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In occasione del 20 settembre, sarà opportuno affrontare un altro tema: la “liberazione” di Roma.
La lotta per sottrarre Roma al papato iniziò dopo la Rivoluzione francese. “A Roma, scrive Giulio Andreotti nella sua “Piccola storia di Roma”, la prima reazione alla Rivoluzione Francese fu di sostanziale indifferenza. Tuttavia, dopo la proclamazione della Costituzione Civile del clero, nel 1791, non solo Pio VI espresse la sua condanna, ma anche tra la popolazione si venne diffondendo un sentimento di ostilità nei confronti della Francia”, che culminò nel 1793 con il linciaggio dell’ambasciatore francese Hugou de Basville. Nel gennaio 1798 il generale francese L. Alexandre Berthier “occupò la città, dopo aver inutilmente sperato che il popolo insorgesse infiammato agli ideali di libertà”.
Questa tattica, tentare di far insorgere il popolo romano contro il papa, per poi intervenire presentandosi come “liberatori”, sarebbe stata riproposta, ancora senza successo, anche dai Savoia dopo il 1861. La lettura che se ne può dare è molteplice, ma il fatto è uno solo: i romani non volevano essere liberati, né nel 1798 né nel 1870.
Torniamo al 1798: Pio VI venne esiliato, il potere passò nelle mani dei francesi, e in breve “il popolo, esasperato dal gravame delle imposte” si sollevò al grido di “Viva Maria, viva Pio VI”.
Nel 1808 ci fu una nuova occupazione di Roma da parte di Napoleone, con arresto ed esilio di Pio VII, “tuttavia il popolo romano rimase sostanzialmente antifrancese. Le imposte, il regime militare, l’abolizione pressoché totale dell’articolato sistema assistenziale erano fonte di continuo malcontento, mentre le campagne erano infestate dai briganti, a cui molti si aggregavano per sottrarsi all’arruolamento nelle truppe imperiali”, perché i romani, che conoscevano la pace da svariati secoli, non si sentivano così pronti a morire per le manie di grandezza del piccolo corso[1].
Nella sua monumentale “Roma nell’Ottocento” F. Bartoccini ci dà altri dati interessanti: dichiara non più di 500-700 i presenti, molti solo per curiosità, alla proclamazione della Repubblica del 1798; ricorda che circa 15.000 persone lasciarono Roma dopo l’arresto di Pio VI; rammenta i saccheggi dei francesi a danno di chiese, confraternite, parrocchie, “la mancanza di cibo, l’aumento dei prezzi, la carenza di denaro”…[2]
Il francese Lamartine, a Roma in questi anni, notava che la città era divenuta “ben triste e deserta”, perché “Bonaparte aveva spazzato via tutti”.
Alla caduta del “liberatore” Napoleone, Pio VII rientrò, “entusiasticamente accolto” dai romani.
E’ un fatto risaputo che i moti del 1820-1821 sfiorarono appena la città del papa, e non furono romani, per lo più, ma forestieri, i carbonari e i liberali che tramarono contro il governo.
Anche la Repubblica Romana del 1849 fu una parentesi poco apprezzata dai romani. Il poeta Giuseppe Gioachino Belli, noto per le sue precedenti poesie anticlericali, non esitò a denunciare “quanto di fellonesco, di barbaro e di abbietto avesse saputo osare la depravata coscienza dell’uomo” al tempo della tanto decantata Repubblica. Aggiungeva che la plebe veniva aggirata “con mille arti da astuti cospiratori, che accorsi a sciami d’ogni contrada d’Europa assumevano in Roma voce, simulacro e diritti di popolo” e che “la peggior feccia degli agitatori, con a capo il famoso condottiero delle bande rosse, il Garibaldi, si scaricò…negli Stati ecclesiastici e in Roma, divenuta in quei tempi scolatoio di ogni immondizia”[3].
Lo storico Viglione, nel suo “1861. Le due Italie” (Ares, 2011), ricorda che nel 1867, quando il generale pontificio Kanzler entrò a Monterotondo dopo la sconfitta di Garibaldi, i locali lo accolsero come un liberatore, perché “erano stati derubati di tutto dai garibaldini e le offese fatte alle loro donne li avevano particolarmente esasperati”.
Intanto si era consumato l’attentato terroristico, da parte dei carbonari Tognetti e Monti, alla caserma Serristori: una bomba aveva dilaniato 22 zuavi pontifici e alcuni passanti, tra cui una bimba di sei anni. Lo scopo era far insorgere i romani e facilitare il contemporaneo attacco, dall’esterno, dei garibaldini. Fu l’ennesimo flop, cui seguirono la conversione religiosa e il pentimento dell’operaio Monti, e, più tardi, la trasfigurazione risorgimentale dei due terroristi, divenuti, su lapidi e libri patriottici, veri e propri “martiri”[4].
Eccoci ormai alle soglie del 20 settembre 1870. I governi italiani vogliono Roma: pagano cospiratori, spie, finanziano rivolte “spontanee”. Invano. I romani non insorgono. Pio IX decide di cedere, dopo una resistenza solo simbolica, ad un’ aggressione ingiustificata. Prima che la nuova Roma diventi “ladrona” per milioni di italiani, dal nord al sud, imponendo tasse e servizio militare obbligatorio, sono i romani i primi a deprecare i nuovi arrivati. Li chiamano “barbari” o “buzzurri”, con distacco e disprezzo, e in molti, anche tra coloro che lo avevano criticato, rimpiangono il papa[5].
[1] Giulio Andreotti, “Piccola storia di Roma”, Mondadori, Milano, 2000, pp. 109-119.
[2] F. Barroccini, Roma nell’Ottocento, Storia di Roma, vol. XVI, Istituto nazionale di studi romani, Cappelli, Bologna, 1985, pp.14-23. Analoga la narrazione di Giorgio ciucci, nella sua “Roma moderna”, Laterza, Bari, 2002. Parlando della Repubblica romana del 1798 per esempi, scrive: “ Roma, e con essa gli Stati pontifici, divenne una città occupata, sfruttata finanziariamente, saccheggiata nel suo patrimonio artistico, conventuale, religioso, mentre le venivano imposti strumenti di governo totalmente estranei alla sua cultura…”.
[3] Citato in Giovanni Orioli, “Memorie romane dell’Ottocento”, Cappelli, Bologna, 1963, p. 16.
[4] Fulvio Izzo, “L’attentato del fermano Giuseppe Monti alla caserma Serristori”, Maroni, Ascoli Piceno, 1994.
[5] Si vedano le opere citate: Barroccini, p.459-466; Andreotti, p.121; Orioli, p.23. Scrive il Barroccini che dopo il 1870 l’opposizione al nuovo governo fu generale: “Non si tratta di uno sparuto manipolo di gente, di clericali faziosi: l’opposizione, nei primi anni dopo la Breccia, si allargò a macchia d’olio coinvolgendo anche molti entusiasti filoitaliani della prima ora” (p.455), convinti che si fosse fatto “scempio della nostra Roma”. Andreotti ricorda invece la “gravità delle imposizioni fiscali” del nuovo governo; la “moltitudine di poveretti in cerca di fortuna” che arrivò dal Meridione nell’urbe; l’”esplosione edilizia incontrollata” che favorì una “cospicua speculazione”; l’esplodere della “disoccupazione” e delle “opere non compiute”…