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Foglio e Manifesto, critici sulla Libia
Di Rassegna Stampa - 26/08/2011 - Esteri - 1308 visite - 0 commenti

Ci capisco poco, di quanto sta accadendo in Libia. Vedo solo una ipocrisia immensa, sia a sinistra, dove Napolitano ha fatto da traino all'ennesima "guerra umanitaria" (versione di sinistra dell' "esportazione della democrazia": parole diverse, significato uguale), sia a "destra", dove Berlusconi, senza che la sinistra dica, stavolta, nulla, si erge ora a paladino degli insorti, dimenticando il vecchio amico, suo e di Prodi e D'Alema, e dell'Italia: Gheddafi. In mezzo a tanto schifo, mentre si rincorrono bombardamenti poco mirati, caccia ai conti libici esteri, corsa al gas ed al petrolio libico interno, viene da pensare che forse proprio il rais era meno peggio dei suoi vincitori, sepolcri imbiancati. Staremo a vedere....

Francesco

Conforta sapere, grazie ai compagni del Manifesto, che non siamo i soli ad avere eccepito sulla spedizione di Libia anche per come ce la raccontano i maestri cantori della liberazione dal tiranno di Tripoli. L’abbiamo definita “guerra stupida”, perché senza capi né code di comete a tracciare una prospettiva nel cielo delle strategie occidentali; ovvero “guerra profumata”, perché spruzzata di conformismo umanitarista anglo-francese per coprire il fondo limaccioso degli interessi elettorali e petroliferi coltivati dai volenterosi europei (quel profumo era talmente adulterato che non ha convinto nemmeno un principe delle guerre profumate come Barack Obama). Si può parlare anche di circo mediatico-militare, come ha scritto il Foglio settimane fa, e bensì di “favolosa guerra dei media” secondo la formula usata sul Manifesto di ieri da Alessandro Dal Lago, intellettuale di una sinistra troppo avveduta per bersi “una guerra televisiva che ha ben poco a che fare con quello che succede”. Tanto per rendere l’idea, è quel Dal Lago che ha dedicato alla banalità del robertosavianismo un pamphlet pressoché definitivo.

Ora l’intellò del Manifesto denuda il ruolo anti veritativo della narrazione libica proveniente da al Jazeera e da Sky, vale a dire gli arabi miliardari del Qatar infeudati con i servizi segreti di mezzo mondo e gli australo-britannici protettori di David Cameron. Si aggiungano le prefiche dell’Eliseo sempre in assetto di guerra umanitaria (Bernard-Henri Lévy e dintorni) e si otterrà il ritratto d’una confraternita di contrabbandieri. Di che cosa? Anzitutto di un’epica immaginaria alimentata dai fotogrammi sulle finte fosse comuni d’inizio rivolta (vecchi cimiteri nemmeno disordinati), dai proclami sulle sorti di Gheddafi (morto, ferito, circondato, fuggito, spacciato, da ultimo acquattato in una buca come Saddam prima dell’epilogo) e dei suoi figli, dal censimento delle città e dei quartieri nemici conquistati dai ribelli (e spesso invece nelle mani dei lealisti). Per non dire della reale qualità ideologica e militare delle tribù insorte in Cirenaica, tanto magnificate quanto dipendenti dalla Nato e dalle forze speciali europee per unità d’intenti e consistenza bellica, o dei loro capi fratricidi dal curriculum specchiatamente gheddafiano. E in effetti questa meccanica informativa è parsa subito limpidamente speculare alla disinformazione del regime di Tripoli. Ma allora dov’è il sovrappiù morale della comunicazione democratica?

Dal Lago rafforza la sua analisi volgendo lo sguardo ai leftist inglesi del Guardian: “Se i mezzi sono sbagliati, questo alla fine influisce sul risultato”. Poi rivolge un quesito retorico al mondo che gli è consanguineo, come cioè “tutto questo sia fatto passare, anche a sinistra, per una mera lotta di liberazione o un risultato della primavera araba si spiega solo, anche da noi, con la confusione che regna in un’Europa traballante e guidata da un paio di leader ossessionati dalla rielezione (Sarkozy) o che hanno le loro gatte da pelare (Cameron)”. E non è ancora chiaro come si potrà colmare, senza prima caderci dentro, il dislivello tra la guerra percepita e lo smarrimento per gli effetti del conflitto reale. (Il Foglio)

 
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