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I governi tecnici sono una bufala. Parola di studioso della democrazia
Di Giuliano Guzzo - 14/11/2011 - Attualitą - 1510 visite - 0 commenti

Come molti avevano pronosticato e più di qualcuno temeva, alle dimissioni di Silvio Berlusconi è seguito l’insediamento di un governo di esperti guidato dal professor Monti. Un governo tecnico salverà l’Italia, o quanto meno ci proverà con maggior probabilità di successo, libero come sarà da qualsivoglia preoccupazione elettorale: questo il ragionamento che va per la maggiore tra coloro che appoggiano il neopremier. Ma la democrazia - ancorché preda di burrasche finanziare - può affidarsi alle mani dei tecnici? E’ saggio credere in questo genere di soluzioni? Per tentare di dare una risposta il più possibile puntuale ed equilibrata, è bene affidarsi alla parola di un politologo, anzi “del” politologo, almeno quando si parla di democrazia: Robert Alan Dahl, classe 1915, decano degli studiosi americani di scienze politiche e già docente a Yale.

Un nome che a molti suonerà nuovo, ma che gli studiosi di democrazia conoscono benissimo. Ebbene, il professor Dahl, anni fa, ha pubblicato un testo fondamentale intitolato Democracy and Its Critics, pubblicato in Italia da Editori Riuniti. Si tratta di un librone di oltre 500 pagine dove l’idea e la pratica della democrazia vengono analizzate con acume impressionante, tenendone presenti tutte le possibili varianti. Tra queste, Dahl ha pensato bene di considerare anche l’ipotesi di governo tecnico. Stroncandola. Ma diamo la parola direttamente a lui, al professore: «Qualsiasi tesi a favore di un governo retto da un’èlite esclusivamente tecnocratica risulta indifendibile[…] in generale i tecnocrati non sono più qualificati di altri per formulare le valutazioni morali essenziali. Anzi, potrebbero essere anche meno idonei di altri. I tecnocratici, infatti, soffrono di altri difetti a cui non vi è rimedio in un mondo come il nostro, dove la conoscenza ha raggiunto altissimi livelli di complessità: innanzitutto, la specializzazione richiesta oggi per poter acquisire un grado elevato di conoscenza specialistica è di per sé limitante; si diventa specialisti in qualcosa, cioè in una cosa, e necessariamente si rimane ignoranti in altri campi».

Poi, continua Dahl, «non vi è alcuna arte o scienza che da sola possa dimostrare in maniera soddisfacente la propria pretesa a riunire in sé la comprensione morale e strumentale necessaria nel mondo contemporaneo a effettuare scelte politiche». Infine, conclude dicendo «che su numerose questioni politiche, le valutazioni strumentali dipendono da presupposti che non sono strettamente tecnici o scientifici, e neppure molto rigorosi […] a causa di questi difetti nella conoscenza specialistica, gli esperti dimostrano una totale incomprensione verso l’ostinato rifiuto del mondo reale di funzionare secondo le loro regole» (La democrazia e i suoi critici, Roma 1990, p. 102).

Interessante, al di là delle singole argomentazioni, è osservare il punto di vista generale di Dahl, che come abbiamo visto giudica insostenibile «qualsiasi tesi a favore di un governo retto da un’èlite esclusivamente tecnocratica». Figurarsi come potrebbe giudicare un Paese come il nostro, finito nelle mani di un governo di tecnici non solo senza passare per le urne, ma interamente (o quasi) composto da figure mai elette in nessun ambito politico e pertanto del tutto nuove all’esperienza parlamentare. In questo caso, a ben vedere, lo stesso parlare di “esperti” potrebbe quindi risultare un azzardo. Che è meglio non sottoporre al professor Dahl come variante di democrazia, se non si vuole incorrere in una bocciatura del nostro Paese che, per molti versi, sarebbe più grave di tutte quelle accumulate sinora.

 
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