Motivazioni religiose della lotta del papato contro gli Svevi (parte 2/3)
[...continua] Sin da quando Eugenio III (1145-1153) diede, non richiesto, la sua approvazione all'elezione imperiale di Federico Barbarossa (1152), secondo l'uso invalso dall'elezione di Lotario II (1125-1137), la Chiesa dimostrò di non voler permettere al giovane sovrano di affermare il proprio legittimo diritto al di fuori della sua nuova preponderanza. E quale fosse la posta in gioco si vide nel Trattato di Costanza, che lo stesso papa Paganelli e lo Svevo siglarono il 23 marzo 1153: in esso le due parti, non potendo abdicare alle proprie prerogative, si tutelano reciprocamente gli honores, ossia le sfere di sovranità (segno che la Curia già paventava una violazione del Concordato di Worms, che infatti non fu menzionato, anche se poi Federico lo rispettò nei fatti); negli ambiti politici in cui le due potenze avevano diritti contrastanti, esse procedevano insieme, promettendosi aiuto reciproco contro il Comune di Roma e i Normanni. Con questo, la Curia si cautelava da alleanze imperiali coi propri nemici temporali, in un'epoca in cui lo Stato Pontificio era considerato indispensabile per un libero esercizio del potere spirituale. Entrambi poi promettevano di non fare concessioni territoriali a Bisanzio, accettando così di essere i due Soli dell'universo cristiano latino.
Le contraddizioni insite in una simile politica non tardarono ad esplodere quando, alla morte di Eugenio III (1153) e dopo il breve papato di Anastasio IV (1153-1154), salì sultrono Adriano IV (1154-1159). Con lui, inizia una serie di pontefici che, specularmente a Federico I, si servono di una positiva cultura giuridica canonica come mezzo per perseguire obiettivi politici concreti, volti a rafforzare la posizione della Chiesa contro i suoi nemici. Si era ormai esaurita la linfa religiosa della Riforma gregoriana, che proprio in Eugenio, cistercense, aveva trovato l'ultimo rappresentante. L'Imperium e il Sacerdotium dovevano confliggere di nuovo.
Adriano tuttavia all'inizio non avrebbe voluto discostarsi dalla politica di Eugenio III, e rinnovò il Trattato di Costanza (gennaio 1155), per fermare l'aggressione normanna allo Stato Pontificio e per schiacciare il Comune romano e il suo leader, l'eretico Arnaldo da Brescia, la cui predicazione scalzava dalle fondamenta il dogma cattolico, sulla scorta di un antitemporalismo di matrice criptomanichea. Ma il corso degli eventi spinse il pontefice inglese a modificare la sua politica: se infatti le truppe imperiali riuscirono ad arrestare Arnaldo per farlo giustiziare, la loro restaurazione del dominio temporale fu effimera, in quanto il Papa fu espulso da Roma dai cittadini ribelli subito dopo l'incoronazione imperiale di Federico I (18 giugno 1155). Questi poi già nel corso del vertice di Sutri (8 giugno 1155) aveva manifestato chiaramente la sua volontà di restaurare l'egemonia imperiale sulla Chiesa, rifiutando a Adriano persino gli onori formali tradizionali (il servizio di staffa). Al Papa che chiedeva la piena sovranità sullo Stato Pontificio e l'attuazione delle Donazioni territoriali dei precedenti imperatori, Federico I oppose un netto rifiuto, volendo che Roma rimanesse parte dell'Impero. Inoltre, sebbene i suoi soldati avessero sconfitto i ribelli romani, non restaurò la signoria papale sulla città, mirando a minacciare l'indipendenza materiale del potere religioso.
A questo punto Adriano, convinto che Federico costituisse la più grande minaccia per la libertas Ecclesiae, stipulò il Trattato di Benevento (18 giugno 1156) con i Normanni - tornando alla politica di Niccolò II e Gregorio VII - riconoscendo Guglielmo I come re, accordandogli i privilegi della cosiddetta monarchia sicula, e ottenendo in cambio il riconoscimento della sua sovranità feudale sul Mezzogiorno e un tributo annuo, che contribuisse a sanare le sue dissestate finanze. In virtù di ciò, Adriano potè recuperare facilmente lo Stato Pontificio e persino rientrare a Roma: l'indipendenza politico-finanziaria della Chiesa era salvaguardata. Sebbene il Papa non ritenesse tale accordo lesivo del Trattato di Costanza, la rottura con Federico era però inevitabile. Su quanta ambiguità si basassero i loro rapporti lo si vide col famoso incidente di Besangon, quando, in piena Dieta imperiale, il cancelliere Rainaldo di Dassel, corifeo della fazione antipapale, tradusse una lettera di Adriano in modo tale da far credere che il Papa rivendicasse la sovranità feudale sull'Impero. Adriano fu costretto a dare delle assicurazioni a Federico. Questi, nella Dieta di Roncaglia (nov. 1158) fece valere i suoi diritti imperiali sull'Italia settentrionale e sulla Corsica in modo lesivo delle prerogative papali, rivendicando le regalie - ossia i diritti sovrani - nei confronti dei feudatari, dei comuni e dei vescovi, e propose come arcivescovo di Ravenna un prelato inaccettabile per la Curia. L'imperatore cominciò ad applicare i decreti di Roncaglia in tutta Italia, persino a nord del Patrimonium Petri. Praticamente, tutto l'asse ecclesiastico era considerato un bene dello Stato e sottoposto a tassazione. Adriano, ritiratosi ad Anagni, si avvicinò politicamente ai Comuni, promettendo la scomunica contro Federico, se non avesse annullato i decreti di Roncaglia. Egli considerava empi anche gli atti contro i Comuni, che ormai avevano acquisito le loro libertà per diritto consuetudinario, e chiedeva la piena sovranità della Santa Sede su Roma, oltre che l'abolizione delle regalie per i vescovi italiani. Tale regolamentazione sarebbe stata in linea con lo spirito del Concordato di Worms. Ma la morte del Papa fece svanire la minaccia. Quello che avvenne dopo dimostra però quanto importante fosse l'aspetto religioso del conflitto, e come la concezione della Chiesa dividesse profondamente gli stessi cardinali, proprio in relazione a Federico.
In effetti, non tutto il Sacro Collegio era favorevole alla svolta antimperiale di Adriano, e il conclave si spaccò. Sebbene si fosse concordato che l'elezione dovesse essere unanime, la maggioranza elesse il cardinale Rolando Bandinelli, intimo collaboratore del papa defunto, che prese il nome di Alessandro III (1159-1181), mentre una minoranza favorevole all'imperatore pretese d'imporre, anche con la forza, il cardinale Ottaviano da Monticelli,che s'intitolò Vittore IV (1159-1164) . Ne derivò uno scisma, nel quale Federico non aveva avuto alcuna parte - anche se subito riconobbe Vittore — e che scaturiva da divisioni di teologia politica: se al grosso dei cardinali andava bene l'idea che la Chiesa fosse sovrana nel proprio ambito, alla minoranza scismatica non dispiacevano le concezioni di Federico I, secondo cui solo l'Impero era sovrano, mentre la Chiesa - e solo nelle questioni strettamente spirituali - era al massimo indipendente. Vittore IV in effetti nella sua prima lettera manifestò il suo rispetto per la sovranità imperiale.
Non interessa al nostro discorso l'andamento dello scisma; basti rilevare però due cose: anzitutto, che la sua prosecuzione alla morte di Vittore IV si dovette anzitutto alla Corte imperiale, in quanto il cancelliere Rainaldo di Dassel - senza nemmeno consultare Federico - fece eleggere Pasquale III (1164-1168), e lavorò attivamente perché il numero dei seguaci dell'Antipapa non diminuisse; la seconda verte sulla maniera in cui lo Scisma si risolse. La Chiesa, non avendo un'istanza arbitrale che potesse comporre il dissidio di una duplice elezione papale, e rifiutando il giudizio dell'Imperatore - che per secoli aveva composto simili dispute - superò la divisione spontaneamente: così com'era accaduto nello Scisma del 1130-1138, essa riconobbe un solo papa progressivamente, in itinere. Secondo la dottrina di Bernardo di Chiaravalle, essa agì come un organismo mistico vivente, il Corpus Christi, e spontaneamente converse, tra vari pronunciamenti locali, su Alessandro. Lo riconobbero anche molti vescovi tedeschi, alla morte di Vittore IV, nonostante le pressioni di Rainaldo di Dassel. Questa soluzione spontanea indica che tutto l'Occidente cristiano non riconosceva, al di sopra e al di fuori della Chiesa, alcuna autorità. L'esito dello Scisma, inoltre, sconfessava la politica ecclesiastica di Federico, che anzi, alla morte di Rainaldo di Dassel, cercò diverse scappatoie. Non solo non riconobbe Callisto III (1168-1178), successore di Pasquale, ma alla fine, sconfitto a Legnano dai Comuni (1176), si decise alla pace, siglata preliminarmente ad Anagni (1176) e definitivamente a Venezia (1177). Gli accordi sancivano il riconoscimento reciproco, e la rinuncia alle regalie, da parte dell'Imperatore, nel Patrimonium. Federico restituiva i territori papali occupati, ma non i Beni matildini, e le sue decisioni ecclesiastiche, prese nello Scisma, erano ratificate. Altre concessioni da lui fatte ai Comuni a Costanza, riconoscendoli quali soggetti di diritto feudale ed inserendoli nella costituzione formale dell'Impero, allentavano la pressione di quest'ultimo sull'Italia e la Chiesa. Ma nessuna delle questioni di principio era stata risolta. E questo perché nessuna delle due parti era ancora tanto forte da prevalere. Bisognava aspettare l'età di Federico II per tagliare il nodo gordiano. La Chiesa tuttavia si liberò dello spettro degli Scismi imperiali grazie ai decreti del III Concilio Lateranense, che stabilivano le norme dell'elezione papale, legate ai due terzi dei suffragi cardinalizi, valide ancor oggi, ed escludendo definitivamente ogni ruolo del potere politico. Il resto del regno del Barbarossa passò in contrasti secondari con Lucio III (1181-1185) e Urbano III (1185-1187). Sebbene l'Imperatore, incorporando la decretale Ad abolendam (1184) nelle leggi imperiali, fece nascere il braccio secolare dell'Inquisizione (sin dalla legislazione giustinianea l'eresia e lo scisma erano sanzionati dallo Stato), e sebbene avviasse i preparativi della III Crociata, non aiutò i Papi contro il Comune di Roma, non rinunciò ai Beni matildini, contese con la Curia per l'elezione dell'arcivescovo di Treviri e si avvicinò ai Normanni, combinando il matrimonio di suo figlio Enrico con Costanza d'Altavilla. Il Papato poteva trovarsi chiuso in una morsa tra due tronconi di un solo Stato. La sua indipendenza era minacciata. Ma le contromisure prese erano insufficienti: l'ostinato rifiuto di Lucio e Urbano di riconoscere Enrico VI come re d'Italia e futuro imperatore tradivano la debolezza della Chiesa dinanzi al rafforzarsi della dinastia sveva. Urbano III fu di fatto imprigionato a Verona, lo Stato Pontificio occupato e l'Episcopato tedesco messo al guinzaglio con la neutralizzazione politica dell'arcivescovo Filippo di Heinsberg, partigiano della Curia. Col nuovo papa Gregorio Vili (1187) Federico trovò un'intesa in vista della Crociata, e gli restituì libertà e beni. Clemente III (1188-1191) in nome della realpolitik tralasciò di pretendere che Federico, nel Trattato di Strasburgo (1189), rinunciasse alla sovranità su Roma, e quegli evitò di rivendicarla sui Beni matildini, che però continuò a detenere. I contrasti ecclesiastici tedeschi trovarono un compromesso, e il Papa attenuò la sua opposizione ai diritti imperiali di Enrico. Il risultato di ciò fu la III Crociata, nella quale tutta la Chiesa aveva riposto grandi speranze. Ma proprio in essa Federico I trovò la morte (1190), e nessuna delle aspettative del Papa in Oriente si realizzò.
Il breve regno di Enrico VI fu per la Chiesa gravido di minacce: questi si impadronì del Regno di Sicilia, detronizzando Tancredi di Lecce, incoronato col consenso di Clemente III, e impose il suo candidato alla diocesi di Liegi. Incoronato imperatore da Celestino III (1191-1198), Enrico VI tuttavia s'impossessò definitivamente dei Beni matildini e occupò Marche e Romagna. Sebbene Celestino III fosse stato eletto per le sue doti diplomatiche, la rottura era stata inevitabile, specie per il riconoscimento dato dal papa a Tancredi di Lecce. Ora che però era Imperatore e Re di Sicilia, Enrico VI mirava all'organizzazione di una Crociata, per dare un respiro mediterraneo alla sua politica. Ma per organizzarla aveva bisogno dell'aiuto del Papa. Certo, questi non poteva opporsi alla spedizione, ma ne coglieva la natura insidiosa. La fece predicare ovunque, per controbilanciare in essa il peso dell'esercito imperiale. Inoltre, ricevette da Enrico la proposta di riconoscere l'ereditarietà della corona imperiale. In cambio, proponeva di voler ricevere tutto l'Impero dalla Chiesa come feudo. L'ambiguità della proposta era notevole, e solo la morte di Enrico salvò il nonagenario Celestino dal dover prendere una decisione. Dopo un po', morì anche lui. Protagonisti erano ora un bambino, Federico II , e Innocenzo III , che avrebbe messo la Chiesa in condizione di tener testa agli Svevi e a cui l'Imperatrice moribonda aveva affidato il tutorato del figlio. Ella, come Enrico VI morente, aveva riconosciuto i diritti feudali della Chiesa sulla Sicilia, e regolato le questioni ecclesiastiche secondo i desideri del Papa.
Questi, sebbene non ebbe scontri con gli Svevi nel suo papato - anzi propendeva persino per incoronare Filippo di Svevia imperatore - e sebbene a lui debba le sue fortune Federico II che gli promise di tener separate le corone tedesca e siciliana), esercitando una leadership indiscussa su tutta la Chiesa, e imponendo due volte il suo candidato al trono imperiale (Ottone IV [1198-1215] e lo stesso Federico II), ma anche ricostituendo lo Stato Pontificio, gettò le basi materiali per la prosecuzione dello scontro. Ora il Papato era in grado, all'occorrenza, di prendere l'iniziativa, nel quadro di una contrapposizione ideologica più netta. La dottrina, più allegorica che politica e più morale che ontologica, per cui la potestà religiosa somigliava al sole e quella temporale alla luna, per cui l'una presiedeva alle anime e l'altra ai corpi, nonché il diritto all'interferenza nelle questioni politiche ratione peccati o prò bono animarum, elaborati da Innocenzo, giustificarono le rivendicazioni papali di gran lunga meglio di qualsiasi propaganda imperiale e diedero una veste sistematica a tutte le precedenti teorie curialistiche. Del resto, l'esercizio fattivo della potestà di deporre i sovrani, compiuto da Innocenzo III più volte e con successo, e lo speculare sforzo di costituire poteri monarchici nelle varie regioni del mondo, oltre che l'allargamento del numero dei Paesi vassalli della Chiesa, diedero al Papato il prestigio necessario per riprendere poi la lotta con Federico II.
Le aspirazioni di quest'ultimo non erano sostanzialmente diverse da quelle del padre e del nonno, né i mezzi di cui si servì differenti. Ma in lui la sensibilità religiosa era di gran lunga inferiore rispetto a quella del Barbarossa, né capì l'importanza che gli strumenti di politica ecclesiastica potevano avere nel suo disegno. L'impronta più laica che diede al suo operato, in un'epoca in cui sostanzialmente le sue rivendicazioni universalistiche erano ancora più anacronistiche, oltre che il suo obiettivo spregiudicato cinismo, lo fecero realmente apparire, come si legge nell'epitaffio di Innocenzo IV (1243-1254) "il nemico di Cristo, il drago" precursore dell'Anticristo, figlio di una donna strappata a viva forza dal convento (cosa a cui crede pure Dante, anche se con qualche attenuazione), eretico (si veda ancora la Divina Commedia), empio e blasfemo. D'altro canto, Federico II mancava della grande visione strategica del nonno e del padre, e le scelte concrete della sua politica contribuirono non poco alla sua rovina. Alcuni errori erano conseguenza della tradizionale politica sveva e tedesca in genere: l'eccessiva attenzione riservata all'Italia, la trascuratezza nei confronti delle questioni tedesche e la conseguente concessione di autonomie ai principi germanici per coprirsi le spalle nella lotta contro i Comuni. Altri erano suoi propri, come l'eccessiva attenzione riservata alla Sicilia e l'indifferenza alle sorti dell'Outremer cristiano. Ma i più gravi sono insiti nell'ispirazione stessa della sua politica: il sottovalutare forze come la Chiesa o i Comuni o le monarchie nazionali, credendo di poterle mettere a guinzaglio.
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