Ci sono libri che valgono una biblioteca. E di cui magari pochi si accorgono. Mi sembra sia il caso di un testo prezioso, ma troppo coraggioso e troppo colto, in una società in cui gli “storici” ufficiali si chiamano Corrado Augias, gli “scienziati” Piergiorgio Odifreddi e i “filosofi” Giulio Giorello.
Mi riferisco a “La scienza e l’idea di ragione” (Mimesis) di Paolo Musso, docente di filosofia della scienza presso l’Università dell’Insubria e presso l’Università cattolica Sedes Sapientiae di Lima. Musso è uno studioso raffinato, che tramite il dialogo con scienziati veri, in carne ed ossa, e attraverso un’analisi rigorosa dei testi originali, spesso trascurati da coloro che preferiscono le tesi precostituite, giunge a conclusioni difficilmente contestabili. In questo libro anzitutto l’autore spiega chiaramente che la scienza non poteva che nascere laddove si erano già affermate “la fede greca e cristiana in un ordinamento razionale del mondo”, “la fede cristiana nella Creazione come atto libero di Dio”, e, connessa con quest’ultima, “l’idea di contingenza del mondo” materiale (cioè la “rottura col necessitarismo greco e, quindi, col panteismo”).
Solo su questa Weltanschauung, infatti, potette insediarsi Galilei, di cui Musso ricorda le grandi intuizioni, la versatilità e la grandezza, ed anche il fatto che la sua scoperta più importante, l’unità della fisica, trovò nella Chiesa, e in particolare nei Gesuiti, non l’avversario ma il principale alleato, contro accademici, astronomi e averroisti contemporanei. Si tratta, sin qui, di qualcosa di ormai noto, almeno agli studiosi, ma non certo al grande pubblico. Ma Musso va oltre: all’“autentico significato della rivoluzione galileiana”.
“Sappiamo” tutti, dalla scuola e dai media, che l’eliocentrismo del canonico Copernico e del credente Galileo, avrebbe dato il primo grande colpo all’idea biblica di uomo come creatura “ad immagine e somiglianza di Dio”. “Va detto con chiarezza- controbatte Musso- che la fine del geocentrismo non significò affatto, come oggi si cerca insistentemente di far credere, anche la fine dell’antropocentrismo, inteso nel senso di una radicale svalutazione dell’uomo e della sua importanza nel disegno complessivo del cosmo”.
Questa interpretazione è del tutto forzata, anzitutto perché il geocentrismo aristotelico-tolemaico, cioè pagano, significava solo una centralità geografica, non certo “morale né tanto meno metafisica”, della Terra, che era anzi vista come il più “scadente” dei pianeti.
Lo stesso sistema tolemaico era utilizzato in epoca cristiana per le sue valenze pratiche, perché “serviva per i calcoli”, non certo perché i cristiani ne ricavassero qualche verità metafisica. Per un cristiano, all’epoca di Galilei, prima e dopo, infatti, “il valore dell’uomo non può dipendere dalla sua collocazione geografica, né da alcun altro fatto materiale, ma solo dal suo rapporto con l’infinito”.
Continuando nell’analisi di Galilei, Musso va oltre: lo presenta come l’inventore di un metodo, quello scientifico, che perfettamente si accorda col realismo cristiano. Galilei parte dall’oggetto, così come Bonaventura e Tommaso, per arrivare a Dio, esordivano dalla natura, dal cosmo, dalla traccia del Creatore nel creato, e non da un’idea a priori (come invece facevano gli antichi). Detto questo, Galilei affidava al metodo la conoscenza della realtà materiale, dei corpi, non la conoscenza tout court.
Lontanissimo dal riduzionismo materialista, “riconosceva esplicitamente il valore di almeno due metodi di conoscenza diversi da quello sperimentale: quello teologico, fondato sulla Rivelazione, e quello artistico”.
A Galilei, nella prima parte del libro, chè a quella sono costretto a limitarmi, Musso oppone Cartesio, criticando l’idea diffusa che identifica il meccanicismo ed il razionalismo cartesiani col metodo scientifico galileiano. Che rapporto c’è, ci si chiede, tra il pragmatico Galilei, che studia il libro della Natura e il libro della Rivelazione, e il filosofo che incomincia con l’ipotetico e cervellotico “genio maligno”, che continua fondando tutto sul suo “cogito”, per poi piazzare il punto di incontro tra anima e corpo, come fossero due realtà antitetiche e sostanzialmente sconnesse, nella ghiandola pineale?
Musso dimostra che presentare Cartesio come il “co-iniziatore della scienza moderna insieme a Galilei” è una mistificazione, visto che il matematico francese svalutò del tutto l’esperienza a vantaggio di una ragione astratta, “fraintese la novità del metodo galileiano”, “costruì una fisica completamente a priori”, alla maniera degli antichi, e “non diede contributi diretti alla scienza naturale”. Cartesio è, per Musso, il propugnatore del “vero dogma della modernità”: l’autosufficienza della ragione umana, chiusa all’esperienza, per cui “la ragione non può mai incontrare la verità dentro l’esperienza”.
Quanto di più “anticristiano” vi sia, visto che il metodo filosofico e morale cristiano è parente prossimo del metodo di Galilei: stare di fronte alla realtà donata, per indagarne la natura, trovarne l’Origine, per leggervi la legge morale, per riannodare le fila, tramite esperienza e ragione, di un ordine dato che porta all’Ordinatore.Il Foglio, 22 settembre 2011
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