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Gli “indignados”- parola fastidiosa che ormai designa un modo di fare spesso altrettanto fastidioso, quando non criminale-, se la stanno prendendo con le banche e, qualche volta, con quelle strane agenzie di rating che detengono un potere inaudito, senza che alcunché lo giustifichi. Ci sarebbe quasi da pensare che per una volta il bersaglio non è poi tanto sbagliato, se dietro l’indignazione non facesse capolino l’odio cieco e assassino, e se l’alternativa allo strapotere delle banche non fosse, per molti (per fortuna non per tutti) la follia comunista (quante bandiere rosso sangue, a Roma!).
Certo che se Alessandro Profumo ricevesse oggi la sua vertiginosa liquidazione di 40 milioni di euro, forse a sinistra si avrebbero più remore di qualche mese fa a proporlo, immediatamente, come il papa straniero da candidare a premier del paese. Ma su questa colonna devo fare il controriformista, mai il rivoluzionario, per cui, invece di indignarmi (chè mi troverei in brutta compagnia), mi limiterò a raccontare due storie interessanti.
Quelle di due mercanti-banchieri del medioevo cristiano. Gente di avventura, di rischio, di coraggio; che viaggiava e investiva del suo… Gente, soprattutto, che non di rado veniva richiamata, dalla Chiesa, dalla parola evangelica, dalla propria fede, al vero significato della ricchezza e del guadagno. Gente che viveva sapendo che Dio esiste, e che alla fine ci chiederà conto. Mi riferisco al celeberrimo Francesco Datini e al meno famoso Marco Carelli. Al primo sono dedicati due libri molto recenti, “Ragionar tra mercanti” di Paolo Nanni e “Padre mio dolce. Lettere di religiosi a Francesco Datini”, a cura di Simona Brambilla.
Questi studi ci parlano di un ricco e capace mercante pratese, rimasto orfano dei genitori durante la peste nera del 1348, che costruì “un solido sistema di aziende che, oltre alle sedi di Avignone, Prato e Firenze, si estende nel tempo a Pisa, Genova, Barcellona, Valenza e Maiorca”. Molto ricco, dunque, e molto abile, il Datini era anche un uomo di fede che sapeva dedicarsi, oltre che alle attività redditizie, anche all’arte, alla preghiera, all’elemosina, che “copre la moltitudine dei peccati”.
Il suo epistolario contiene le lettere di 220 religiosi che si rivolgono a lui in mille circostanze, per sollecitarne l’aiuto: chi ha bisogno di soldi, chi chiede per un bisognoso, chi desidera mattoni, stoffe, cibo, olio per le lampade… A queste richieste il Datini risponde, spesso con generosità; in più si rivolge a pittori ed artisti per opere destinate ad abbellire il proprio palazzo, ma anche le chiese e i conventi della città. Tutto ciò non come gli evergeti del passato, per ambizione, per l’ onore, per divenire il benefattore, osannato, della città. In lui vi è un autentico spirito religioso, per cui se alcune donazioni divengono pubbliche, altre rispondono al motto evangelico: “non sappia la tua destra ciò che fa la tua sinistra”. Datini è ormai anziano, siamo nell’agosto 1399, quando partecipa ad una delle peregrinazioni dei Bianchi, da Firenze, passando per Arezzo, fino a Fiesole. I Bianchi sono pellegrini “tutti vestiti di bianco, e scalzi” che fanno penitenza per i propri peccati, fanno pace con i nemici e restituiscono i guadagni illeciti.
Pochi anni dopo, nel 1410, nel suo testamento, redatto in presenza di cinque frati francescani da lui stimati, Datini lascia tutti i suoi beni a conventi, ai poveri, per i quali istituisce il “Ceppo Nuovo dei poveri”, e a varie istituzioni ospedaliere. Proprio da 1000 fiorini da lui donati allo Spedale di santa Maria Nuova per costruire un ricovero per “gettatelli”, nascerà il celeberrimo Spedale degli Innocenti di Firenze.
L’altra figura cui accennavo è quella del mercante Marco Carelli. La sua storia è ricostruita nel bellissimo libro di Martina Saltamacchia, “Costruire cattedrali. Il popolo del Duomo di Milano”. Si tratta di una preziosissima ricerca d’archivio in cui si dimostra la storia della fede del popolo milanese, che con le sue donazioni e i suoi sacrifici fu il principale finanziatore della cattedrale della città. L
a vicenda del Carelli è ancora più edificante di quella del Datini. Infatti il mercante milanese è un uomo d’ingegno che in breve tempo, esportando lana, importando allume, commerciando spezie, facendo investimenti terrieri e finanziari, raccoglie una ricchezza immensa. Ebbene quest’uomo che con i confratelli della Scuola dei milanesi si è dedicato anche all’assistenza dei poveri, ancora in vita, un giorno decide, seduta stante, di donare tutti i suoi beni per la costruzione della cattedrale, richiedendo “di concedergli solo un frugale vitto e una stanzetta presso il cantiere da allora al giorno della morte”. “E così alla fine di una vita ricca di avventure e alterne fortune, dopo aver avviato una fiorente attività commerciale e aver costituito pressoché dal nulla un solido patrimonio di case e terreni, il ricco mercante si spogliò di tutto quanto possedeva”, e visse gli ultimi anni della vita, sino alla morte nel 1394, in vera povertà.
Così si sapeva fare, un tempo, quando bisognava salvare l’anima, quando i Mazzarò di Verga erano rari, perché più chiara era l’idea di ciò che siamo sulla terra a fare: salvare l’anima (e il corpo).Il Foglio, 20 ottobre 2011