giuseppe Cottolengo e Italo Calvino.
Di Francesco Agnoli - 11/05/2007 - Religione - 1595 visite - 0 commenti
Inizia oggi, per il nono anno consecutivo, a Carpi, un singolarissimo "Festival internazionale delle abilità differenti", durante il quale l' "umanità nascosta" dietro il limite, fisico e psicologico, l'umanità oscurata, come la divinità di Cristo nell'orto degli ulivi e sulla croce, esprime a tutti, liberamente e disinvoltamente, la possibilità per ognuno di trovare una strada, una possibilità, sempre, anche nella debolezza e nella sorte più avversa. Quasi a ricordarci che ogni prova, come diceva san Paolo, ci viene data insieme alla forza e alla grazia per superarla. La stella di quest'anno sarà senza dubbio Tony Melendez, un uomo maturo, privo degli arti superiori, che da anni canta la sua Fede, accompagnandosi con la chitarra…suonata con i piedi. Dietro questa iniziativa, tanto silenziosa quanto straordinaria, non vi è nulla di antico, nessuna radice greca, spartana, ateniese, romana, illuminista o orientale. Vi è solo la fiducia cristiana nella vita, la capacità di sperare contro ogni speranza, la forza della carità evangelica, essenziale all'uomo, per non essere come "bronzi che risuonano" e "cembali che tintinnano", a vuoto, senza una melodia. A me un festival simile fa venire alla mente la grande storia di Giuseppe Cottolengo, un sacerdote che nella Torino dell'Ottocento assiste impotente alla morte di una donna gravida. Questo incontro, di cui è costretto ad essere testimone, è per lui un richiamo, che cambia l'esistenza. In quindici anni crea un'opera immensa: prima un paio di camerette, in cui assiste più di duecento malati, poi un asilo infantile, poi la famiglia dei sordomuti, quella degli adolescenti caratteriali, quella degli orfani, degli invalidi, degli handicappati, degli epilettici, di coloro che negli altri ospedali vengono rifiutati. Nasce in breve, dalla sue mani sante, una cittadella, la "Piccola casa della divina provvidenza": un nome paradossale, per un luogo in cui le miserie e le deficienze umane più terribili, si accumulano, e si incontrano con la grandezza dell'amore di altri uomini. Di fronte a questa realtà, il povero conte Camillo Benso di Cavour, tanto abile politicamente, quanto povero di spirito, si chiede cosa vi sia di sacro nel diritto alla vita di esseri in cui evidentemente non riesce a riconoscere, dietro le apparenze non belle, non attraenti, delle creature di Dio e dei corpi destinati a risorgere gloriosi (Antonio Sicari, Ritratti di santi 1, Jaka Book). Oltre cent'anni più tardi, la radicale abortista Adele Faccio, scriverà: "Fatemi capire perché bisogna difendere il diritto alla vita di migliaia di esseri deformi, inadatti, incompleti, che riempiranno quel museo degli orrori che è il Cottolengo". Museo di orrori: è effettivamente la reazione più normale, nell'uomo decaduto, quando non vuole accogliere il dolore dei fratelli, ma solo respingerlo, negarlo, allontanarlo da sé, come uno scandalo, intollerabile per chi vi assiste (visto che chi lo vive, già lo sopporta). Anche un altro grande personaggio, Italo Calvino, farà il suo incontro con questa realtà. Lo racconta nella "Giornata di uno scrutatore", il diario, ha scritto Andrea Sciffo sul Timone, "di uno scrutatore del partito comunista che, impegnato ad evitare possibili raggiri elettorali della democrazia cristiana al seggio elettorale nell'istituto Cottolengo di Torino, rimane imbrigliato in una umanità mai vista". Davanti si trova "ragazzi-pesce", creature deformi, inimmaginabili. Di fronte a tale mistero la sua mente cerca di catalogare e definire: "fino a che punto un essere può dirsi un essere, di qualsiasi specie?"; "fino a dove un essere umano può dirsi umano?", si chiede, respingendo immediatamente la possibilità che la realtà sia, semplicemente, quella che si vede. Mentre pensa, ragiona, mentre quasi "vuole fare un discorso sulla società come avrebbe dovuto essere secondo lui", deve però fare i conti con le suore liete, serene, che dedicano ogni attimo della loro vita, a quell'umano nascosto, che chiede di essere incontrato e amato, e che lui vorrebbe, invece, cancellare tout court, non si sa come. In verità, osservando la letizia delle suore, Amerigo si domanda: "una beatitudine esiste? (e se esiste allora va perseguita?)". E conclude con una commovente descrizione, ben poco marxista, di un ragazzo idiota, che il padre viene sempre a trovare, ogni domenica, solo per vederlo masticare: "Ecco, pensò Amerigo, quei due, così come sono, sono reciprocamente necessari. E pensò: ecco, questo modo d'essere è l'amore…l'umano arriva dove arriva l'amore; non ha confini se non quelli che gli diamo".
 
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