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Marianna Rizzini, sul Foglio di sabato 7 ottobre, ha raccontato le indagini sul professor Aldo Schiavone, già direttore del Sum, l’Istituto italiano di Scienze umane di Roma. Tre paginate per spiegare “quanto ci è cara la cultura”, a partire da un caso volutamente poco celebre, ma assai significativo.
Quanto ci è cara? Dovrebbe essere noto a chiunque abbia messo piede in un’università, o in un assessorato alla cultura. A chiunque abbia sperimentato un poco come nel nostro paese vi siano una serie di soggetti e di associazioni, spesso legati a doppio filo con la politica, che organizzano eventi “culturali”, presentazioni di libri, incontri spesso di dubbio valore, ma immancabilmente con i soldi dei cittadini. E con tutto il corollario di rimborsi viaggio, rimborsi albergo, gonfiati, che ci gira intorno.
Ma torniamo al professor Schiavone. Sarebbe davvero bello che le accuse, numerose e circostanziate, cadessero nel nulla. Che le limousine pagate con i soldi pubblici, dal professore marxista, “per lavoro”, per il bene delle scienze umane, si rivelassero, in verità, umili autovetture proletarie, adatte solo per inevitabili spostamenti. Chissà. Magari persino gli alberghi di lusso, i pranzi sontuosi, i viaggi prolungati, i fiori e tutto ciò di cui lo Schiavone, a sentire l’accusa, si è abbondantemente servito, risulteranno invece normali spese di lavoro. Non sono più, in fondo, i tempi di Diogene, che girovagava vestito solo con una botte, e che schifava i potenti, e neppure quelli di Socrate o degli asceti medievali. Oggi la cultura ci è cara assai e ci costa in proporzione.
Nel caso però si scoprisse che l’accusa dei magistrati è vera, allora si aprirebbe forse, finalmente, una finestra su una delle caste di cui si parla assai poco: quella dei professori universitari. Lungi da me generalizzare, ovviamente; e neppure voglio accodarmi ai cacciatori professionisti di caste, anche perché mi sembra che si tratti, sovente, di una guerra tra bande: in cui alla fine si scopre che chi conduce l’attacco, appartiene, due su tre, ad una lobby concorrente. Però è innegabile che uno dei pozzi neri, senza fondo, in cui il nostro paese viene risucchiato, è l’università pubblica: luogo, spesso, di concorsi pilotati, di sistemazione spudorata di parenti e clientes e di spese sovente inutili e sovrabbondanti. N
on si strappino gli abiti, le vestali della cultura. Abolire una buona parte delle cattedre universitarie, sforbiciare alquante delle spese inventate dai professori per pubblicare libri altrimenti impubblicabili o per invitarsi a vicenda da una università all’altra, potrebbero essere operazioni molto utili al paese intero Detto questo, il moralismo di oggi, è più che mai una moneta falsa. Se l’accusa a Schiavone fosse vera, lo dimostrerebbe una volta di più.
Il professore, infatti, è un predicatore di “Repubblica”: i suoi bersagli preferiti sono la Controriforma, che secondo un ritornello tanto sciocco quanto ripetuto avrebbe rovinato l’Italia, rendendola un paese cattolico e quindi arretrato, e l’attuale “disastrosa deriva di comportamenti” e di etica. Ora se è vero che per scrivere su Repubblica non si può non rimpiangere il buon tempo antico, ante Berlusca, quando le persone non parlavano al conducente, i treni arrivavano in orario e tutti veneravano la Costituzione, è anche vero che vivere coerentemente di imperativi categorici fondati sul nulla, sebbene urlati con foga, non è poi molto semplice. Cosa è la legge, infatti, in un tempo in cui tutto è sottoposto a maggioranza e nulla è mai dichiarato santo e venerabile per sempre? Cosa è morale, nell’epoca del relativismo etico, in cui tutto è lecito, tranne qualcosa la cui iniquità è stabilita, di volta in volta, non si sa in fondo perché, in base ad una instabile convenzione mediatico-politica? Quali sono i comportamenti condannabili, per un giornale, quello di Schiavone, che condanna l’immoralità, vera, di un avversario politico, ma lotta ogni giorno perché ogni concetto di vero e di giusto oggettivi scompaia dalla nostra mente.
La storia di Schiavone, se vera, sarebbe esemplare: da una parte le prediche, dure, savonaroliane, dall’altra la vita di tutti i giorni, molto meno intransigente, specie quando si tratta non di altri, ma di se stessi. C’è un’ultima considerazione da fare: la vacuità di molti uomini di cultura odierni. I Mancuso che vogliono “rifondare”, loro, al computer, nientemeno che la fede di Agostino e Tommaso; gli Augias che, consultando internet, tentano di ribaltare i fatti storici più acclarati; gli Schiavone o gli Eco che, non potendo mettere la loro intelligenza al servizio di Dio, e della Verità, cui non credono, costruiscono prediche buone per l’effimero palcoscenico del mondo e per gli applausi immediati del Palasharp.
C’è un sapere che è premio a se stesso, perché ricerca, appagante, di Verità; e ce n’è un altro, erudizione e vanagloria, più che sapienza, che ama mettersi sul palco perché non può aspirare a nulla di più; che ha bisogno di penne di pavone, di foto sui giornali, di pranzi cosmopoliti e di continui “viaggi di lavoro”, se possibile in limousine, perché più in alto è ormai impossibile andare. Il Foglio, 13 ottobre 2011